February 24, 2007

Prodi, ovvero il destino della Necessità

Non so se Luca Ricolfi sia nel giusto quando sostiene che “sono stati gli dei a disarcionare l’Unione e il suo leader.” E questo perché, fin dal principio, il governo avrebbe assunto un atteggiamento politico “sgradito” alle Loro Divine Suscettibilità, vale a dire quel misto di “orgoglio, arroganza, sfida, incapacità di accettare la propria finitudine” che i greci indicarono sinteticamente con la parola hybris (ὕβρις). Certo l’ipotesi, a parte l’ironia corrosiva, è seducente.

Oggi, dopo la sofferta decisione del presidente Napolitano di respingere le dimissioni di Prodi e di restituire la parola alle Camere, verrebbe da rispondere a Ricolfi—con altrettanta ironia, almeno si spera—che l’ultimo atto della rappresentazione ricorda vagamente il concetto che nella cosmologia greca era indicato con la parola Anánkē (Ἀνάγκη), la «Necessità», principio incontrovertibile cui nessuno, nemmeno Zeus, può opporsi.

Fatto sta che, come si poteva immaginare (e come qualcuno aveva puntualmente previsto), il governo Prodi è di nuovo on stage. Ora, poiché qui si cerca di mantenere un minimo di serenità di giudizio sulle vicende politiche, non avendo (più) nessuno da difendere o da attaccare “per partito preso,” anche se l’opinione opinabilissima dello scrivente sull’Unione e sul suo capo è assai poco indulgente (e molto simile, per dire, a quella espressa piuttosto esplicitamente qui), l’idea sarebbe quella di evitare non solo le invettive e il disfattismo ma anche quegli eccessi di severità di cui la politica nostrana è solitamente molto prodiga.

Ecco perché, tra l’altro, l’editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere di oggi mi sembra particolarmente azzeccato. Questo governo, ha scritto,


[p]otrebbe essere solo un tamponamento temporaneo della crisi, un governo destinato a infrangersi, stavolta definitivamente, su nuovi scogli entro pochi mesi, aprendo così la strada ad altre soluzioni. Oppure, potrebbe essere un governo più durevole, reso tale grazie a una forte «discontinuità», a cambiamenti (di stile, contenuti, comportamenti), rispetto all'esperienza dei primi mesi.

Sono completamente d’accordo. Come, beninteso, sono d’accordo con il resto del ragionamento, che suona più o meno così: il governo Prodi, a fortiori in considerazione del fatto che dovrebbe essere puntellato “con una poco elegante operazione di accoglimento di transfughi,” se vuol durare, deve assolutamente “cambiare passo.” E il cambio dovrebbe riguardare proprio quella hybris di cui parlava Ricolfi. Basta, insomma, tenere alta la tensione con l’opposizione e coltivare rapporti privilegiati con le componenti massimaliste, a scapito, naturalmente, del rapporto con i riformisti.

Ma qui, inevitabilmente, sorge un problema:


Per la sinistra estrema accettare una simile discontinuità (che significherebbe la perdita del rapporto privilegiato con il premier) comporta la necessità di ingoiare un rospo molto grosso. Dovrebbe subire quello che, dal suo punto di vista, sarebbe un vistoso «spostamento a destra» dell'asse politico del governo. Prodi potrebbe durare solo se la sinistra estrema si rassegnasse. Per la maturata consapevolezza di non avere alternative.

Chiaro? Prendere o lasciare, la botte piena e la moglie ubriaca, come giustamente ricordava ieri sul Riformista Emanuele Macaluso (che per altro deprecava come “insensata” l’ipotesi di riproporre la leadership di Prodi), non è proprio possibile. Aggiungerei, però, che all’ineludibilità di questa scelta radicale corrisponde anche una chance di portata storica: l’acquisizione dell’ estremismo di sinistra ad una dialettica democratica finalmente liberata dall’ossessione per la “purezza ideologica” e da un malcelato e cronico disprezzo per il pragmatismo, cioè per un atteggiamento mentale che dei partiti di governo devono necessariamente annoverare nel proprio bagaglio culturale, oltre che nella quotidiana esperienza di governo.

Rinunce, quelle, che onestamente rappresenterebbero un sacrificio eroico da parte di Pdci, Rifondazione e Verdi: Dio solo sa quanti voti potrebbe costar loro questo “cambio di passo.” Perché le classi dirigenti possono tutto, meno che cambiare in quattro e quattr’otto la testa (e il cuore) di un popolo di sinistra i cui stessi leaders hanno da tempo immemorabile abituato a pensare nella maniera che adesso occorrerebbe considerare non più al passo con i tempi e con la necessità (storica e "ontologica") di “non lasciare il Paese a Berlusconi.”

Il che, come si vede, ci riporta ineluttabilmente all’Anánkē da cui siamo partiti. Però, quale onore per Silvio Berlusconi essere la causa di una siffatta svolta epocale! Sorge spontanea, a questo punto, una domanda: che farebbero mai i nostri eroi se il Cavaliere decidesse di tornarsene a casa e di dedicarsi a tempo pieno ai suoi affari e, finalmente, alla sua famiglia?