February 27, 2007

Gallinacei

Oggi, sul Foglio, Andrea's Version si riallaccia al mio post precedente per sottolineare il concetto ...

Niente psicodrammi, qui, niente linciaggio morale, niente cazzottoni sul treno, niente insulti da curva di stadio, nessun sobbollimento di emozioni forti e sporche. Di più. Oggi come oggi, nemmeno fischi. Ancora di più. Nemmeno critiche severe, battute caustiche, ironie o perfidie che in qualsiasi altro momento sarebbero ovvie e del tutto legittime, ma rischierebbero al presente, e nella nostra Italia, di essere equivocate da chi gioca sempre a equivocare, come psicodramma, appunto, linciaggio morale, insulto da curva, o come il ribollire delle emozioni di cui sopra. Senza neanche dover parlare di rispetto personale, di cattiveria politica e di disconoscimento plateale del diritto della persona a dire e a fare quel che fa. Questo non era in discussione ieri, non lo è oggi e non lo sarà domani. Chi passa dall’altra parte, passa dall’altra parte, punto e basta. A maggior ragione in Parlamento. Questo non toglie che ci deve pur essere un accidente di motivo se per dire gallinaceo, che sta poi per pollo, agli inglesi basta pronunciare “fol” e si capiscono al volo.

Cari amici della destra

Cari amici della destra, tra le cose che mi è capitato di leggere sulla stampa nazionale da qualche lustro a questa parte, l’editoriale di Giuliano Ferrara sul Foglio di ieri, lunedì 26 febbraio 2007, è quella che maggiormente ha colpito la mia immaginazione. Una tale sintonia nel modo di concepire la dialettica politica è una di quelle esperienze che lasciano il segno.

Se quello straordinario manifesto, pur nella sua semplicità, di ciò che la politica, sempre e per chiunque, dovrebbe essere—e per qualcuno è effettivamente—diventasse il vostro manifesto, come l’elefantino propone, con un atto di fede io lo sottoscriverei e non esiterei a considerarmi dei vostri. Del resto, non credo ci sia alcuna speranza che questa sinistra—malgrado le solite, rarissime (e preziose, lodevoli, commoventi) eccezioni—possa farlo proprio.

Il vero discrimine, forse, consiste proprio nel fatto che un editoriale come quello del direttore del Foglio non poteva essere concepito che da quella parte. Ma questa, almeno per me, non è una rivelazione: è la sintesi di un insieme di dati effettuali e di riflessioni a volte tutt’altro che facili. Se oggi l’ironia, il fair play, la tolleranza, hanno abbandonato la rive gauche per trasferirsi sulla rive droite, il minimo che si possa fare è prenderne atto una volta per tutte. E trarne le necessarie conseguenze.

Ho trascritto e riportato qui sotto gran parte dell’editoriale. Il testo integrale può essere consultato qui (in versione pdf).

Avviso ai naviganti: se Follini vota la fiducia al governo Prodi e, di conseguenza, subisce una volgare aggressione, chi lo aggredisce è un bischero. Direi anzi che la differenza egemonica tra destra e sinistra si gioca tutta qui, sul tema del linciaggio morale inferto ai dissidenti, e proprio su questo punto si potrà dire, se gli incontinenti dell’opposizione sapranno trattenre i loro spiriti animali: destra è meglio. Suggerisco al Cav. di invitare a pranzo Follini, cosa che personalmente avrò il piacere di fare comunque io stesso già oggi, e di parlare con lui (habla con ello, sii hidalgo). Votare la fiducia a Prodi è una bestialità politica, e anche un po’ comica da parte di una persona seria come Follini, ma il rispetto personale non è in discussione, nella politica italiana deve tornare a viva forza il fair play.


Critiche severe, battute caustiche, ironie e perfidie, un fischio elegante e contegnoso, un buuuuuuhhhhh degno della Camera dei comuni, e poi stop. Gli psicodrammi sul Paese riconsegnato all’avversario, i cazzotti sul naso come succede in quel gruppetto facinoroso che si onora del nome comunista, tutto quel ciarpame da curva di stadio, quel pagliaccesco sobbollire di emozioni forti e sporche, la destra lo scansi. Il Cav. Prenda carta e penna, o sfoderi uno di quei suoi sorrisi arlati, e spieghi chiaramente ai tifosi gagliardi del suo partito e della sua coalizione che non devono valicare il confine oltre il quale c’è la psicologia ferina della teppa ideologica.
[…]
Lasciamo i linciaggi all’epica di mani pulite e dello spirito forcaiolo, al salotto buono e un po’ ubriaco dei Colombo e dei Tabucchi, alla cultura che ha preparato l’omicidio di Marco Biagi con la character assassination precedente lo sparo, alle dispute onto-ideologiche di chi coltiva in nome dell’idealissmo la filosofia del branco. Nessuno personalmente è un nemico in Parlamento e nel paese. Nessuno è un traditore.
[…]
Comunque sia, e comunque deciderà, anche se per il peggio, Follini è un politico della prima Repubblica e della Dc che stava nel centro sinistra da buon Doroteo, è un intellettuale della politica che ha tentato di dare una dimensione moderata alla destra e ora dice di voler fare la stessa operazione con un nuovo centro sinistra. Queste cose le ha motivare, ci ha scritto su libri. Ha agito in modo rispettabile, con un suo stile.
E il suo stile può essere oggetto di irrisione, di critica rigorosa, di controargomentazione, anche di sberleffo, ma non di cattiveria politica personale, di disconoscimento plateale del diritto della persona a dire e a fare quel che fa. Scegliete dunque il tono e la musica giusta per cantargliele, se Follini confermerà che varca la linea, perché se sbagliate spartito, cari amici della destra, allora non scriveremo che destra è meglio. Scriveremo che e diremo che destra è uguale. Anzi, peggio.

February 26, 2007

I due macigni sospesi sul governo Prodi

In punta di fioretto, Giovanni Sartori risponde sul Corriere all’editoriale di Angelo Panebianco che qui è stato commentato (molto favorevolmente) sabato scorso. Il “cambio di passo” evocato da Panebianco come unica possibilità di salvezza per il governo Prodi («l'epoca delle sberle quotidiane all'opposizione è finita») non convince Sartori:

[d]ubito che questo nuovo corso sia congeniale alla natura di Prodi. Prodi è uomo di bunker. La sua strategia del muro contro muro, del polo puro e duro, non è di questa legislatura; è una costante sin dal primo governo Prodi, che si autoaffondò nel 1998 pur di non macchiare la sua purezza «aprendosi» a Cossiga.

Ma se Prodi “è uomo di bunker,” sulla qual cosa credo si possa essere d’accordo, resta il fatto che i numeri per “fare bunker” non ci sono. E dunque? Dunque, secondo Sartori, poiché “senza il sostegno di numeri non si può trasformare un passino, o un colabrodo, in un muro,” non resta che aspettare e vedere se Prodi sarà capace di rinunciare ad essere se stesso.

Mi sembra un’impostazione molto realistica. In realtà non la trovo nemmeno in contraddizione con quella di Panebianco: semplicemente, per così dire, la prolunga. Il problema si aggrava se aggiungiamo una considerazione elementare: se anche Prodi riuscisse, quante probabilità ci sarebbero che il suo disordinato esercito si riallinei e sia finalmente disposto a marciare compatto? Non è il solo Prodi, infatti, a dover rinunciare a se stesso, c’è anche la sinistra massimalista. Dunque sono due le incognite che gravano sul governo, e l’una e l’altra “si tengono.” Anzi, più che di incognite bisognerebbe parlare di autentici macigni.

February 25, 2007

Se Prodi cade di nuovo

Sergio Romano, sul Corriere di oggi, spiega molto bene perché il presidente della Repubblica non poteva che prendere atto delle “assicurazioni” del presidente del Consiglio. Infatti, se avesse agito altrimenti, “avrebbe corso il rischio di aprire, insieme alla crisi politica, una più grave crisi istituzionale.” Ma, attenzione, Napolitano

ha rinviato il premier alla Camere con una dichiarazione da cui traspare una sorta di rassegnazione. Coloro che s’interrogano sui sentimenti e le intenzioni del capo dello Stato hanno probabilmente notato uno degli argomenti con cui ha giustificato il rinvio del governo alle Camere: «Le ipotesi legittime e motivate di sperimentazione di una diversa e più larga intesa di maggioranza, a sostegno di un governo impegnato ad affrontare le più urgenti scadenze politiche e in particolare la revisione della legge elettorale — ipotesi sostenute da alcuni componenti della Casa delle libertà — non sono risultate sufficientemente condivise per poter essere assunte come base della soluzione della crisi del governo Prodi».
Grazie a queste parole sappiamo quale potrebbe essere, se il governo cadesse una seconda volta, lo sbocco della prossima crisi.

Reuters Africa

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Un notiziario sull'Africa targato Reuters.

Hat tip: Enzo.

February 24, 2007

Prodi, ovvero il destino della Necessità

Non so se Luca Ricolfi sia nel giusto quando sostiene che “sono stati gli dei a disarcionare l’Unione e il suo leader.” E questo perché, fin dal principio, il governo avrebbe assunto un atteggiamento politico “sgradito” alle Loro Divine Suscettibilità, vale a dire quel misto di “orgoglio, arroganza, sfida, incapacità di accettare la propria finitudine” che i greci indicarono sinteticamente con la parola hybris (ὕβρις). Certo l’ipotesi, a parte l’ironia corrosiva, è seducente.

Oggi, dopo la sofferta decisione del presidente Napolitano di respingere le dimissioni di Prodi e di restituire la parola alle Camere, verrebbe da rispondere a Ricolfi—con altrettanta ironia, almeno si spera—che l’ultimo atto della rappresentazione ricorda vagamente il concetto che nella cosmologia greca era indicato con la parola Anánkē (Ἀνάγκη), la «Necessità», principio incontrovertibile cui nessuno, nemmeno Zeus, può opporsi.

Fatto sta che, come si poteva immaginare (e come qualcuno aveva puntualmente previsto), il governo Prodi è di nuovo on stage. Ora, poiché qui si cerca di mantenere un minimo di serenità di giudizio sulle vicende politiche, non avendo (più) nessuno da difendere o da attaccare “per partito preso,” anche se l’opinione opinabilissima dello scrivente sull’Unione e sul suo capo è assai poco indulgente (e molto simile, per dire, a quella espressa piuttosto esplicitamente qui), l’idea sarebbe quella di evitare non solo le invettive e il disfattismo ma anche quegli eccessi di severità di cui la politica nostrana è solitamente molto prodiga.

Ecco perché, tra l’altro, l’editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere di oggi mi sembra particolarmente azzeccato. Questo governo, ha scritto,


[p]otrebbe essere solo un tamponamento temporaneo della crisi, un governo destinato a infrangersi, stavolta definitivamente, su nuovi scogli entro pochi mesi, aprendo così la strada ad altre soluzioni. Oppure, potrebbe essere un governo più durevole, reso tale grazie a una forte «discontinuità», a cambiamenti (di stile, contenuti, comportamenti), rispetto all'esperienza dei primi mesi.

Sono completamente d’accordo. Come, beninteso, sono d’accordo con il resto del ragionamento, che suona più o meno così: il governo Prodi, a fortiori in considerazione del fatto che dovrebbe essere puntellato “con una poco elegante operazione di accoglimento di transfughi,” se vuol durare, deve assolutamente “cambiare passo.” E il cambio dovrebbe riguardare proprio quella hybris di cui parlava Ricolfi. Basta, insomma, tenere alta la tensione con l’opposizione e coltivare rapporti privilegiati con le componenti massimaliste, a scapito, naturalmente, del rapporto con i riformisti.

Ma qui, inevitabilmente, sorge un problema:


Per la sinistra estrema accettare una simile discontinuità (che significherebbe la perdita del rapporto privilegiato con il premier) comporta la necessità di ingoiare un rospo molto grosso. Dovrebbe subire quello che, dal suo punto di vista, sarebbe un vistoso «spostamento a destra» dell'asse politico del governo. Prodi potrebbe durare solo se la sinistra estrema si rassegnasse. Per la maturata consapevolezza di non avere alternative.

Chiaro? Prendere o lasciare, la botte piena e la moglie ubriaca, come giustamente ricordava ieri sul Riformista Emanuele Macaluso (che per altro deprecava come “insensata” l’ipotesi di riproporre la leadership di Prodi), non è proprio possibile. Aggiungerei, però, che all’ineludibilità di questa scelta radicale corrisponde anche una chance di portata storica: l’acquisizione dell’ estremismo di sinistra ad una dialettica democratica finalmente liberata dall’ossessione per la “purezza ideologica” e da un malcelato e cronico disprezzo per il pragmatismo, cioè per un atteggiamento mentale che dei partiti di governo devono necessariamente annoverare nel proprio bagaglio culturale, oltre che nella quotidiana esperienza di governo.

Rinunce, quelle, che onestamente rappresenterebbero un sacrificio eroico da parte di Pdci, Rifondazione e Verdi: Dio solo sa quanti voti potrebbe costar loro questo “cambio di passo.” Perché le classi dirigenti possono tutto, meno che cambiare in quattro e quattr’otto la testa (e il cuore) di un popolo di sinistra i cui stessi leaders hanno da tempo immemorabile abituato a pensare nella maniera che adesso occorrerebbe considerare non più al passo con i tempi e con la necessità (storica e "ontologica") di “non lasciare il Paese a Berlusconi.”

Il che, come si vede, ci riporta ineluttabilmente all’Anánkē da cui siamo partiti. Però, quale onore per Silvio Berlusconi essere la causa di una siffatta svolta epocale! Sorge spontanea, a questo punto, una domanda: che farebbero mai i nostri eroi se il Cavaliere decidesse di tornarsene a casa e di dedicarsi a tempo pieno ai suoi affari e, finalmente, alla sua famiglia?

February 22, 2007

Il più grande spettacolo del mondo

Quello della politica italiana è uno spettacolo fantastico. D’accordo, la politica nonostante i tanti palcoscenici sui quali i suoi personaggi si esibiscono, non è principalmente un circo, non è la tv e, men che meno, il varietà o l’avanspettacolo. Tuttalpiù, proprio volendo restare in tema di rappresentazione scenica, potrebbe essere assimilata alla tragedia—che so, il Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra, Coriolano, ecc.

Comunque, anche se lo spettacolo è quello che è, sbaglia di grosso chi se ne allontana disgustato e si arrende all’«inutilità», non all’«impossibilità», di governare gli italiani—secondo l’efficace, ancorché brutale e offensiva, formula adoperata dalla “buonanima.” Bisogna, cioè, stare al gioco, conservare il buonumore, prendere le cose con filosofia e continuare a tirare la carretta.

Ma perché dico che stiamo assistendo ad uno spettacolo fantastico? Beh, mi pare ovvio, ma, siccome non tutti hanno le stesse percezioni, mi spiego. Avete per caso seguito Porta a porta ieri sera? Bene, presenti gli interventi dell’ottimo Willer Bordon? Era arrabbiatissimo con … l’opposizione. Una performance memorabile. Un altro esempio? Una dichiarazione come questa:


«È necessario rinsaldare la coalizione, criminale sarebbe consegnare il Paese alle destre o procedere verso ipotesi che tradirebbero il mandato elettorale, tipo larghe intese o ipotesi neocentriste».


Queste parole sono di Oliviero Diliberto, capocomico assoluto della scena italica. Un’analisi semantica minimamente approfondita, e persino un po’ rozza, della sentenza non può che produrre, a mio modesto avviso, effetti sconvolgenti nell’analizzatore. Dividiamola per comodità:
1. È necessario rinsaldare la coalizione
2. criminale sarebbe consegnare il Paese alle destre
3. o procedere verso ipotesi che tradirebbero il mandato elettorale …

Abbozzo di analisi:

1. In sostanza chi fa cadere un governo (perché lui, Diliberto, se siamo onesti intellettualmente, è quasi altrettanto responsabile del suo senatore “traditore,” con la differenza che quest’ultimo ha avuto il coraggio di dire quel che il suo capo e i tre quarti dei comunisti italiani, dai vertici alla base, pensano) lo vuole nel contempo rinsaldare: cosa normalissima, in fondo …
2. Scopriamo che c’è qualcosa di politicamente più criminale di sinistre che tengono perennemente sotto ricatto e fanno cadere un governo nientemeno che sulla politica estera: non ne dubitava nessuno, ad esempio consegnare il Paese ai fascisti (quelli che si dichiarano tuttora tali) o ai comunisti (idem).
3. Il tradimento del mandato elettorale evidentemente non abita dalle parti di chi dopo appena otto mesi provoca la caduta del governo …

A me tutto questo sembra geniale: un misto di Pirandello, Beckett, Jonesco, Kafka, Dario Fo (of course), Totò e giù per li rami fino ai Guzzanti e, naturalmente, al Bagaglino. Fantastico. E uno dovrebbe smettere di interessarsi alla politica? Ma come si può lasciare la scena mentre impazzano sui palcoscenici d’Italia protagonisti di questo livello?

Vabbè, passiamo a cose serie. Personalmente non ho molto da dire: è successo quello che mi aspettavo. E secondo me Prodi non è morto (non è neppure vivo, ma questo non vuol dire che sia morto: ci sono tante di quelle forme di vita …). Dunque mi aggancio ad autorevoli commenti altrui.

Sono molto d’accordo, per dire, con Ernesto Galli della Loggia, che nel suo editoriale odierno sul Corriere elogia D’Alema (che era e rimane—parlo per me—di gran lunga il migliore dei suoi):

Non ha mai mancato di rivendicare il significato e la coerenza della sua azione alla Farnesina, ha sottolineato la svolta che a suo giudizio quell'azione manifestava rispetto al governo precedente, ha sempre cercato di difenderla dalle pressioni che miravano a spostarla su un terreno più radicale, di rottura più o meno palese con il quadro tradizionale delle nostre alleanze. In questo sforzo quotidiano il nostro ministro degli Esteri ha fatto qualcosa che in Italia non è certo usuale: ha parlato con nettezza, e lo ha fatto ripetutamente. Ha detto fuori dai denti, rivolto ai turbolenti soci della sua coalizione militanti nella sinistra radicale, che un governo che si rispetti deve potersi reggere su una propria maggioranza in politica estera; che su un tema così decisivo non sono ammissibili apporti dell'opposizione; che se non si sta su questa strada allora l'unica alternativa è quella di abbandonare la partita. Non solo. D'Alema ha fatto di più: su ciò che andava dicendo ha deciso di impegnare la propria personale immagine di uomo di Stato. Dando una lezione di quella che si chiama «responsabilità politica», e insieme una lezione altrettanto importante di moralità politica, ha fatto chiaramente capire che in caso di sfiducia al suo operato di sicuro egli non avrebbe potuto restare al suo posto.

La lode, tuttavia, è a doppio taglio:

Una cosa sola pensiamo che l'opinione pubblica possa chiedere in questo momento a Massimo D'Alema: una parola, un gesto, veda lui quale, che comunque non dissipi la lezione di serietà, di impegno e di coerenza, che le sue parole hanno offerto al Paese nelle settimane passate.

Perfetto. Ben altra classe rispetto all’editoriale di Ezio Mauro su la Repubblica, che comincia bene:

Il dramma della sinistra sta alla fine in un paradosso: nelle condizioni attuali senza l'ala radicale non si vince, ma con l'ala radicale non si governa. E tuttavia si dovrà ad un certo punto parlar chiaro davanti ai cittadini, spiegando qual è l'Italia del futuro, che Paese ha in mente la sinistra, come lo vuole veder crescere. La lezione della crisi è quella di costruire al più presto una forte piattaforma riformista , il partito democratico, cioè una vera sinistra di governo con vocazione maggioritaria …

e finisce malissimo:


… capace di allearsi con i radicali sfidandoli per l'egemonia culturale, costringendo i leader a uscire da ogni ambiguità: perché anche in Italia non si può stare nello stesso tempo e per sempre in piazza e al ministero.

Insomma, le "convergenze parallele." Ma, a parte questo, l’Unione non è già ciò che Mauro prospetta, e cioè l’alleanza dei riformisti con i massimalisti?

Un giudizio al volo. Sbotta Enrico Boselli contro Fausto Bertinotti:

«Quando si dice "se potessi, anch'io andrei a Vicenza", prima o poi i guai arrivano. Si tira la corda. E ora si è spezzata».

Come si diceva sopra a proposito di Diliberto.

Concludo con Francesco Cossiga, intervistato da Il Tempo:

Qual è la prima nota sull’agenda di Napolitano, per le nuove consultazioni?
«Per il Capo dello Stato non vi è alternativa al reincarico a Prodi, perché l’unica maggioranza possibile resta quella a sinistra».
Con forze fresche, inevitabilmente.
«La chiave di tutto è leggere l’atteggiamento delle ultime ore all’interno dell’Udc. Hanno mandato un segnale trasparente: si sono astenuti al Senato su una questione tanto delicata, così da dire al centrodestra: non vogliamo far cadere l’Unione, e con voi non pensiamo neppure a governare».
Andiamo verso l’abbraccio totale al centro?
«Fino a 48 ore fa, l’Udc ripeteva alla Margherita: "vorrei ma non posso". Ora, con chiarezza, affermano: "si può fare". Naturalmente vorranno una cospicua contropartita».
L’ascesa di Pierferdinando. «Casini vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri».
E questo rafforzerebbe Prodi?
«Non dimentichiamo che in quell’area ha già Follini».
Niente larghe intese.
«Non ne vedo, al momento. Come fanno a cooptare An? E se si va alle elezioni occorrerà tener presente la variabile della sinistra radicale».
Che è quella che ha minato sin dagli esordi la stabilità dell’Esecutivo.
«Ma che non si schiererebbe mai con il Cavaliere. Mentre in un Prodi bis non si terrà fuori dal gioco delle poltrone. Non possono governare se non con questo tipo di scenario. Vedrà che Comunisti e Verdi restano dentro».



Chissà che non vada proprio a finire così. Non si può avere tutto dalla vita.

February 18, 2007

Pausa


Ci risentiamo mercoledì, al più tardi giovedì. Saluti.

February 16, 2007

Rudy in 7 minuti

Vengo da un periodo di super-lavoro (arretrato), e di conseguenza da una latitanza dal blog e dalla blogosfera in generale terminata ieri notte (cioè oggi, a rigor di data). Sto a poco a poco riprendendo l’ispezione dei blogs di abituale consultazione e, come prevedibile, trovo roba interessante ma datata. Ad esempio questo pezzo di Camillo-Christian Rocca su Rudy Giuliani. Apparso sul Foglio del 14 febbraio, chi lo avesse perso farebbe bene a non lasciarselo scappare un’altra volta. Ottimo per capire quali chances può avere l’ex primo cittadino di New York—o “the America’s mayor”, come continuano a chiamarlo alla Fox News—nella corsa alla candidatura repubblicana alle prossime presidenziali USA.

Suggestiva la conclusione del quadretto. George Will, del Washington Post, è convinto che presso l’elettorato Rudy avrà il vantaggio della "domanda dei 7 minuti:"

“Al momento della scelta la gente si porrà la domanda dei 7 minuti. Scenario da incubo, siete il consigliere per la sicurezza nazionale. Venite svegliati nel pieno della notte. Avete 3 minuti per ricevere i dettagli di un imminente attacco agli Stati Uniti. Il presidente, da voi avvisato, ha 4 minuti per rispondere. E ora: chi è il candidato che si adatta meglio alla domanda dei 7 minuti?”

Imparare, laicamente, dalla Chiesa

Che quella che stiamo vivendo sia «un’epoca interessante»—secondo la micidiale maledizione cinese: “Ti auguro di vivere in un’epoca interessante!”—penso ci siano ragionevolmente pochi dubbi. Nel mondo succede quel che succede, e nel nostro piccolo, in Italia, ci stiamo dando da fare senza risparmio, con una escalation che, almeno apparentemente, nelle ultime settimane ha assunto i ritmi e l’intensità di un autentico incubo.

Premetto che sono allergico ai toni apocalittici ed ai catastrofismi, e che il piangersi addosso elevando alti lai o, peggio ancora, evocando anatemi e invocando improbabili catarsi collettive (con annessi roghi ed altre sottospecie di riti purificatori e palingenetici) lo considero una pratica intollerabilmente ipocrita, oltre che sterile. Però …, però non si può neppure far finta di nulla o minimizzare disinvoltamente quello che sta succedendo. L’elenco è lungo: si va dal massacro di Erba ai fatti di Catania, dal ritorno (songiurato, sembra) delle BR alle tensioni e alle paure per la manifestazione di Vicenza, passando per le intemperanze verbali del solito Diliberto che, per un pugno di voti, dichiara erga omnes che il capo dell’opposizione “gli fa schifo” (ma questa faccenda non meriterebbe neppure l’onore della citazione). Senza dimenticare il bullismo nelle scuole e i filmati “killer” dei micidiali telefonini in uso tra i nostri ragazzi.

Se a ciò si aggiungono le più recenti e accesissime dispute in materia di bioetica e lo scontro sui Pacs (o “DICO” che dir si voglia), il cerchio si chiude. Risultato: una specie di scontro di (in)civiltà, un bellum omnium contra omnes senza esclusione di colpi, con un tasso di intolleranza e di odio verbale, ideologico e “pratico” che penso abbia pochi precedenti nella nostra storia recente.

C’è di che essere francamente disgustati, sul piano culturale, psico-sociologico, umano, ecc, fin quasi a essere tentati di dimettersi da questa società… E da un punto di vista politico c’è di che disamorarsi della res publica. Direbbe il solito pessimista metodologico: se le cose stanno così, se la politica è, se non addirittura dannosa, quanto meno inutile, fatevela da soli, e così via, di qualunquismo in populismo e buona notte al secchio. E invece no. Neanche per sogno, neanche per scherzo: questo è esattamente il momento di essere fino in fondo civil society e di “far politica,” di non lasciarsi impressionare dalle grida e dalle risse e di tenere ferma, come si suol dire, la barra del timone. Già, ma come si fa? Attenzione: non cosa (non è così semplice, purtroppo) ma come. Bene, abbiamo un esempio: impariamo dalla Chiesa.

Quella Chiesa che, con una presa di posizione sui “DICO” (e prima ancora sul caso Welby) che più intransigente non poteva essere, ha dimostrato ancora una volta di essere una delle poche cose serie di questo Paese. Attenzione, a mio avviso non occorre “sposare” la linea della CEI per riconoscere alla Chiesa di aver agito in maniera appropriata: se, come nel caso Welby, sui diritti delle coppie di fatto si è scelta la via della contrapposizione e si è buttato a mare il dialogo, una logica c’è. E non è quella rinfacciata dagli oppositori, cioè di voler egemonizzare, dominare o imporre alcunché. Al contrario, come alcuni commentatori hanno osservato, è proprio perché i cattolici sono oggi in minoranza che era necessario ed opportuno assumere un atteggiamento tanto duro.

Semplicemente la Chiesa ha capito che in questa fase storica ci stiamo giocando tutto. Ha colto l’eccezionalità del momento, il rischio che le nostre società stanno correndo, ed ha messo sul tappeto tutto il suo prestigio, rinunciando ai tatticismi e ai compromessi. Se deve perdere, perderà su posizioni chiarissime, senza doversi far perdonare anche qualche furberia di troppo.

Gli oppositori, a questo punto, osservano che c’è il rischio che la Chiesa abbia partita vinta su tutto il fronte, e naturalmente si disperano per questo. E’ vero, la maggioranza di governo potrebbe soccombere di fronte a questo attacco frontale. Ma, a ben vedere, la colpa non sarebbe della Chiesa, bensì di coloro i quali si ostinano a far politica in quanto cattolici pur stando in una coalizione che è saldamente in mano alle componenti a-cattoliche e/o laiciste presenti nel Parlamento della Repubblica, e l’aut aut della gerarchia ecclesiastica serve appunto a dimostrare che è ora di finirla con le commedie: se stai da quella parte non rappresenti ciò che dici di rappresentare, a meno che tu non faccia come Mastella (che se ne infischia di come votano i suoi alleati e va per la sua strada). Insomma, Rosi Bindi è servita.

Ma qualche imbarazzo può esserci anche nello schieramento opposto. Giorgio La Malfa, che pure sta dalla parte “giusta,” osservava un paio di giorni fa che uno stato laico semplicemente non può non dare adeguato riconoscimento giuridico alle coppie di fatto: beh, penso che abbia ragione, ma lui non è un politico che si qualifica pubblicamente come un cattolico in politica (e proabilmente, per quanto ne so, non è neppure un credente), dunque può permettersi questo e altro. Anche un credente che milita in un partito che non reca l’aggettivo “cristiano” nella sua ragione sociale, quando è nell’esercizio delle sue funzioni parlamentari, può orientarsi laicamente e manifestare il proprio dissenso politico (non etico, naturalmente) dalle posizioni del Papa e della Chiesa. Credo che così mi regolerei anch’io, se fosse inevitabile.

Insomma, la Chiesa ha sparigliato. E lo ha fatto perché ha deciso che è arrivato il momento di leggere i “segni dei tempi.” Ha saputo assumersi le proprie responsabilità davanti a Dio e alla storia. Ha deciso di rischiare grosso. Ha scelto, forse, anche tenendo d’occhio la “comprensibilità” delle proprie posizioni, a costo di rinunciare a quella duttilità e sottigliezza di discernimento che in tempi normali consente di evitare spaccature inutili, ma che in tempi straordinari rischia di annacquare la forza del messaggio. In guerra, ad esempio, funziona così. I cattolici sono avvertiti. I politici facciano come credono, ma non mettano in mezzo la Chiesa se non se la sentono di seguirne le “direttive” senza se e senza ma.

Sospettare che dietro questo atteggiamento ci sia un cupo pessimismo, una sorta di radicale sfiducia nel nostro tempo, sarebbe lecito, se non addirittura ovvio. Ma chi conosce solo un po’ la storia della Chiesa, o la storia tout court, non ci casca. La verità è invece che la nave di Pietro ha superato molte tempeste, e di conseguenza chi la governa ha ben appreso l’arte di scrutare l’orizzonte per prevenire l’irreparabile o almeno per ridurre al minimo i danni.

Così dovrebbero imparare a fare anche i non chierici che si prendono cura della res publica. Senza piagnucolare, ma anche senza atteggiamenti da Titanic. Dovrebbero, anzi dovremmo, imparare a sparigliare, come ha saputo tante volte fare la Chiesa. Il guaio è che noi siamo in generale poco disposti a farci guidare dallo Spirito Santo …

February 9, 2007

What are we afraid to do?


Always do what you are afraid to do.
Ralph Waldo Emerson

Is it because Ralph Waldo Emerson—among my intellectual heroes—is my favorite that I absolutely love the above quoted sentence, or is it because of the sentence that the great American poet and essayist is my favorite intellectual hero? It’s a tough question, really. Well, perhaps a moot question, and anyway it might not be a major problem for most people ...

The real problem, instead, is perhaps that we are afraid of a lot of things. At least until we get involved with them. As a matter of fact, when this happens, when circumstances put someone in a condition to do something, things might seem to become less dramatic. And you might also realize that if you run away because you are afraid to do something, you pass opportunity by.

Better still, the problem could be described more accurately as laziness than as fear, so that most times we are afraid more of what we are too lazy to do than what we are too cowardly to face.

That is why, in my opinion, the best mental attitude is that which consists in forcing our natural laziness, that is what most of the times make cowards of us all, even and especially when things seem to be going against us.

February 6, 2007

Emporio cattolico

Come i lettori di questo blog sanno, qui Vittorio Messori gode di ottima stampa. Premessa indispensabile per decidere se continuare a leggere oppure no. Infatti il Nostro, malgrado l’enorme successo, non è detto che vada a genio a tutti i cattolici, così come non è scontato che i “laici”—sia pure in quest’epoca di contrapposizioni esasperate—lo debbano avere in uggia. Ora, poi, ha appena dato alle stampe un nuovo libro, dunque estimatori e non, di entrambe le aree culturali, sono sul chi vive: avvertirli è una misura prudenziale, un segno di rispetto, perfino.

Intendiamoci, non ho intenzione di recensire il libro, che del resto ho appena acquistato ... Oltretutto, di recensioni, che io sappia, ce ne sono già due, ottime. Le ha scritte entrambe—e senza minimamente ripetersi—Francesco Agnoli: una per Il Foglio di sabato 3 febbraio, che accludo qui di seguito, l’altra per L'Adige del 12 gennaio, che si può leggere sul sito ufficiale di Vittorio Messori, curato dal bravissimo Sebastiano Mallia (che ha pure un blog). In ogni caso, mettere in condizione di leggerle chi non le ha ancora lette mi sembra già una buona cosa.

Insomma, per quel che mi riguarda, potrei dire: missione compiuta. Ma prima di congedarmi vorrei dire ancora una cosa. Sapete perché Messori è unico? Perché è un cattolico di formazione “laica.” Lo ricorda giustamente Agnoli: Messori è emiliano, ma si è formato intellettualmente a Torino,

la città del Risorgimento, del liberalismo di Cavour, delle leggi anticlericali di Siccardi, della massoneria, e poi la città degli Agnelli, delle prime avventure di Gramsci e Togliatti, de La Stampa, dell'Einaudi, di Furio Colombo, delegato Fiat in America e poi, come nota lo stesso Messori, direttore, un po' paradossalmente, dell'Unità….
Si può dire che Messori abbia vissuto e respirato, quindi, in un luogo emblematico per il nostro paese: quello in cui è nata l'Italia moderna, laica, liberale, agnellina, marxista, ed in cui però rimangono tracce evidenti del "vecchio mondo", nelle opere caritatevoli di Giovanni Bosco, del Cottolengo, del beato Fa di Bruno…Pensiero liberale, pensiero marxista, e dottrina sociale della Chiesa, a confronto in un'unica città! Questa storia, queste suggestioni, insieme alle frequentazioni personali, ad esempio con alcuni maestri della laicità come Norberto Bobbio, hanno fatto di Messori uno dei più acuti interpreti della modernità, alla luce, spesso, dello studio accurato del passato. "

Forse a molti questo dato della biografia intellettuale di Vittorio Messori non dirà granché, ma per me è qualcosa di fondamentale. Forse perché il mio percorso personale è stato l’inverso: di formazione cattolica, ho scoperto e imparato via via ad apprezzare profondamente il pensiero e la cultura di ispirazione protestante, laica, illuministica, e via discorrendo, fino alle propaggini più recenti della cultura a-cattolica (e talvolta persino anti). Che poi questo passaggio purificatore—perché questo è stato per me—attraverso il fuoco della contraddizione, cioè della critica più radicale, non abbia minimamente intaccato le mie convinzioni religiose di fondo, anzi, semmai le ha rafforzate, tutto questo, dicevo non sminuisce affatto il debito di gratitudine che sento di avere verso le culture altre (rispetto alla mia, naturalmente), ivi comprese quelle che risalgono alle religioni e alle filosofie orientali, e dell’India in modo particolare.

In generale, insomma, penso che questo incontro, questo incrociarsi di visioni del mondo, modi di vivere e sentire, “antropologie” e semplici atteggiamenti mentali della vita quotidiana, rappresenti una delle più straordinarie e affascinanti avventure dello spirito umano. Ma ad una condizione: che l’intrecciarsi dei sentieri non induca alla teorizzazione e all’improbabile pratica di un «sincretismo» in cui si cerchi di conciliare ciò che non è conciliabile, in quanto consegue da premesse e persegue «realizzazioni» che acquistano un senso compiuto soltanto se non sono indotte—in maniera quasi sempre surrettizia—alla rinuncia di sé, cioè ad accettare compromessi sui principi fondanti in nome della necessità del dialogo, del non "arroccamento" e così via.

Ben inteso, questa non abdicazione, che contraddistingue tanta parte del lavoro intellettuale di Vittorio Messori, ha ben poco da spartire con le manie identitarie oggi di gran voga—non ne è forse contaminata, paradossalmente, anche una parte della cultura laica? La differenza va ricercata alle sorgenti: nell’un caso la «conoscenza», nell’altro l’«ignoranza». Da una parte una fiduciosa coscienza di sé che si è arricchita della conoscenza dell’altro, dall’altra la paura di ciò che non si conosce e soprattutto di ciò che non si vuole conoscere. Quello che mi piace di più in Messori, in altre parole, è che è uno dei pochi spiriti laici che ci sono rimasti.

Prima di incollare la recensione del Foglio, cito la succinta presentazione che del libro ha fatto Vittorio Messori in persona (in un’intervista concessa a Zenit qualche tempo fa):


Il volume è il quarto della collana “Vivaio” che prese il nome da una rubrica che per anni tenni su Avvenire. Raccolsi quei pezzi prima nel libro intitolato “Pensare la storia”, poi in uno chiamato “La sfida della fede”, infine in un altro, “Le cose della vita”. Questo “Emporio”, del tutto nuovo, raccoglie quanto ho scritto da allora sui mensili Jesus e Il Timone, nonché sul Corriere della Sera. Mentre prima questa collana “Vivaio” era pubblicata dalla San Paolo, ora è proposta dalle edizioni Sugarco di Milano. Lo scopo è quello stesso della collana e che i lettori ben conoscono: riflettere sulla storia e sull’attualità per ritrovare un pensiero “cattolico”. Ciò che manca a molti credenti, oggi, è soprattutto una prospettiva che nasca dalla fede. Non a caso, molti finiscono con l’adottare il pensiero egemone, quel “politicamente corretto” che manipola la realtà, magari con le migliori intenzioni, crea miti illusori e, soprattutto pecca di ipocrisia. Cioè, la colpa che più provocava le reazioni di Gesù.


Francesco Agnoli, Il Foglio, sabato 3 febbraio 2007:

Vittorio Messori EMPORIO CATTOLICO Sugarco, 478 pp., euro 18

Vittorio Messori è in Italia il padre della nuova apologetica cattolica, soprattutto grazie ad una serie di articoli che comparvero molti anni fa sul quotidiano cattolico Avvenire, nella rubrica intitolata “Vivaio”. Furono pezzi di grande successo, nei quali finalmente si sosteneva, con grande perizia e acribia, che non tutto quello che la chiesa e i cristiani hanno fatto nella storia è frutto di oscurantismo, soprusi, superstizioni e malvagità… Anzi, anche su certi tabù culturali, apparentemente inossidabili, quali l’Inquisizione, le crociate, la scoperta dell’America, Messori non rinunciò a dire la sua, a mettere in dubbio la vulgata tradizionale, con abbondante uso di documenti e con grande successo, senza che nessuno lo potesse smentire, o contraddire clamorosamente.

Poi quella fortunata rubrica ha continuato a vivere sulle pagine del mensile di apologetica “Il Timone”, diretto da Gianpaolo Barra, ed è confluita, insieme ad altri articoli e riflessioni, in un nuovo libro, “Emporio cattolico”, edito non più dalle Paoline, poco attente alla produzione di certi cattolici politicamente scorretti, ma dalla casa editrice laica Sugarco.

In “Emporio cattolico”, Messori spazia, come d’abitudine, tra la storia e la cronaca, offrendo sempre, anche in poche dense pagine, occasione per una riflessione non superficiale. Parla di capitalismo e di comunismo, di celibato ecclesiastico e di pedofilia, di Opus Dei e di Kierkegaard… L’ottica è prevalentemente quella dello storico, che scruta i fatti, le personalità, alla luce della fede, cioè di un giudizio non relativista: la scena di questo modo passa, ed è spesso occupata da vicende malvagie, dalla cattiveria degli uomini, ma il bene e il male fatto restano, si ripercuotono nella storia, sul nostro prossimo e sui lontani, e meritano un giudizio estremo, affidato alla misericordia di Dio. A noi uomini resta l’insegnamento che possiamo trarre dagli avvenimenti, se li accostiamo con sincerità, senza menzogna.

Messori ama proprio ripulire le vicende, i fatti, dalla incrostazione ideologica che li trasforma e li traveste, per poi poter riflettere su di essi con lucidità e spirito religioso. Per fare un esempio, ricorda che la celeberrima frase di Francisco Goya sulla ragione posta in calce ad una sua acquaforte non è un atto di fede illuminista (“Il sonno della ragione produce mostri”), come sempre si afferma, ma al contrario un attacco alla pretesa razionalista di esaurire il reale (“Il sogno della ragione produce mostri”)? Scrive a proposito Messori, dopo aver ricordato che il portatore della “libertà” e della “ragione”, in quegli anni, era Napoleone, odiatissimo dagli spagnoli come un terribile tiranno: “Il messaggio di Goya non è dunque contro gli ‘oscurantisti’, ma al contrario contro gli ‘illuminati’, contro quegli intellettuali di cui è simbolo il dormiente accanto a carte, dove ha di certo steso uno di quei piani per il ‘paradiso in terra’ che, messi in pratica, sturano il vaso di Pandora”.

Sempre, che parli di Rivoluzione francese o di Risorgimento, traspare dalla lettura di “Emporio cattolico” la storia del suo autore: una storia fatta di frequentazioni e studi laici, approdata poi alla conversione. Una storia che ha permesso a Messori di essere un ottimo conoscitore sia del mondo da cui proviene, sia di quello cattolico in cui è giunto, e che spesso non gli perdona una certa vena “anticlericale”, o meglio la capacità di dire sempre sinceramente quello che pensa, anche a costo di urtare, qualche volta, il mondo talora ipocrita di certo clero.


February 3, 2007

Fuga dalla sinistra: Glucksmann

Che André Glucksmann abbia scelto Nicolas Sarkozy—ha scritto Renzo Foa su Il Giornale di venerdì 2 febbraio—non può essere una sorpresa per chi ha letto i libri e ascoltato i discorsi del famoso filosofo e saggista francese. Avendo letto qualcosa non posso che confermare. Tuttavia, onestamente, alzi la mano chi si aspettava di leggere su Le Monde del 29 gennaio (e sul Corriere, un giorno dopo, in italiano) un elogio così incondizionato per Sarko, e allo stesso tempo un J’accuse tanto impietoso nei confronti di quella “sinistra ufficiale” che “si crede moralmente infallibile e mentalmente intoccabile,” ma in fondo si è solo “addormentata sugli allori.” D’accordo, te lo aspetti, ma poi, quando le parole vengono messe una dietro all’altra, e il cerchio si chiude, ti fermi un attimo per capire se per caso c’è qualcosa di insolito dentro e fuori il tuo universo mentale e non ti sei inventato tu questa cosa strana …

Ma questo non è ancora tutto. Perché—incalza Renzo Foa—chi conosce il nostro philosophe sa che di tutta questa storia l’aspetto più rilevante non è il sostegno elettorale dato a un progetto politico che, a un certo punto, risulta essere quello più vicino alle proprie convinzioni, ma piuttosto


che c'è una cultura, un pezzo importante della cultura europea, che non può più riconoscersi nella sinistra e si sente politicamente rappresentata da un'innovazione che sta nell'area neo-liberale.

Ed ecco il punto: con "Pourquoi je choisis Nicolas Sarkozy,” un altro pezzo della sinistra pensante d’Europa se n’è andata per la sua strada. Stesso percorso, più o meno, di Christopher Hitchens, britannico anche se ormai americano d’adozione, che il suo endorsement l’ha fatto per George W. Bush.

Insomma, Glucksmann o Hitchens, il grido di dolore è lo stesso:


Dov'è finita la battaglia per le idee che tanto a lungo fu il suo privilegio? Dove si è smarrito lo stendardo della solidarietà inter­nazionale, un tempo orgoglio del socialismo francese?

Per i più curiosi rilancio un prezioso suggerimento di Andrea Mancia: sul sito della Fondazione Liberal vengono riproposti gli articoli più recenti che Glucksmann ha scritto per la rivista bimestrale della fondazione medesima.


February 1, 2007

L'incredibile assist di Veronica

[Oggi la piattaforma Blogger, e/o questo blog in particolare, funzionano malissimo. Il post che segue ne ha risentito pesantemente, dal momento che un lungo pezo è andato perduto. Benvenuti quei pochi che riescono ad arrivare fin qui. Saluti.]

Per chi ha fatto esperienza diretta—quel tanto che basta—della politica attiva, che è tutta un’altra cosa, sotto molti punti di vista, rispetto alla politica di cui si occupano seriosi editorialisti e politologi, o di cui si chiacchiera più o meno amabilmente nei salotti, nei talk shows televisivi, ecc., la clamorosa “guerra dei Roses” che ha visto protagonisti Veronica e Silvio Berlusconi è un esempio da manuale di cosa e come bisogna fare per ottenere il consenso dell’elettore medio. Sì, a mio parere il Cavaliere ha sicuramente tratto profitto dalla vicenda, e chi voleva nuocergli gli ha dato invece una grossa mano.

Non mi spingo fino a ritenere che la Signora Berlusconi abbia deliberatamente voluto favorire il marito, ma certamente la mossa di scrivere a un giornale, anzi, a quel giornale, per lamentarsi e chiedere “pubbliche scuse” non avrebbe potuto essere più diabolicamente azzeccata. L’avesse spedita al Foglio, quella lettera, sarebbe stato quasi patetico: la «bomba» non ci sarebbe stata e pochi ci avrebbero filato dietro. Inviandola a un quotidiano ad alta diffusione che non fosse la Repubblica, invece, la notizia ci sarebbe stata, ma forse non la prima pagina, certamente non gli onori di notizia principale, con tanto di titolone, foto, e … mezza prima pagina. Perché con Repubblica, che ha le sue regole, in un caso del genere le cose stanno più o meno in questi termini: o pubblichi la missiva o non la pubblichi (scelta folle e impensabile), ma se la pubblichi non puoi non darle il risalto che le è stato dato effettivamente. Dunque: scelta perfetta dal punto di vista di chi vuol provocare lo “scandalo,” decisione obbligata del quotidiano, effetto clamoroso assicurato.

Già, ma perché mai il botta e risposta, clamore incluso, dovrebbe aver favorito il Cavaliere? Perché, come avevo iniziato a dire, all’elettore medio queste cose vanno a genio. Alle donne è piaciuta moltissimo, giustamente, l’indignazione della signora, agli uomini certamente non è dispiaciuto vedere che quel marito importante si comporta, quando la moglie non è nei paraggi, né più né meno come si comportano o vorrebbero comportarsi loro, se solo ne avessero la faccia tosta. A uomini e donne è piaciuta sicuramente la magistrale risposta di Berlusconi. Chi si è indignato? Chi ha storto la bocca? Semplicemente quelli come Massimo Cacciari, gli intellettuali, o come qualche bacchettone moralista di quelli che imperversano sui media (e nei salotti). In tutto, secondo un mio personalissimo calcolo, non più di qualche migliaio di individui, a fronte di svariati milioni di persone qualunque che adorano i reality shows e/o le soap operas tipo Beautiful.

Ancora una volta, insomma, la sinistra, o meglio gli intellettuali e gli ipocriti di professione che la popolano abbondantemente, hanno preso un granchio, almeno a giudicare dalle reazioni pubbliche. Hanno dimenticato la tradizione italica della commedia dell’arte (che a sua volta affonda le radici nella commedia dell’antica Roma) e la più recente e cinematografica commedia all’italiana—storica la definizione che ne diede il grande Luigi Comencini una volta: plebea anche quando è raffinata, e raffinata anche quando è plebea. Agli italiani certe sceneggiate, à la “Amici miei,” al confine con la volgarità tout court, piacciono da morire. L’italiano non accetta la rozzezza, ma è a dir poco tollerante verso quei comportamenti che sfiorano la volgarità senza cascarci dentro. Ricordate le corna di Berlusconi nella foto di gruppo di quel vertice internazionale? Spiacevole, si dirà. Certo, ma dal punto di vista di chi? Tutta un’altra cosa rispetto al gesto assolutamente incredibile, di una cafoneria incommensurabile, di cui si è reso tristemente protagonista l’ex primo ministro spagnolo Aznar (che a quanto pare ne ha combinate parecchie dello stesso tenore) quando infilò una penna tra le tette di una giornalista.

[qui Blogger.com ha combinato il pasticcio e mi ha cancellato un pezzo, e nel frattempo ho eliminato il doc. originale. Sorry!]

Non è che fa scena, sia chiaro: il Berlusca è così. E la gente—che per certe cose ha le antenne—lo capisce subito. Può perdere un’elezione, perché il credito non è mai illimitato, ma la volta successiva spopola. E gli avversari a ingoiare amaro e sputare veleno, a sparlare del destino cinico e baro e del popolo bue e di tutte le altre balle con le quali cercano di consolarsi per avere perso il contatto con quel popolo che vorrebbero rappresentare.