December 11, 2007

Il dilemma del centro

Sul Corriere di oggi, Angelo Panebianco (come tutti) si interroga sulla possibile nascita di un partito di centro, qualora naturalmente venga varata una nuova legge elettorale proporzionale. Cosa sarà? “Un partito piccolo,” dice il professore, ma anche, come chiunque può immaginare, un partito che potrebbe disporre di un grande «potere coalizionale». Ebbene, questo sarebbe un fatto positivo? E a quali condizioni?

Tra due forze maggiori, definite un po’ perfidamente come una “socialdemocrazia annacquata” e un “liberalismo economico annacquato,” potrebbe mai il nuovo partito smentire la regola che la competizione elettorale ideale sia quella tra due grandi partiti alternativi tra loro e che affidare le sorti del Paese a un partito di centro, “ago della bilancia,” ecc., ecc., procura solo guai? Panebianco sembra piuttosto pessimista. E non a torto, credo. A meno che, aggiungerei, non si verifichi un fatto veramente nuovo per la politica italiana, e cioè che l’iniziativa di occupare il centro del sistema politico sia assunta, come scriveva qualche giorno fa su La Stampa Luca Ricolfi (un articolo tempestivamente segnalato da Walter),

anziché dalle forze del mondo cattolico, da sempre parte integrante del «partito della spesa» - dalle minoranze riformiste e liberali presenti sia nei partiti sia al di fuori di essi. Penso a uomini politici come Daniele Capezzone, Bruno Tabacci, Giorgio La Malfa, Nicola Rossi. O a membri della classe dirigente come Luca Cordero di Montezemolo, Mario Monti, Mario Draghi. In questo caso quel che nascerebbe al centro del sistema politico non sarebbe una piccola Dc, ma un medio partito liberal-democratico. Non il partito dei dipendenti pubblici e delle clientele, ma il partito della modernizzazione e del merito.

Consegnarsi a un partito ago della bilancia, ovviamente, presenterebbe i suoi risvolti negativi, ma questi, faceva notare Ricolfi, “forse” sarebbero compensati dalla “vocazione riformatrice e liberale” di quella formazione.

Ecco, qui si comincerebbe a ragionare. Un partito che pratica la “politica dei due forni,” infatti, non è un male in sé e per sé: se in questo modo si costringono i due partiti maggiori a contendersi l’alleato facendo a gara a chi è in grado di recepire nella maniera più convincente e sostanziale impegni e programmi autenticamente liberali e riformisti, ci si può anche stare, perché il gioco vale la candela.

Ma, come si diceva, l’ipotesi è alquanto remota, quella più probabile è che venga fuori una piccola Dc. In tal caso, un bel «no, grazie» interpreterebbe in maniera elegante i sentimenti della stragrande maggioranza del corpo elettorale, che avrebbe tutte le ragioni del mondo.