October 16, 2006

In nome del Tibet

Miss Tibet (Foto Reuters) “Ho una grossa responsabilità, essere Miss Tibet non è facile.” Così ha parlato—come Reuters informa—la 21enne Tsering Chungtak,


mentre i fuochi di artificio ieri sera illuminavano il cielo su McLeodganj, casa del Dalai Lama e di migliaia di rifugiati tibetani. "Devo rappresentare il mio paese a livello internazionale". E Chungtak non ha perso tempo, facendo appello per il rilascio di Gedhun Choekyi Nyina, che si pensa sia agli arresti domiciliari da parte dei cinesi dal 1985, quando aveva sei anni, tre giorni dopo che il Dalai Lama lo ha riconosciuto come la reincarnazione del secondo leader religioso tibetano più importante, il Panchen Lama.

Certo che il Tibet dimostra un certo talento nel farsi rappresentare: il sorriso del Dalai Lama, la sua ironia, la sua leggendaria (e contagiosa) risata, ed ora questa splendida fanciulla …

Eppure, a giudicare dai risultati, non si direbbe che le strategie di comunicazione prescelte siano le più efficaci. Vecchia polemica, d’accordo, che personalmente non vorrei contribuire ad alimentare: io sto col Dalai Lama, lo capisco e approvo il suo approccio “soft” alla questione tibetana, così come, dopo averla vista, trovo che anche Tsering non è male come “rapresentante a livello internazionale” del suo Paese.

Dicevo dei risultati, comunque, ed ecco questa notizia, riportata oggi, in italiano, solo da L’Opinione (in inglese ne riferisce la Reuters):


Sono 7 e non 2 le vittime dell’eccidio del Nagpa. Il 30 settembre scorso, la polizia cinese ha aperto il fuoco, senza preavviso e ad alzo zero, contro un gruppo di circa 70 profughi tibetani che stavano cercando di fuggire dal “paradiso” cinese attraverso il valico di Nagpa, a 5000 metri di quota, ad Ovest del Monte Everest, sul confine tra Repubblica Popolare Cinese e Nepal. Solo 40 tibetani sono riusciti a fuggire, salvi, nel Nepal. A quanto pare questi metodi da Cortina di Ferro non sono un’eccezione per chi vive lungo le frontiere cinesi, anche se non se ne parla praticamente mai. Ma questa volta il massacro non è passato sotto silenzio: una sessantina di alpinisti che stavano scalando il monte Cho Oyu hanno assistito all’eccidio dal Campo Base Avanzato. Il numero esatto delle vittime è stato confermato dal lama Tsering, un monaco buddista indiano, all’agenzia Asia News. Fra i caduti vi sono anche una monaca e un bambino.

E’ il genere di notizia che a Sua Santità deve togliere almeno un po’ del suo buonumore, ma certo non tanto da farlo deviare di un millimetro dalla sua Middle Way. Tra l’altro, Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama, a Roma nei giorni scorsi per ricevere dal rettore dell'Università Roma Tre, Guido Fagiani, la laurea honoris causa in biologia, ha ribadito la sua visione del problema:



«La nostra lotta è basata su una rigorosa non violenza e sul pensiero compassionevole, per questo tendiamo a minimizzare i sentimenti negativi nei confronti dei cinesi. Un mio vecchio amico che ha trascorso 18 anni nei gulag cinesi è venuto da me e mi ha detto di aver visto poche occasioni di pericolo. Tra queste, gli ho chiesto, quali? E lui: 'Il rischio di perdere la compassione verso i cinesi'. Vedete, il fondamento del nostro pensiero è di considerarli fratelli, anche se continuano a fare male al nostro popolo, questo è il puro significato della non violenza. Noi i problemi con la Cina vogliamo risolverli, ma per fare questo la Cina ci deve dare autonomia, dobbiamo poter preservare la nostra cultura e la nostra lingua. Se la Cina vuole essere una superpotenza rispettata a livello mondiale, basta con le mistificazioni della realtà, gli attacchi alla libertà personale e alla libertà di stampa: la Cina dev'essere ragionevole. E non riusciamo a capire perché, a queste nostre domande, la Cina non risponde in maniera favorevole.»

A Roma, ad ogni modo, come informa l’ampio resoconto dato da la Repubblica della “lezione magistrale” del Dalai Lama, si sono ascoltate anche parole come queste, su un paio di questioni non meno interessanti:


«La didattica moderna si concentra molto sulla conoscenza, sul cervello, ma trascura l'aspetto etico-morale. Per questo mi sento di lanciare un appello: pensiamo di più, insieme alla parte scientifica, a promuovere l'etica e il cuore. Solo attraverso questa via si può vedere più chiaramente la realtà. Per questo serve una mente più compassionevole, più calma e con più empatia, elementi fondamentali per una vita felice.»
[...]
«Non tutti i problemi del male possono essere risolti con la tradizione tibetana. Per questo ai giovani italiani dico: dovete trovare la risposta ai vostri problemi secondo la vostra tradizione. Cercare altrove non serve.»

Quel cercare altrove non serve è magnifico. Lo dico proprio perché voglio bene al Tibet e al suo vecchio Capo Sorridente.