November 8, 2006

Don't shoot the wolves

Do you remember Bruno the bear, the brown bear whose story made headlines last summer? After having been happily and safely resident in Italy for years, Bruno made the mistake of straying across the border into Bavaria, where it was shot by a hunter, despite its status as a species theoretically protected across the EU.

Well, we are facing a repeat of the fate that befell Bruno the bear, but this time it’s up to the wolves. As a matter of fact, despite theoretical protection under EU law, wolves continue to be targeted in France and Switzerland (where the most recent kill took place, at the end of last month). “In Italy the wolves must be protected,” said Italy's Environment Minister, “In France and Switzerland on the other hand they are massacred. […] We don't accept a repetition of the Bruno saga.”

As Alberto Meriggi, a researcher at the University of Pavia and an expert on the distribution of wolves in the northern Appenines, told la Repubblica newspaper, “Our decision to apply the law protecting wolves without exception has allowed the Appenine wolf to return vigorously throughout the peninsula. […] Today once again the Italian wolf is in resurgence. We must be careful not to allow the destruction of decades of work.” [Read the rest]

Well, I am equally bound to say that we should be very careful. Besides, who is afraid—as St. Francis of Assisi would have said—of Brother Wolf?


Una parola su Saddam

Sulla pena di morte a Saddam Hussein ho provato a cavarmela con l’aiuto di Jena, che in effetti mi sembrava rappresentare piuttosto bene lo stato dell’arte sulla controversa materia. Potere dell’apologo, della metafora, dell’exemplum, della favola e di tutto ciò che ci può stare, in luogo di una disamina serrata e incalzante, riccamente argomentata, ecc. Ma anche un modo per dribblare luoghi comuni e dibattiti pretenziosi, per sfuggire alla sensazione sgradevole di aver perso l’ennesima occasione per stare in silenzio.

E’ così, lo confesso, penso che il blogger che non conosce il valore del silenzio—e non sappia raccogliere le occasioni per applicarne la lezione—non meriti di essere letto. Così come il blogger che, quando vi si imbatte, non sa riconoscere un’argomentazione che sta una spanna su tutte le altre e non coglie al volo l’opportunità di sottrarla all’oblio cui la folla degli altri discorsi condanna inevitabilmente quei pochi che non si possono e non si devono perdere.

E allora ecco questa mirabile riflessione di Sergio Soave letta sul Foglio di oggi, non su Avvenire, come al solito. Copiata e incollata qui di seguito.

Perché chi dice nessuno tocchi Saddam non la dice tutta (giusta)


Al direttore - La contrarietà all’esecuzione della condanna a morte di Saddam Hussein può avere una sola ragione rispettabile, l’obiezione di coscienza alla pena di morte. Ha le carte in regola per invocarla soltanto chi si è opposto sempre e comunque al patibolo, compresi quelli di Norimberga, compreso quello di Piazzale Loreto. Invece in questi giorni ne sono state accampate tante altre “ragioni”, di ordine politico, giuridico, storico o morale, che a me paiono speciose e infondate.

Sul piano politico si sostiene che l’esecuzione della sentenza peggiorerebbe le prospettive di pacificazione dell’Iraq, accrescendo invece le probabilità di una guerra civile tra i sunniti, offesi dalla condanna del loro leader, e gli sciiti e i curdi, che invece ne gioiscono. Il problema è esattamente l’opposto: finché i sunniti penseranno alla possibilità di una restaurazione saddamita, la pacificazione, che non può che essere il risultato del riconoscimento della sconfitta del baathismo, resterà ardua e incerta. Quando Luigi Longo decise di far fucilare Benito Mussolini ragionò esattamente in questo modo, cinico se si vuole, ma realistico. Il capo dei partigiani comunisti non voleva neppure che si celebrasse un processo al capo del fascismo sconfitto, perché temeva che questo gli avrebbe fornito una tribuna pericolosa. Questo ci riporta alla scelta che fu compiuta dall’America di fare il possibile per catturare Saddam vivo in modo da poterlo processare. Gli americani pensavano l’esatto contrario di Longo, che un rais ucciso con le armi in pugno sarebbe diventato un martire, mentre un processo pubblico condotto da una corte irachena avrebbe messo in luce i suoi orrendi crimini. Può darsi che in questo l’Amministrazione americana abbia peccato di idealismo, non di cinismo.

Nella cultura islamica la punizione attraverso il patibolo è la norma, radicata nella cultura e nella religione. In quasi tutti i paesi islamici vige la pena di morte, che è stata abolita in Turchia soltanto per le pressioni europee. E’ un po’ sorprendente che i sostenitori del multiculturalismo, che rifiutano di sottomettere a criteri che nascono dalla difesa dei diritti universali dell’uomo aspetti delle società islamiche come la sottomissione della donna, l’imposizione del velo e soprattutto l’idea della guerra santa, in questa occasione dimentichino che l’obiezione radicale alla pena di morte è un principio che si è affermato, peraltro assai recentemente, soltanto in una parte della società occidentale, e che quindi la sua imposizione a un paese come l’Iraq avrebbe il carattere di un evidente colonialismo culturale.


Dal punto di vista giuridico è stata avanzata l’annosa questione del dubbio diritto dei vincitori di processare gli sconfitti. Bisogna sapere che se si accetta questa tesi si garantisce l’impunità a tutti i dittatori, per sanguinaria e disumana che sia stata la loro condotta. La distinzione che viene fatta tra un tribunale internazionale, che avrebbe il diritto di processare i rei di violazione dei diritti umani, e un tribunale nazionale che invece risentirebbe degli odi di parte è un’altra espressione di, più o meno inconsapevole, razzismo. Perché Oscar Luigi Scalfaro aveva il diritto, come giudice di un tribunale italiano, di comminare la pena di morte ai gerarchi fascisti che si erano macchiati di delitti nel corso della guerra civile, mentre ai giudici iracheni questo sarebbe inibito?