August 25, 2006

E il Cardinale ammalio' il Meeting

Sul Foglio uno splendido resoconto dell’intervento dell’arcivescovo di Vienna, il cardinale Christoph Schönborn, al Meeting di Rimini. Presentazione leggermente enfatica (questione di linee editoriali, ma questo è normale in regime di libertà di stampa e con buona pace dei laicisti incalliti):



fra i più grandi teologi viventi, il cui nome è stato fatto spesso per il pontificato, […] oratoria ammaliante tipica dei domenicani, […] instancabile poliglotta […]. Porta con eleganza la sua eminenza …



Ad ogni modo, l’uomo non a caso è membro della congregazione per la Dottrina della Fede, nonché allievo di Joseph Ratzinger. E poi—un’annotazione che potrebbe aver fatto Vittorio Messori—il cardinale è l’esemplificazione vivente della differenza fondamentale che c’è fra un teologo cattolico e uno protestante: il primo pensa in “e/e”, il secondo in “o/o”. Ma per afferrare bene il concetto non c’è che leggere tutto l’articolo. Quello che segue è soltanto un piccolo assaggio:


Israele deve vivere


“Israele deve vivere perché è il popolo dell’alleanza e l’alleanza, come ha detto Giovanni Paolo II, non è mai stata revocata. Lo ‘scandalo Israele’ per il mondo e le altre religioni, anche per noi cristiani e gli ebrei non credenti, è che Dio abbia scelto questo piccolo popolo. Lo ha chiamato alla diversità, a essere suo erede e suo popolo. E questo è uno scandalo per le grandi nazioni, che Israele rimanga il segno nella storia che la scelta di Dio è libera. Oso dire con san Paolo che tutta la storia dell’umanità e la storia di oggi è intimamente legata a questa vicenda, all’avventura ebraica, una scelta di Dio che non scusa gli errori umani e il peccato di nessuno, ma resta un fatto con le sue tracce concrete. Israele, fino alla venuta definitiva del Messia che noi crediamo essere Gesù, rimane per sempre questo luogo e questa realtà della prima scelta di Dio. Il popolo eletto mai potrà dire che Dio non ha promesso a lui la terra. La terra d’Israele, nonostante tutto il dramma, rimane un segno concreto della scelta”.


Evoluzionismo*


“L’evoluzionismo alimenta il riduzionismo, nel senso che dimentica l’approccio limitato della metodologia, rendendo la metodologia un tutto. Se assumiamo come un tutto la metodologia limitata dell’approccio quantitativo, soprattutto nel campo della biologia, è allora che vediamo quanto questo sguardo sia riduttivo. La vita è qualcosa di più delle sue condizioni materiali. Cosa sia questo ‘di più’ è la grande difficoltà di oggi, un problema che va al di là della metodologia quantitativa ma che per questo non è meno una realtà”.

Scientismo


“Lo scientismo è il non riconoscere i limiti inerenti alla metodologia e all’approccio quantitativi. Viktor Frankl, discepolo di Freud, psicologo ebreo sopravvissuto ad Auschwitz, ha detto che la saggezza è la scienza più il rispetto dei propri limiti. L’affascinante epopea della scienza moderna è di aver trovato, in un modo sconosciuto a tutta la storia anteriore, la meraviglia dell’origine della vita. I nostri bisnonni non sapevano nulla di ciò che sappiamo noi oggi sul primo momento della genesi di un essere umano nuovo. Non c’è dubbio possibile che dal momento della fecondazione dell’ovulo ci sia già tutto l’essere umano. Questo non vuol dire che basti a se stesso, ha bisogno di molte condizioni per divenire e procedere nella vita, ma è già un essere individuale tra miliardi di altri esseri umani. Non lo sapevano gli anziani, ma noi sì e sempre di più e grazie alle scienze esatte abbiamo una conoscenza che ci obbliga molto più che nel passato al dovere morale. L’uomo da solo non potrebbe e mai potrà produrre anche una sola cellula del corpo, l’immensa complessità di una sola cellula del vivente”.

Cosa è l’uomo?


“L’avventura delle scienze esatte, le chiamiamo sempre così anche se non sono tanto esatte quanto naturali, è di procedere sempre di più nel conoscere le condizioni dell’essere umano. Ma le condizioni non spiegano la domanda metafisica par excellence, ‘quid est?’ diceva Aristotele, cosa è l’uomo? Qualcosa o qualcuno? Il fascino di conoscere fa dimenticare la questione del chi è? Resta la domanda fondamentale, arricchita da tutto il nostro sapere sulle condizioni biologiche. Nella ‘Fides et Ratio’, Giovanni Paolo II aveva detto che dovevamo ritrovare la questione fondamentale dell’uomo e del che cosa è l’uomo”.



* In materia di evoluzione è molto interessante leggere un artcolo del Cardinale pubblicato sul New York Times del 7 luglio 2005 (traduzione italiana presso il sito di Sandro Magister) e la risposta dello stesso alla replica (entrambe in versione italiana) del fisico nucleare Stephen Barr.


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August 24, 2006

Italian Elections 2006 (blog directory)

At the old blog location (windrosehotel.splinder.com):

—Italian Elections 2006: 1/2/3/4/5/6

—Elections Updates: 1/2/3/4/5

Italy's post-election challenge

Morire al mondo

Un lungo week-end di qualche settimana fa mi ha fatto scoprire un posto che non poteva non tornarmi in mente in questi giorni della Settimana Santa, ed oggi, appunto, più che mai. Il nome dice già molto: Morimondo, dal latino Mori Mundo, “morire al mondo.” I monaci Cistercensi arrivarono a Coronate, località situata tra Pavia e Milano, sulle sponde del Ticino, nel 1134, e la scelsero per erigervi un’abbazia che prenderà il nome di Morimondo (o Santa Maria di Morimondo) in quanto filiazione dell’abbazia (sempre cistercense) di Morimond, in Borgogna. Il luogo, isolato e silenzioso, era l'ideale per ciò che cercavano quei monaci, il cui Ordine, come si sa, è indissolubilmente legato a un’idea del monachesimo piuttosto severa e ascetica, come volevano San Roberto di Molesme, il fondatore, e San Bernardo di Clairvaux, il figlio più illustre.

Il luogo, grazie al cielo, ha mantenuto parecchio dell’aspetto e delle caratteristiche che avevano incantato i fondatori. E’ difficile spiegare l’atmosfera che vi si respira. Quando l’ho visitato io, poi, c’era una nebbiolina che rafforzava l’impressione di un luogo vagamente magico, davvero fuori dal mondo. Il che ha dell’incredibile se pensiamo che Milano è davvero a due passi (a portata della linea della metropolitana che collega Abbiategrasso alla capitale lombarda). Merito, credo, anche di una fondazione che si occupa della salvaguardia del luogo. L’abbazia è stata sottoposta a restauri significativi (ma non ancora completati). Una documentazione fotografica abbastanza esauriente—insieme ad altre informazioni utili—la si può trovare qui. Le immagini, come al solito, valgono più di tante parole.

Una cosa notevole è il borgo medievale che circonda l’abbazia, anch’esso restaurato, ristrutturato, e comunque mantenuto “a misura della storia.” Poche villette recenti non guastano lo spettacolo d’insieme. Mentre un provvidenziale Parco Lombardo del Ticino, piuttosto ben tenuto, garantisce un contesto all’altezza. All’uscita (o all’entrata) dell’area abbaziale, dove un tempo sorgeva il cimitero dei monaci, i restauratori hanno collocato una targa di bronzo sostenuta da un’asta conficcata nel terreno. C’è scritto:

QUI IL MONDO MUORE. QUI IL MONDO RISORGE

Morire al mondo può essere pressoché impossibile persino per la maggior parte dei “veri credenti,” ma indubbiamente la via è quella. C’è una sorta di “nichilismo” anche nel cuore del cristianesimo. Ma il nihil di cui qui si ragiona è soltanto una tappa nel cammino verso un tutto che riesce a dar senso persino al nulla. Anzi, soprattutto al nulla. E soprattutto oggi.

[Questo post è stato pubblicato per la prima volta su windrosehotel.splinder.com il 14 aprile 2006]

Mercatini di Natale / Christkindlmarkt


Il 7 e l’8 dicembre gita a Bolzano. Mercatini di Natale. Suggestivi e di gran moda—come tutti sanno fin troppo bene, a giudicare dalle folle (se volete andarci, evitate, se potete, i giorni festivi). Comunque, un’uscita che merita sotto vari punti di vista, come proverò a sintetizzare qui.

Dunque, per prima cosa Bolzano d’inverno è più bella e accogliente, il clima è festoso e la città è ben attrezzata per accogliere decine di migliaia di turisti attirati appunto dai mercatini di Natale (che tra l’altro si tengono, oltre che nel capoluogo, anche in varie altre località della Provincia Autonoma). L’artigianato locale fa bella mostra di sé nelle bancherelle (Piazza Walther e Piazza Municipio, oltre che nelle piazze delle Erbe, del Grano e della Mostra) e nei negozi del centro (i Portici). C’è molto di “turistico,” questo è certo, ma c’è anche altro, se si vuol cercare.

Qualche annotazione a margine sulla Kermesse: ottime, veramente, le frittelle di mele, preparato con arte il vin brulé, mediocri le torte Sacher assaggiate, speck notevole (non della solita onnipresente Casa di San Candido), generalmente buono il pane nelle celebri varietà locali. Una curiosità: che io sappia Bolzano è l’unica città italiana in cui, in strada, subito fuori dai negozi, come in Svezia e Danimarca, si usa mettere dei posacenere, con grande beneficio per i marciapiedi che non sono invasi da cicche di sigarette.

Infine, messa dell’8 dicembre in Duomo (romanico e gotico: superbo), a mezzogiorno. Non saranno mai lodati abbastanza la cura, la disciplina e il buon gusto che presiede all’esecuzione dei canti. Una signora, d’accordo, ha accompagnato la celebrazione con le solite melodie post-conciliari, ma in una maniera che faceva dimenticare la non eccelsa qualità musicale dei brani. Il tutto illuminato da due splendide performances: Panis Angelicus e Ave Maria di Gounod.


[Questo post è stato pubblicato per la prima volta su windrosehotel.splinder.com il 9 dicembre 2005]

Il mare ottobrino


Il mare ottobrino è qualcosa di unico. Non fa più caldo, non è ancora freddo. L’acqua è fresca. Il sole va e viene. Ora è scomparso dietro le nuvole. Grigio è il colore dominante, in varie gradazioni.

Dopo l’equinozio, il regno della luce e dei colori si è trasferito altrove, forse tra i boschi, lasciando sulle coste solo qualche sentinella. Laggiù uno scorcio azzurrino, all’estremità opposta il verde pallido delle dune.

Ora, quasi più nulla distingue questo scenario da quello del Mare del Nord.

Si è riappropriato di se stesso, geloso custode della propria ciclica solitudine. E’ il tempo del deserto, della meditazione. Quaranta lunghi giorni per ritrovarsi.

La bimba ha raccolto delle conchiglie. “Sono tutte reginette”. E’ chiaro, dopo l’equinozio, qui, solo per i bambini ci sono regali. E’ giusto così, che le sentinelle della luce parlino solo ai piccoli.

Cadono le prime gocce. Si torna a casa.
[Questo post, tratto da un appunto scritto il il 5 ottobre 2003, è stato pubblicato su windrosehotel.splinder.com il 29 novembre 2004. I commenti al post originale sono interessanti]

Scheveningen

Il Mare del Nord, visto dalle dune che da Scheveningen—la spiaggia di Den Haag (L’Aia) —seguono la costa fino all’Hoek van Holland, cioè per alcuni chilometri, ha un fascino tutto particolare. La natura è stata preservata allo stato pressoché selvaggio. Gli "stabilimenti" sono di leggerissimo impatto: di legno, rimovibili, essenziali, in grado di fornire il minimo d’ombra, l’hot dog e la birra fredda, una sedia.


Ci si arriva praticamente solo in bicicletta. Agli appositi parcheggi ce ne sono centinaia, la maggior parte delle quali sono nere e rigorosamente "Holland", freno a retropedale (si dice così?), come quelle con le quali siamo arrivati noi dopo una lunga pedalata sotto il sole splendente, ma senza quasi sudare grazie al vento fresco, che consente ciò che dalla nostre parti susciterebbe la pietà di chi osserva. Pedalare, in Olanda, è sempre piacevole, anche quando piove, vale a dire quando quella specie di nebbiolina (che quasi mai diventa acquazzone) ti rinfresca e ti rifocilla.


Dopo il sali-scendi sulle dune verdeggianti arrivi in spiaggia, parcheggi, vai in riva al mare … per fare il bagno? Neanche per sogno! Quelle acque sono pericolosissime (tra le più pericolose d’Europa, come quasi tutte le coste dei Paesi Bassi), a causa di formidabili correnti invisibili. Solo pochissimi si avventurano in acqua oltre il ginocchio, si tuffano rapidamente, una sguazzata e via. La forza della corrente la senti già quando l’acqua ti arriva al polpaccio. Un ricordo simile me lo ha lasciato la spiaggia di Carmel (California). Il risucchio era tale che potevi immaginare di essere trascinato per centinaia di metri qualora ti fossi avventurato, appunto, oltre il ginocchio.


Eppure era bellissimo lo stesso. Abbiamo aspettato il tramonto, un lungo variopinto caleidoscopio di colori rosseggianti-rosacei, bluastri-celestoni e lunghe strisce biancastre. Oltre il mare, invisibile, l’Inghilterra. Una coppia un po’ ubriaca si è tuffata a festeggiare il crepuscolo, riuscendo persino a fare qualche bracciata in quell’acqua fredda (ma non gelida, a dire il vero). Così tre amiche di diciotto, vent’anni, cantando e giocando in acqua con un paio di Labrador che sprizzavano felicità da tutti i pori. Quella spiaggia deve essere il Walhalla dei Labrador, a giudicare dal numero di questi splendidi cani acquatici che arrivano con la mimica e la frenesia dei bambini alle porte di Disneyland Paris.


Uno settacolo nordico, di audacia umana e animale e di forza della natura. Qui il mare è signore e padrone, orgoglioso e poco incline ad accogliere il bagnante se non per una rapida e rispettosa abluzione. Come ho fatto io. Ho riconosciuto al padrone di casa il suo diritto. Agli ubriachi e a tre impavide ragazzine, con seguito di Labrador, il mare ha concesso un po’ d’audacia. Fino a quando il sole non è stato inghiottito dalle acque. La gioia silenziosa degli spettatori, che si guardavano gli uni gli altri per scambiarsi larghi sorrisi e persino risate di meraviglia per ciò che si era appena compiuto.


[Questo post è stato pubblicato su windrosehotel.splinder.com il 4 ottobre 2004. I commenti al post originale sono interessanti]

E il mare risponde



Premessa: mi capita talvolta di parlare con il mare. Insomma, gli faccio delle domande e mi do delle risposte, ma sospettando sempre che quelle non siano le "mie" risposte, ma le "sue".

Una domanda recente è stata: perché il mare, almeno per me, è un'esperienza così totale? Più di qualsiasi altro scenario, naturale o artificiale.
La risposta è partita da lontano.

Il mare circonda tutta la terra, come l'aria, che però resta inafferrabile, "astratta", mentre il mare lo puoi percepire in maniera profonda con tutti e cinque i sensi.

Il mare è sempre lo stesso, cioè ogni mare è comunicante con tutti gli altri: il Mediterraneo comunica con l'Atlantico, l'Atlantico col Pacifico, e così via. Le acque si confondono, si mescolano, sempre diverse, sempre le stesse, ovunque, dai tropici ai poli.

Dunque, il mare "vede" tutto, ascolta tutte le lingue della terra, unisce gli uomini bagnandoli con la stessa acqua.

Uno può fare una passeggiata nei boschi o in montagna, esperienze bellissime, ma il grado di "permeabilità" reciproca uomo-bosco, uomo-montagna, è inferiore, la comunicazione è più mentale che fisica, per quanto intensa possa essere.

Tuffarsi in mare, quando questo è possibile, significa entrare in comunicazione con tutto ciò che sta sotto il sole. Lasciarsi massaggiare dalle onde, nuotare, "fare il morto", è un'esperienza totale, full immersion si dice (non a caso, forse).

Anche tuffarsi in un lago è una bella esperienza. Amo talmente l'acqua che l'estate scorsa ho fatto il bagno persino nei freddi laghi della Svezia. Ma l'acqua dolce è qualcosa di profondamente diverso. Non ha la vitalità, la forza dell'acqua di mare. E in più è meno "amichevole": non ti sostiene, tendi ad andare sotto, laddove il mare è "grazioso", ti accoglie da amico non costringendoti a muoverti in continuazione per stare a galla. E se nuotando ti capita di assaporare l'acqua di lago, il gusto dolciastro e "stantio" ti fa un effetto poco piacevole.

Non parlo neanche della piscina, che al massimo può essere un surrogato in caso di disidratazione da calura ad una distanza impossibile dalla spiaggia più vicina.

Io non capirò mai chi va al mare e si fa il bagno in piscina. E' come scegliere di pasteggiare bevendo birra—o coca-cola, ohibò—avendo la possibilità di bere un prosecco o un Brunello.

E non capirò mai chi va al mare essenzialmente per prendere il sole. Io ci vado, di preferenza, la mattina presto e un paio d'ore prima del tramonto. Cioè quando il sole è meno aggressivo, e soprattutto quando le folle dei bagnanti devono ancora arrivare o sono già andate via. E sono lì quelli che il mare lo hanno nel cuore. O quasi soltanto loro.

[Questo post è stato pubblicato su windrosehotel.splinder.com il 21 ttobre 2004. I commenti al post originale sono interessanti]

August 23, 2006

Quel male primigenio dietro la croce uncinata

Nessuno può dire, penso, per quale strano automatismo, “riflesso condizionato” e cose del genere, a volte ascolti o leggi qualcosa e improvvisamente fa capolino nell’anticamera del tuo cervello un pensiero, una citazione letti/ascoltati chissà dove, chissà quando e che, almeno apparentemente, non c’entrano niente con ciò di cui ti stai occupando. Salvo poi, dopo, qualche istante di spaesamento, realizzare che sì, c’entrano, anche se in una maniera un po’ “obliqua” e, se vogliamo, anche piuttosto subdola.

La stessa cosa mi è capitata leggendo le critiche al discorso di Benedetto XVI al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau. Lo strano è che la citazione sembra un po’ troppo severa in rapporto a ciò che l’ha subdolamente provocata. Anche perché le critiche non sono campate in aria, o almeno non lo sono i rilievi mossi, ad esempio, da Giovanni De Luna su La Stampa di oggi. Utilizzo proprio la riflessione di De Luna per rendere il tono e la sostanza dei rilievi critici mossi al Papa:

Benedetto XVI è rimasto significativamente impigliato in due «nodi» su cui si è soffermato il dibattito storiografico di questi anni: le responsabilità del popolo tedesco nello sterminio degli ebrei e il rapporto tra la Shoah e il presunto disegno hitleriano di attaccare le radici cristiane della nostra civiltà. Rispetto al primo, l'affermazione del Papa tesa a circoscrivere le colpe a «un gruppo di criminali» che «usò e abusò» del popolo tedesco, rendendolo «strumento della loro smania distruzione e di dominio», entra in rotta di collisione con tutta l'impressionante mole di ricerche storiche che
hanno invece insistito sulla «normalità del male»; è un filone al cui interno (sulla scia di Hannah Arendt) l'enormità della Shoah è racchiusa proprio nella «normalità» dei carnefici, fedeli servitori dello Stato e delle sue regole.
[…]
Ancora maggiori perplessità suscita poi la sua seconda affermazione sui «nazisti che volevano distruggere il popolo ebraico per strappare la radice su cui si fonda il cristianesimo». Il progetto di sterminio si sviluppò in realtà lungo una direzione che francamente fa apparire il cristianesimo un bersaglio trascurabile, quasi inesistente. Quel progetto, irrinunciabile e totalitario, rivelò soprattutto l'essenza compiutamente biopolitica del nazismo (la vita traducibile immediatamente in politica e, viceversa, la politica segnata da una caratterizzazione intrinsecamente biologica); il regime di Hitler spinse la «biologizzazione» della politica a estremi mai raggiunti in precedenza, e il popolo tedesco diventò una sorta di corpo organico, da curare e proteggere,
amputandone violentemente le parti infette, quelle «spiritualmente già morte»: la soppressione del nemico, in particolare degli ebrei, era necessaria per garantire la vita del popolo, lo Stato con lo sterminio di massa garantiva il benessere e la felicità dei suoi sudditi. Sia nell'eutanasia praticata su larga scala sui malati di mente, sia soprattutto ad Auschwitz e dintorni, questa forma di esercizio del potere fece del nazionalsocialismo la sintesi perfetta tra politica, Politik (la lotta contro i nemici interni e esterni dello Stato fino alla loro morte e all'annientamento) e polizia, Polizei (la cura per la vita dei cittadini in tutte le sue estensioni). Come ha scritto Giorgio Agamben, «la polizia diventa politica e la cura della vita coincide con la lotta contro il
nemico».

Ebbene, che dire? Che semplicemente il ragionamento sta in piedi. La prima delle due obiezioni, in particolare, mi sembra inconfutabile e, direi, persino fuori discussione. Credo che, in linea di principio, si possa convenire anche con la seconda, sebbene sostenere tout court che il cristianesimo fosse per i nazisti “un bersaglio trascurabile, quasi inesistente” mi sembra una tesi un po’ troppo netta: forse necessiterebbe di qualche supplemento di riflessione e di argomentazioni meno sbrigative. Ma, insomma, come dicevo, il discorso regge.

E allora? Cosa c’è che non va? C’è che, fermo restando quanto detto sopra, bisognerebbe non sottrarsi, come suggerisce Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della Sera di oggi, ad una constatazione piuttosto ovvia e alla domanda che ne deriva: in un discorso pubblico del genere, pronunciato in quel luogo e per giunta da un Papa tedesco, Benedetto XVI avrebbe facilmente potuto ricalcare gli schemi consueti e ripetere i giudizi, le attribuzioni di colpe, le deprecazioni e le evocazioni che tutti sappiamo (giustamente) a memoria, e invece non l’ha fatto: perché? Direi che Galli Della Loggia lo ha spiegato molto bene, cogliendo alcuni risvolti del discorso di Papa Benedetto che ai critici sembrano essere sfuggiti (e lasciando intendere che quelle obiezioni sono un po’ troppo facili). Se il Pontefice ha preferito battere un’altra strada rispetto a quella più “facile” e scontata, ciò si spiega in due modi:

Per un verso [Benedetto XVI] ha scelto di volare più basso, ma insieme, per un altro verso, di muoversi ad altezze inconsuete per il discorso pubblico ufficiale.
L’autenticità umana, l'originalità intellettualee l’ispirazione dell’uomo di Dio, si sono così intrecciate e confuse davanti ai tetri edifici di Auschwitz in una meditazione ampia e nervosa, dall’andamento quasi spezzato. L’accento dimesso è risuonato in quel presentarsi semplicemente come «figlio del popolo tedesco» (un’espressione ripetuta ben tre volte in poche righe), ma proprio ciò ha conferito un senso estremo all’inevitabile questione della colpa collettiva.

Molti hanno osservato che l’analisi di Ratzinger sull’ascesa del nazismo è stata troppo indulgente verso i suoi compatrioti […]. [M]a il senso del richiamo del Pontefice al ruolo della leadership nazista sta nel voler porre l’accento su un elemento troppo spesso cancellato quando si parla del nazionalsocialismo, e cioè il nichilismo radicale, la smisuratezza antiumana, insomma il demoniaco che si stagliava dietro la croce uncinata e che ne faceva il simbolo di un vero e proprio risorgente paganesimo, spesso nelle forme ancora più agghiaccianti di una disciplinata burocrazia. [Il corsivo è mio]


Mi sembra che il percorso “anomalo” seguito da Galli Della Loggia—naturalmente sulla scia di un Papa davvero anticonformista—lo abbia condotto fino a quello che a me sembra essere il cuore della faccenda. Seguiamo ancora l’editoriale:

Vi fu insomma nel nazismo l’affiorare comedi un male primigenio che per venire alla luce non si affidò certo al «popolo », ai «tedeschi», ma ebbe per l’appunto bisogno della mediazione di «capi», di cupe figure di despoti di cui Hitler rappresentò un paradigma esemplare. Con la mente rivolta a questo demoniaco in certo senso prepolitico, anche se micidialmente calato nella storia, ha parlato Benedetto XVI: dunque trascurando di evocare (è permesso dirlo a tanti suoi critici che invece avrebbero voluto proprio questo?) i precisi excursus fattuali, le responsabilità delle Chiese cristiane (quella di Roma fu solo una tra le tante), le specificità ideologiche (a cominciare dall’antisemitismo, non nominato, d’accordo, ma se si dice Ebrei e Shoah di cosa si sta mai parlando?). Un discorso, forse, troppo teologicamente ispirato e troppo poco politico, troppo lontano dalle convenienze del senso comune. Forse. Ma solo evocando il male assoluto, solo scorgendo tra i fumi infernali dei camini di Auschwitz il volto di Satana, solo così acquista senso il grido supremo della disperazione umana che Joseph Ratzinger ha rivolto al cielo. [Corsivi miei anche
stavolta]

Ebbene, direi che quest’uomo ha capito tutto, anche se, a mio sommesso parere, non ci voleva precisamente un genio per arrivarci—il che non significa affatto che Galli Della Loggia non lo sia, dal momento che probabilmente lo è davvero! Più difficile, semmai, era spiegarlo in maniera tanto succinta e nel contempo così efficace. Ma forse, se a qualcuno è risultato così difficile capire quale fosse il “messaggio” sotteso dal discorso Pontefice, una ragione profonda c’è (di sicuro non si tratta di “dura cervice” e cose di questo genere). E a questo punto, vedi un po’, torna in ballo la citazione di cui parlavo all’inizio, e di cui magari qualcuno pensava che mi fossi dimenticato. Neanche per sogno. Eccola (ma a ripensarci è dura, dura assai …):

Egli disse: "Va' e riferisci a questo popolo: Ascoltate pure, ma senza comprendere, osservate pure, ma senza conoscere. Rendi insensibile il cuore di questo popolo, fallo duro d'orecchio e acceca i suoi occhi e non veda con gli occhi né oda con gli orecchi né comprenda con il cuore né si converta in modo da esser guarito".
Isaia 6, 9-11


[Questo post è stato pubblicato per la prima volta su windrosehotel.splinder.com il 30 maggio 2006. I commenti al post originale sono interessanti]

Ma Hitch non è quel che crede Rocca

Mi ha fatto uno strano effetto l’audio-video dell’incontro organizzato dal Foglio e che si è tenuto giovedì scorso in un cinema romano in occasione dell’uscita Cambiare regime, l’ultimo libro di Christian Rocca. Un libro che parla alla sinistra di ciò che essa è diventata malgrado la sua storia e le sue innumerevoli battaglie per la libertà e contro la tirannie, e naturalmente di ciò che «dovrebbe essere».

Gli ospiti erano di tutto rispetto: oltre all’autore c‘erano Giuliano Ferrara, che faceva gli onori di casa, Christopher Hitchens, Paul Berman, John Lloyd, Piero Fassino e Adriano Sofri (degli interventi di questi ultimi sono disponibili le trascrizioni, rispettivamente qui, qui e qui).

Nessuna novità, direi, per chi già conosce le idee degli intervenuti. Non particolarmente entusiasmante, a mio parere, l’intervento di Christopher Hitchens—che sembrava un po’ annoaiato e, tra l’altro, non ha speso una sola parola sul libro, se non ho perso qualcosa a causa della mia distrazione o di una traduzione simultanea che faceva fatica a tener dietro allo stile di comunicazione dell’oratore—, mentre Paul Berman, ha elogiato calorosamente la fatica letteraria di Rocca, pur non avendone potuto un’avere esperienza diretta, presumo, dal momento che non credo conosca l’italiano.

John Lloyd, corrispondente del Financial Times in Italia, nonché collaboratore de la Repubblica e in possesso di una discreta conoscenza della lingua italiana, ha parlato anche lui abbastanza bene del libro, che probabilmente ha letto. Lloyd, tra l’altro, ha detto alcune cose interessanti sul Manifesto di Euston (“un documento banale” ma di cui, in sostanza, c’era bisogno), cui Rocca ha dedicato molte delle sue energie in questi ultimi tempi, dal momento che le idee che vi si sostengono sono le stesse che egli, col suo libro, vorrebbe rimettere al centro del dibattito politico all’interno della sinistra. In sostanza Lloyd ha detto che in Cambiare regime ci sono parecchie cose interessanti, e tra queste una profonda sintonia con lo Euston Manifesto, che è nato principalmente per iniziativa di alcuni bloggers, tra i quali Norman Geras (è lui che ha scritto in gran parte il testo del documento). Il che ha suggerito al corrispondente del Financial Times considerazioni importanti sul ruolo della blogosfera nel dibattito in corso. Lloyd, insomma, ha per lo meno provato a colmare una lacuna del convegno, che non ha chiamato sul palco alcun blogger. Anzi, se non era per lui la blogosfera sarebbe stata completamente “cassata” dal novero delle parti in causa. Piuttosto incomprensibile.

Fassino ha ripetuto argomentazioni già note per ribadire che è d’accordo su tutto tranne che sulla guerra, da non escludere a priori ma da lasciare come extrema ratio. Noto en passant che non mi sembra che il leader diessino abbia detto alcunché circa il rientro immediato delle truppe, probabilmente perché non se l’è sentita di sottoporsi alla ginnastica mentale che gli sarebbe costata la difesa delle posizioni alla luce del suo stesso ragionamento. Anche lui contrario alla guerra, Sofri ha svolto, da par suo (nonostante la convalescenza), un ragionamento problematico, ma ricco di suggestioni e di riferimenti concreti particolarmente evocativi.

La cosa più simpatica che ha Sofri detto è: «Qui siamo tutti di sinistra, persino Christian Rocca». Ma su questo vorrei dire una cosa. Questa: è inesatto dire, come ad esempio fa insistentemente Christian Rocca, che Christopher Hitchens è di sinistra. Certo, lo è stato—non da socialdemocratico, bensì da trotzkista!—e quelle sono le sue “radici” culturali, filosofiche e politiche, ma oggi non lo è più, anzi, non ne vuole proprio sapere. Personalmente ho memoria non solo di ciò che lui stesso ha detto e ripetuto più volte, ma anche degli appelli a “tornare a casa” che il suo estimatore e discepolo Johann Hari, un giovane giornalista e scrittore britannico, Lefty che metà basta, gli ha rivolto in più di una occasione. Ricordo perfettamente che una volta Norman Geras—che, lui sì, resta di sinistra e marxista nonostante tutto—rispose proprio a Hari che “essere di sinistra non è la cosa più importante” a fronte di una situazione quale quella attuale. Ora non ho il tempo di documentare quel che dico, ma sono in grado di farlo senza problemi se qualcuno ha dei dubbi. Si pensi che, addirittura, non ha neppure firmato lo Euston Manifesto (aveva detto che forse, chissà, lo avrebbe fatto, ma ancora la sua firma non c’è), e questo semplicemente perché si tratta di un documento partorito dalla sinistra.

“Dite pure che sono un neonservative, se proprio dovete” ha protestato “the Dude” in un articolo in cui parlava anche del Manifesto. Insomma, capisco che Hitchens è un’icona della sinistra di scuola anglosassone, e capisco anche che Rocca lo voglia additare ai nostri Leftists come un esempio da seguire e imitare per il suo sostegno alla causa dell’esportazione della democrazia, ma adesso Hitch è uno che ha cambiato idea, e non mi sembra sia il caso di far passare sotto silenzio questa realtà: se n’è andato dalla sinistra perché non poteva più starci. E non è il solo. Figurarsi: se uno come lui ha cambiato idea, quanto più facile può essere per chi non è mai stato marxista, trotzkista, ecc., bensì, più modestamente, un liberalsocialista, socialdemocratico e riformista?

Vabbè, cambiamo discorso. Per chiudere, segnalo che sul Foglio del 31 maggio, a completamento dell’operazione, Rocca ha parlato della sinistra americana. Per informarci che i neoconservatives stanno riconquistando il partito democratico, o qualcosa del genere. Fosse vero sarebbe una notizia.

[Questo post è stato pubblicato per la prima volta su windrosehotel.splinder.com il 5 giugno 2006. I commenti al post originale sono interessanti]

Libertà (TocqueVille compie un anno)

TocqueVille ha un anno, ed io mi unisco ai tanti che celebrano il compleanno. E’ stato un anno, come tutti sanno, di grande crescita per questa aggregazione di blogs, uno sviluppo inatteso per le proporzioni (oggi sono ben novecento i “cittadini”), ma proprio per questo carico di significato: evidentemente c’era bisogno di TocqueVille, meglio, la cultura politica italiana aveva bisogno di questa novità.

Tra le varie anime della “Città dei Liberi”—così si compiacciono di chiamarla i TocqueVillers, e a buon diritto, a mio avviso—si verificano talvolta conflitti e qualche screzio, cosa non sorprendente se pensiamo che vi convivono “destri” e radicali, neocons (“idealisti wilsoniani”) e “realisti,” cattolici a 24 carati e laicisti, e in più alcuni (pochi) “riformisti”—virgolette d’obbligo, data la confusione che regna sovrana, oramai, circa il significato da attribuire a un termine che definire abusato sarebbe il minimo …

Eppure, nonostante questa eterogeneità, i motivi che spingono alla sintesi sono nettamente prevalenti rispetto a quelli che indurrebbero alla divisione e alla rottura. Probabilmente ciò è dovuto almeno in parte alle ben note anomalie italiane, prima fra tutte una “sinistra democratica” dimentica di se stessa—quella che ho tante volte cercato di dipingere su questo blog—e divisa al proprio interno tra chi vorrebbe liberarsi dalle incrostazioni estremistiche, ma non riesce e non vuole andare fino in fondo in quella difficile impresa, e chi pensa o fa finta di pensare che non ci sia proprio nulla di cui sbarazzarsi. E taccio della sinistra radicale, sulla quale non si può dir nulla, se non che è incredibile che ci sia ancora tanta gente che crede che un Paese come l’Italia possa essere affidato ai Diliberto e ai Bertinotti, ancorché di quest’ultimo si possa almeno apprezzare l’intelligenza e un fair play rarissimo da quelle parti.

Questa è un’epoca in cui tutto è rimesso in discussione, e non solo in Italia. Se in Gran Bretagna, ad esempio, Tony Blair è odiato più che altro dai suoi compagni di partito, una ragione profonda deve pur esserci, e questa investe la natura stessa della sinistra. Penso che davvero sia arrivato il momento di lasciar perdere concetti come “destra” e “sinistra.” Per non parlare di contrapposizioni come quella tra “laici” e “cattolici,” che—non da oggi, e neppure da ieri—mostrano segni di un tale logoramento che si fa persino fatica a costruirci su un ragionamento serio.

Mi rendo conto, però, che ci vorranno anni e anni per fuoriuscire da quelle categorie mentali. E’ l’approdo, comunque, che è sommamente incerto: noi non sappiamo dove ci porterà questo rimescolamento di carte. La “questione religiosa” e i grandi temi della bioetica sono emblematici di questa incertezza: attraversano i tradizionali steccati e lasciano di stucco chi vorrebbe semplificare. Atei (devoti o meno) appoggiano le posizioni più oltranziste del Vaticano in materia di bioetica e di morale sessuale, cardinali di Santa Romana Chiesa si fanno applaudire dai laicisti e dai “libertini” con interviste clamorose e imbarazzanti.

Ci può essere ancora qualcosa come una linea di demarcazione invalicabile, un Vallum Hadriani che impedisca alla confusione di generare un disorientamento totale, che separi la barbarie politica dalla civiltà, il progresso ragionevole dalla conservazione becera, l’umanesimo dalla sua negazione? Io penso di sì, ma non saprei indicarla con precisione nella mappa ideale del nostro universo politico, culturale e civile. Quello che credo di sapere con ragionevole certezza è che i vecchi spartiacque separano ormai soltanto i pregiudizi degli uni dai pregiudizi degli altri, cioè servono solo a fomentare polemiche sostanzialmente sterili.

In questo contesto di incertezza saranno fondamentali il pensiero creativo e il gusto del “mettersi in cammino” che, a mio avviso, hanno contrassegnato la nascita e il primo anno di vita di TocqueVille. Per proseguire servirà un coraggio da pionieri per addentrarsi in territori inesplorati e selvaggi, così come servirà un anticonformismo ai limiti della spregiudicatezza intellettuale per tracciare nuove rotte, diverse da quelle percorse dalle generazioni che ci hanno preceduto, anche se la meta, alla fine, non potrà che essere quella di sempre: la Terra promessa che i Padri Fondatori degli Stati Uniti d’America ci hanno insegnato a chiamare con l’unica parola che può unire tutti i nuovi Pellegrini: LIBERTA’.

[Questo post è stato pubblicato per la prima volta su windrosehotel.splinder.com il 13 giugno 2006. I commenti al post originale sono teressanti]

Give to France what is France's



French daily newspaper France Soir Wednesday reproduced the 12 caricatures named "Faces of Muhammad" that had been previously published by Danish Jyllands-Posten. This just one day after a bomb threat forced Jyllands-Posten—which already had apologized, although it maintained it was legal under Danish law to print them—to evacuate its offices. Also Tuesday, Interior ministers from 17 Arab countries asked the Danish government “to firmly punish the authors of these offences." Here is a report by the BBC:



France Soir said it had published the cartoons to show that "religious dogma"
had no place in a secular society. Their publication in Denmark has led to protests in several Arab nations. Responding to France Soir's move, the French government said it supported press freedom - but added that beliefs and religions must be respected. Islamic tradition bans depictions of the Prophet Muhammad or Allah.
Under the headline "Yes, we have the right to caricature God", France Soir ran a front page cartoon of Buddhist, Jewish, Muslim and Christian gods floating on a cloud. It shows the Christian deity saying: "Don't complain, Muhammad, we've all been caricatured here."
The full set of Danish drawings, some of which depict the Prophet Muhammad as a terrorist, were printed on the inside pages.
The paper said it had decided to republish them "because no religious dogma can impose itself on a democratic and secular society."

As a believer, I cannot find it in my heart to laugh when people take the mickey out of someone else's religion (as well as other people because of their beliefs), but it is also an opinion of mine that “no religious dogma can impose itself on a democratic and secular society.”

[Hat tip: Norm]

UPDATE [Thursday, February 2, 4:55 pm]
France Soir's editor, Jacques Lefranc, has been dismissed by the paper's French Egyptian owner in response to criticism from Muslim groups (The Guardian, BBC).

UPDATE 2 [Thursday, February 2, 8:25 pm]
The Scotsman:

The BBC said it would broadcast the cartoons which have caused a storm of protest in the Islamic world and led to the sacking of a French newspaper editor. The cartoons include an image of the prophet Muhammad with a turban shaped like a bomb, and another showing him saying that paradise was running out of virgins. The BBC emphasised that the images would be broadcast "responsibly" and "in full context" and "to give audiences an understanding of the strong feelings evoked by the story".

[Hat tip: david t]

[This post was first published at windrosehotel.splinder.com on February 2, 2006]

'But his Venice is not our city'

His first book—Midnight in the Garden of Good and Evil (1994), turned into a Hollywood movie (1997) starring John Cusack, Kevin Spacey and Jude Law—had a remarkable four-year run on The New York Times bestseller list. It also made the Author a celebrity in the southern US city of Savannah, where the book was set. Why? Well, perhaps because, as a Savannahian once declared, "Once upon a time John Berendt came to town, and Savannah hasn't been the same since."

Yet, Venice, the setting for John Berendt’s new book, The City of Falling Angels, is vastly different from Savannah, Georgia, even though the Author—who spent much of the last decade in the “Serenissima”—has been trying to do in Venice what he did in Savannah with his first book: offer up local secrets and scandals for public perusal. That is why, perhaps, the translated Italian version hasn't exactly been jumping off the shelves, as Elisabetta Povoledo pointed out in yesterday’s International Herald Tribune. As for the gossip, well, it must be said that

[b]y their own admission, Venetians take pleasure in gossip. In fact, talking about your neighbors is such an art here that there's even a term in the local dialect - "tajar tabari" - for the practice of cutting someone up behind his or her back.

But it's one thing for locals to tell tales among themselves, quite another when a stranger blusters in and does it. That is why some people here haven't taken too kindly to John Berendt's "City of Falling Angels," […]

As a result, for instance, asked to comment on the book, the mayor of Venice, Massimo Cacciari—who is also a philosopher and one of the most prominent Italian intellectuals— answered this way: "It's not my habit to comment on books that don't interest me or, for various reasons, I don't like." Or, to make another example,

"His Venice is not our city," said Cristiano Chiarot, the director of marketing and communications for La Fenice Opera, which figures prominently in the book. Venice, he added, has many facets. "Berendt captured some of them but not its soul."

As a matter of fact, as IHT reported,

The author makes no bones about his American's-eye-view of the city. "Obviously I wrote with a foreigner's eye," he said in a telephone interview from his home in New York. "You can object to it, but it hardly sounds like a legitimate complaint. Foreigners have been writing about Venice forever."
But, as Elisabetta Povoledo sharply pointed out,


[o]ne thing that distinguishes Berendt from his predecessors is that he chose to write about Venetians.

There is actually a small difference …


[This post was first published at windrosehotel.splinder.com on May 27, 2004]

August 22, 2006

Severgnini, gli Italians e i Sopranos

Una parola sulla “mediocrazia” italica—se il termine non esiste, chiedo venia : non ho avuto il tempo di verificare per bene, ma mi suona tremendamente bene... Dunque, nella mediocrazia italica, se c’è una rubrica di scarso successo che andrebbe aiutata, questa è «Italians», di Beppe Severgnini. Imperversa, immeritatamente snobbata dai lettori più acculturati e raffinati, sul Corriere della Sera, particolarmente nella edizione online, fornita di lettere e rispostine (ai più fortunati) che se non sempre sono memorabili per i contenuti e per le qualità letterarie, sono di solito gradevolmente leggere e inoffensive, se non addirittura genialmente vacue.

Oggi Severgnini ha superato se stesso affrontando un argomento spinoso : la considerazione degli italiani all’estero. Rispondendo ad un lettore indignato, che protesta contro i pregiudizi anti-italiani e chiede maggiore durezza con chi esagera con le battutacce e le insinuazioni, ha sfoderato un’acutezza e una lucidità di cui, malheureusement, non sono in molti a fargli credito. Ha cominciato riconoscendo di aver sbagliato a minimizzare certi fenomeni:

In effetti, per anni, la mia risposta è stata: inutile reagire con rabbia o scegliere l’autarchia psicologica (ci ha provato il fascismo: non funziona). Meglio rispondere con serenità e, soprattutto, col comportamento. (…) Tuttavia, lo ammetto: le cose non migliorano. E l’atteggiamento di qualcuno, all’estero, appare veramente odioso. Parmalat ha appena mostrato come le critiche (giustificate!) al sistema di controlli in Italia si mescolino a brutalità storico-antropologiche sugli italiani (ingiustificate e superficiali). E ci cascano fior di giornali: non gli avventori nei pub delle Docklands (Londra), dopo quattro pinte di bitter.

Il ragionamento prosegue—inclinando un po’, stavolta, anche verso gli odiosi detrattori—con un intelligente riferimento alla situazione politica:

E’ vero che Silvio Berlusconi funge da catalizzatore. E’ inutile ripetere cose dette e scritte mille volte. Ma le sue televisioni, le sue amicizie, i suoi processi, le sue leggi, il suo stile, le sue battute e il suo lifting ne fanno un caso unico al mondo. Questo non è un giudizio: è un fatto. E la cosa non ci aiuta. Questo non è un fatto: è un giudizio.

Già, in effetti, non aveva mica torto il kapò (tormentone della scorsa estate), o l’Economist (quello che definiva il premier italiano unfit to lead Europe, se ricordo le parole esatte), che difatti Severgnini ha approvato entusiasticamente. Quel che è da dire è da dire, insomma. Ha ragione lui, mica quelli che si sono ribellati—come purtroppo il titolare di questo blog—e che, pur non essendo mai stati berlusconiani, hanno disapprovato un linguaggio così pesante nei confronti del Capo del governo italiano da parte di organi di stampa e uomini politici di paesi esteri che non sono propriamente in guerra con l’Italia. Insomma, riconosciamo i nostri errori anche noi, come Severgnini!

E poi, se è consentita una parentesi “letteraria”, che meraviglia quel gioco di parole (…Questo non è un giudizio: è un fatto. E la cosa non ci aiuta. Questo non è un fatto: è un giudizio). Che poi non è solo un gioco di parole : i fatti distinti dalle opinioni! Molto british, oltretutto. Come l’Economist insegna anche ai più duri di comprendonio.

Ma Severgnini riguadagna subito la sponda anti-anti-italiana, e aggiunge:

L’Italia ha personalità, fin troppa, nel bene e nel male. L’«immaginario mafioso» ha riempito il cinema e la letteratura, il linguaggio e la pubblicità. Spesso sull’argomento si buttano gli stranieri; ma qualche volta noi italiani li precediamo, o li incoraggiamo. Comunque, li perdoniamo. Nessun’altra nazione avrebbe avuto l’onestà di esportare «La Piovra», o la generosità (leggerezza?) di tollerare i «Sopranos».

OK, d’accordo per quanto riguarda La Piovra, il mondo ci è debitore di eterna riconoscenza per aver mostrato a tutti e con un’insistenza maniacale il nostro aspetto peggiore, però si poteva pure evitare … Ma fin qui nulla di nuovo, l’hanno già detto in tanti. Quel che sorprende—e nel contempo illumina inopinatamente le intelligenze pigre degli osservatori distratti della realtà—è il riferimento ai Sopranos. Una fiction che allo scrivente (povero stolto!) era sembrato un capolavoro di ironia e di intelligenza, di garbo e originalità, un modo elegante per sfotticchiare non tanto gli italoamericani—che per altro vi risultano molto più simpatici di quanto non sembrino nella stragrande maggioranza dei film d’autore che narrano di mafia americana—quanto certe compulsioni a delinquere vagamente pavloviane e un horror vacui che forse sta alla base di tante nevrosi.

Quale raffinato esercizio ermeneutico è mai questo, che ci mostra una realtà capovolta rispetto a quella che vediamo, che ci fa toccare con mano i nostri limiti interpretativi e nel contempo non ci umilia, ma ci innalza alle altitudini himalayane frequentate da quell’intuizione montanelliana che si chiama Beppe Severgnini? Già, il grande Montanelli—lo scopritore e il mentore, appunto, di un siffatto talento naturale. Nessuno è perfetto, come lui ci ha insegnato. E ne abbiamo appena avuto un’altra conferma…

[Questo post è stato pubblicato per la prima volta su windrosehotel.splinder.com il 12 febbraio 2004]

Analogie imbarazzanti

Composta ma severa la risposta di Emanuele Macaluso alle insinuazioni de L’Unità sull’assetto proprietario del Riformista. Fa riflettere, in particolare, la conclusione dell’articolo :


Il tentativo di cancellare gli avversari o le testate scomode con mezzi impropri è un vizio che speravamo fosse solo un brutto ricordo.

Un lettore distratto potrebbe perfino credere che a parlare sia il Cavaliere. Questi sono, infatti, argomenti oramai classici nelle allocuzioni berlusconiane—ovviamente con riferimento alla stessa parte politica di cui si sta parlando.

Ora, spiace dirlo, ma delle due l'una : o Macaluso ha “tracimato” o il presidente del Consiglio ha qualche ragione. Scegliere è praticamente d'obbligo. Per quanto riguarda questo blog la scelta per Il Riformista è un dato incontrovertibile.

[Questo post è stato pubblicato per la prima volta su windrosehotel.splinder.com il 25 gennaio 2004]

Ezio Mauro si è dimesso!

Direttore e vice-direttore del New York Times si sono dimessi, alcuni giorni dopo aver licenziato Jayson Blair, giornalista imbroglione. Proprio come è successo a Repubblica, dove Marco Lupis (a seguito delle clamorose rivelazioni del Foglio) è stato allontanato e l’ottimo direttore Ezio Mauro ha rimesso la carica e si è ritirato a vita privata. Si narra che quest’ultimo, dopo aver letto una lettera a lui indirizzata da un blogger ficcanaso—che lo invitava nientemeno che a far finta di essere di Boston anziché di Torino—e poco incline al compromesso, profondamente scosso e in piena crisi di identità, abbia pronunciato queste poche ma sofferte parole: “Chi sbaglia paga!”

il manifesto ..., la sinistra degli altri

Due pezzi di bravura sul manifesto di oggi, il primo senza virgolette, l’altro con.

1) «Per abrogare l'immunità appena approvata, il compagno Diliberto ha lanciato l'idea di un nuovo referendum. Un'idea fulminante.» (jena)

Niente male, vero?

2) Titolo : «Dialogo tra sordi tra Berlusconi e Fini»

Modesta proposta : Dialogo tra sordi Berlusconi-Fini.

Oppure : Berlusconi-Fini : [un] dialogo tra sordi.

Se proprio non piacciono le prime due: Berlusconi e Fini, [un] dialogo tra sordi.

Chi ha qualche altra proposta?

[Questo post è stato pubblicato per la prima volta su windrosehotel.splinder.com il 19 Giugno 2003]

Il bravo regista e l'indignato mancato

Il post di un blogger del Cannocchiale mi ha colto alla sprovvista. Dunque, scopro che un famoso regista manda il figlioletto alla scuola americana-britannica, la più costosa di Roma. Fosse qualcun altro non me potrebbe importare di meno. Ma si tratta del grande girotondino, del rifondatore della sinistra, del custode della pubblica moralità. E non si può dire che questo non modifichi la questione. Piccolo elenco di misfatti : a) la preferenza per l’inglese anziché per il francese (ah, povera gauche, povero Chirac anti-Bush, che tradimento!); b) la scelta della scuola privata anziché di quella pubblica (alla difesa della quale, giustamente, la sinistra è impegnata allo stremo—si fa per dire); c) la mancata ripulsa per uno status symbol alto-borghese (è appunto la scuola più cara della capitale).

Ebbene, mio malgrado ho dovuto riconoscere che sulla faccenda l’indignazione era d’obbligo. Che sottrarsi non era possibile. Dico “mio malgrado” perché all’incirca dal primo girotondo in poi sono arrivato alla conclusione che l’indignazione è un esercizio troppo radical-chic per i miei gusti. Avevo giurato a me stesso che non mi sarei mai più indignato. E invece, a quel punto, mi toccava!
E allora ? Semplice, à la guerre comme à la guerre! Visto che sfuggire non si poteva, che indignazione fosse: lunga, tosta, aspra!

La storia potrebbe essere finita qui, ma non è andata esattamente così. Infatti, dopo qualche minuto di dura indignazione—un’esperienza inebriante e “corale”, cioè di quelle che ti fanno sentire in armonia con l’universo—ho cominciato ad avvertire una strana sensazione…, per farla breve, un irrefrenabile impulso a ridere, al quale non ho potuto resistere che pochi, interminabili e angosciosi secondi!

Sarò in contraddizione con me stesso, però, a cose fatte, dopo aver riscoperto il piacere dell'indignazione, non posso fare a meno di ripetermi : che peccato sprecare un’occasione come quella! Ma che posso farci? Evidentemente indignati di professione si nasce, non si diventa. Come grandi attori, o come bravi registi, ça va sans dire.

[Questo post è stato pubblicato per la prima volta su windrosehotel.splinder.com il 18 Giugno 2003]

August 20, 2006

Ecco il vero terzista: Furio Colombo!

Quando si dice l’onestà intellettuale, l’obiettività, l’esser super partes non come “figura retorica”—se ci si passa l’espressione—e tanto per far bella figura, bensì come Weltanschauung. L’ammirazione è tanta, devo ammetterlo, e faccio fatica a contenerla, a dissimularla quel minimo, come si converrebbe in una discussione pacata ed equilibrata, così come occorrerebbe contenere il sentimento opposto: l’aperto disprezzo, la violenta disapprovazione. Ma che vogliamo farci, lo stupore è tanto, trabocca da ogni lato e lo devo manifestare.

A chi è diretto questo (esagerato) elogio, da cosa e da chi è stato motivato? Ebbene, basta ciccare un titoletto di giornale (online) per scoprirlo: Suppletive di Londra, crollano i laburisti, vince chi si è opposto alla guerra. E per capire che L’Unità di Furio Colombo non è un semplice quotidiano di partito, uno come gli altri, dal momento che si può sfidare chiunque a capire al volo, leggendolo, che il partito in questione è quello dei ds. No, appunto, non si tratta di un qualsiasi quotidiano di partito. E’ molto di più (o di meno, a seconda dei punti di vista).

Insomma, basta un clic per rendersi conto di cosa significhi, in concreto, il terzismo che ieri Il Riformista portava sugli scudi (vedi il mio post precedente), capitalizzando giustamente la vulgata che Paolo Mieli, suprema autorità in materia, ha messo a disposizione di noi tutti onde renderci finalmente edotti sul significato di quellaa magica paroletta.

Basta un clic per nobilitarsi. Il Labour ha perso una consultazione elettorale di secondo piano (e di cui si sono accorti praticamente solo Colombo e i suoi intimi)? Benissimo, mettiamolo in prima pagina! E facciamo vedere a tutti che la politica non è saltare di qua e di là con il pugnale tra i denti. E diamo un colpo mortale alla faziosità. Grazie per esistere, Furio Colombo!

[Il presente post è stato pubblicato per la prima volta presso windrosehotel.ilcannocchiale.it il 19 settembre 2003]

Il silenzio è d'oro

Antonio Tabucchi fa uno strano elogio del silenzio sul manifesto di oggi. Il silenzio del presidente Ciampi. L’incipit è degno di "Guerra e pace"—come è in fondo giusto che sia, dato il livello egregio di colui al quale il quotidiano comunista ha oggi affidato l’editoriale:


"Ci sono momenti nella vita e nella storia in cui un decoroso silenzio rivela tutta la statura morale della persona."

Grande, vero?

Ma non è niente, guardate qua:

"Da quando Berlusconi ha formato il suo governo, molti sono stati i momenti in cui il decoroso silenzio è stato superiore alle offese e alle volgarità. "Questo è il futuro ministro delle riforme istituzionali", disse Berlusconi a Ciampi presentandogli Umberto Bossi. Ciampi reagì con decoroso silenzio."

Ci sono parole per magnificare come si merita questo sublime esempio? Certo che no. E la conclusione di questa superba galoppata politico-letteraria è, se possibile, ancora più riuscita :
"Ciampi sarebbe dunque un pupazzo nelle mani di Berlusconi? La questione è cruciale per la democrazia italiana, ma forse per la classe politica è meglio che gli italiani non se la pongano. Sarà risolta forse in decoroso silenzio? Da ciò dedurremo che la costituzione italiana ha un solido garante: il silenzio."

L’editoriale si intitola Il silenzio è d’oro. Ce ne ricorderemo a lungo. E vorremmo che questo elogio del silenzio divenisse una regola, un must, un’aspirazione per tutti, ad eccezione, ovviamente, dei nostri cari manifestini: sul loro silenzio nessuno si faccia illusioni, nessuno ci speri. A Tabucchi, poi, la bocca non la tappa nessuno. Oltretutto, chi potrebbe elogiare il silenzio meglio di lui?

[Il presente post è stato pubblicato per la prima volta presso windrosehotel.ilcannocchiale.it il 2 luglio 2003]

Tabucchi: contro Ciampi (da non perdere)

E’ stata una giornata spettacolosa. Mare calmo, aria limpida e fresca, nuvole bianche e sottili, allungate dai venti. Sole. Perché lasciarsi distrarre dall’attualità politica?

A notte inoltrata, però, un colpo di coda. Una folgorazione. Il solito Antonio Tabucchi sul manifesto. Di lasciar perdere neanche se ne parla. Scrive a Ciampi (per la decima o undicesima volta, mi dicono). L’esordio, stavolta, è degno di Cicerone. Spalancare le pupille, please:

"Illustre Presidente della Repubblica Italiana, non è la prima volta che Le pongo questioni. Lei lo ricorderà, anche se di norma non risponde. Cominciai con una Sua frase, secondo me assai infelice, di comprensione verso i cosiddetti "ragazzi di Salò". L'Italia, come è noto, non ha mai fatto né pulizia né ammenda, neppure simbolica, come la Francia e la Germania, del proprio sordido passato; e infatti oggi nell'attuale governo ci sono segretari o sottosegretari ex-repubblichini (fucilatori?) che ho sentito pubblicamente vantare nei Suoi confronti amicizia e confidenza. A me non piace. A Lei piace? Lei, che si dice abbia fatto la Resistenza, a tali questioni come dicevo non risponde. Ma, per usare una formula di moda oggi in Italia, 'mi consenta' di insistere. (...)."

Come sapete, io sono un grande estimatore del Tabucchi. E, se ho sempre espresso disgusto per quanti giocano volgarmente con le parole trasformando i cognomi, a fortiori mi ribello con sdegno a coloro i quali non si peritano di dilettarsi nella squallida arte a spese del Nostro, andando a cogliere somigliasnze, rime e assonanze tanto più spregevoli quanto più si riferiscono ad un Autore di grande profondità e maestria, in guisa tale da farlo divenire di volta in volta il Signor Mammalucchi, Messer Trucchi, e via discorrendo. Dirò di più: un fremito di rabbia mi prende ogni volta—e accade spesso, purtroppo—che mi imbatto in siffatti usurpatori della pubblica attenzione!

Sono un estimatore di Antonio Tabucchi, dicevo, e quindi non sono proprio imparziale. Ma come posso tacere la mia strabiliate ammirazione per le parole che ho citato?

Quel magnifico accenno al passato del Presidente ("Lei, che si dice abbia fatto la Resistenza"), quella sublime ironia, quella finezza nel mettere vagamente in dubbio ciò che è di pubblico dominio, sfidando il buon senso e financo il buon gusto oltre che l’intelligenza! Superbo! Impavido Tabucchi! E quella citazione, quel "per usare una formula di moda oggi in Italia, "mi consenta" di insistere"? La sottile allusione al Berlusca è veramente di una originalità e di una genialità senza pari!

Risparmio a chi legge queste misere note il resoconto del seguito del coraggiosissimo j’accuse. Ma chi lo desidera lo potrà ritrovare in rete degnandosi di seguire il link diretto (o, se non funziona, cercando il pezzo sulla prima del manifesto del 4 di luglio (che era ieri, essendo oramai l’una di notte). E buona lettura!

[Il presente post è stato pubblicato per la prima volta presso windrosehotel.ilcannocchiale.it il 5 luglio 2003]

Tabucchi, siam pronti alla morte!

Sono lieto di rivelare pubblicamente che quasi esattamente due anni fa Antonio Tabucchi conquistò la mia incondizionata ammirazione. Sì, quando prese carta e penna e scrisse per Le Monde un infuocato j’accuse contro il presidente della Repubblica. Ciampi, non Chirac, s’intende. Troppo facile, troppo banale criticare il capo dello Stato francese su un giornale francese, no, il vero coraggio, la vera gloria, è lavare i propri panni in casa d’altri. E che sarà mai, in fondo?

Che malinconia quando penso a quanto sono miseri gli argomenti di coloro i quali si scandalizzano per questo nobile e disinteressato esercizio di “sputtanamento” (con licenza parlando) del proprio Paese su un giornale che, questo bisogna pur riconoscerlo, non perde occasione per fare le pulci—per amore, è ovvio, solo per amore!—ai cugini d’oltralpe! Quanto provinciale e démodé questo modo di ragionare!

E cosa importa se trovare un francese che sia disposto a fare altrettanto nei confronti del proprio Paese è un’impresa quasi impossibile? Non siamo forse proprio noi italiani coloro i quali hanno portato la civiltà al di là delle Alpi? Insegniamogli noi, dunque, al cuginastro (in senso ironico!), che cos’è la signorilità, l’obiettività, oserei dire la “ferocia”—ecco la parola!—verso se stessi, quella che arriva a calpestare qualsiasi cosa, a cominciare da quel concetto noioso e démodé, appunto, che è il senso dell’onore nazionale!

Che dovrei dire, allora, della mia gioia, del senso di liberazione che ho provato oggi, quando ho appreso dal Corriere della Sera che Tabucchì (come affettuosamente lo chiamano i francesi) l’ha rifatto?

Questa volta, però, il bersaglio non è l’oramai straperdonato presidente Ciampi—con una magnanimità di cui un po’, via, siamo grati al grande Scrittore. No, stavolta il bersaglio è un altro, più modesto, ancorché infinitamente più meritevole della pubblica deprecazione, e financo di quel purissimo e incontaminato sentimento che solo gli stolti chiamano odio, mentre dovrebbe chiamarsi molto più sobriamente indignazione—oh che nobile e poetica espressione!

Il bersaglio, dicevamo, stavolta è il misero Giuliano Ferrara. Tabucchì racconta le ben note e recentissime diatribe, che rappresentano un «ritratto eloquente» dell’Italia, «Paese intimidito, disorientato, in larga misura imbavagliato nel suo sistema d’informazione». Un ritratto dove si parla di mafia, di bombe, di stragi, di terrorismo e delle «vecchie amicizie che certamente Ferrara ha nella Cia».

Il bieco Ferrara, ricorda il Nostro, ha detto: «Se mi ammazzano, ricordatevi che i mandanti linguistici sono Antonio Tabucchi e Furio Colombo, in concorso tra loro». Ebbene, queste sono parole «abiette», osserva con lucidità l’insigne Letterato, dietro le quali si cela la volontà di «far tacere uno scrittore che, come me, utilizza lo strumento della parola». E di qui il titolo dell’articolo, la «fatwa» (ma all’incontrario) che Ferrara avrebbe lanciato contro Tabucchì indirizzandosi «a uno sconosciuto affinché costui mi tappi la bocca in tempo, per disinnescare la libertà di parola di cui dispongo».

Noi uomini liberi, caro ed illustre Scrittore, siamo con te. Ora devo scappare perché ho terribilmente da fare, ma sappi che siamo con te. Usque ad mortem. Tuam, innanzitutto, nel caso il criminale appello sortisca l’effetto desiderato, e nostram in subordine .... E se anche il fato dovesse crudelmente precludereci l'estremo sacrificio, sappi che noi, amaramente destinati a sopravvivere a tanto strazio, ti onoreremo sempre! Per quello che sei. Occorre essere più espliciti?

[Il presente post è stato pubblicato per la prima volta presso windrosehotel.ilcannocchiale.it il 9 ottobre 2003]

Dystopia, the evil twin of (Rorty's) Utopia

A dystopia is ‘an imaginary, wretched place, the opposite of Utopia’ (Cassel's Concise English Dictionary).

According to the Oxford English Dictionary, the term was coined in the late 19th century by John Stuart Mill, who also used Bentham's synonym, cacotopia, at the same time. Both words were based on utopia, analyzed as eu-topia, for a place where everything is as it should be; hence the converse "dys-topia" for a place where this is certainly not the case. [See also Wikipedia On-line Dictionary]

“Ok—you might say—but who cares?” Or, to paraphrase a famous Canadian journalist: "Tell me something new about something I care about!" Well, my answer is quite simple: I just don't know whether or not that “imaginary, wretched place” is something new, but you should care about your own future! Because dystopia could be the world we are going to live in tomorrow, at least according to Norm, and assuming that Richard Rorty is right … As for me, may I take the liberty of saying that Norm is right as much as Richard is (hopefully) wrong?

[This post was first published at windrosehotel.splinder.com on April 29, 2004]

Rome says NO to Mr Ahmadinejad

More than 10,000 Italians (may be 15,000) held a candle-lit vigil outside the Iranian embassy in Rome on Thursday night. It was a bipartisan demonstration, or “half-caste,” as Giuliano Ferrara put it. Mr Ferrara is the editor of Il Foglio—a conservative daily newspaper—and the promoter of the procession, organised in reaction to the threatening assertion of the President of Islamic Republic of Iran that “Israel should be wiped off the map.”

“All those who called me—said Ferrara—from abroad were amazed. French and American friends, such as Wiesel, Cohn-Bendit, and Podhoretz, told me they were astonished in front of a happening they consider unique in the world. For the first time in the Western World people don’t rally against an imperialist, zionist, “bad,” “right wing” country, but in defence of it. They don’t burn Star-of-David flags, they wave them. People don’t defend to the bitter end the rights of a Third World country, they challenge its President's threats—Iran can’t afford to cancel Israel, nor can it afford to threat it.”
[Corriere della Sera, in Italian]

Piero Fassino, the secretary of Democrats of the Left—Italy's largest opposition party—, was one of the politicians taking part in the demonstration.
“Like many other citizens—he said—, I’m here to reaffirm the absolute necessity of Israel’s existence. Peace in the Middle East will come with one state more, not one state fewer. “It's our duty—he added—to support all those fighting for democracy, freedom and reform in Middle Eastern countries”.

Walter Veltroni, the mayor of Rome and he himself a Democrat of the Left, participated in the rally. “Might this happen in London?”—asks Professor Norman Geras from his weblog. And “would [Veltroni’s Londoner equivalent] Ken Livingstone participate?”

Of course I don’t know. I can’t know. Yet, I hope what happened in Rome last Thursday will not remain the “unique” event which Giuliano Ferrara was talking about.

The most comprehensive report in English on the demonstration is here (Corriere della Sera, International Edition).


[This post was first published at windrosehotel.splinder.com on November 5, 2005]

August 19, 2006

Ecco l'utopia riformista (a proposito di un bell'editoriale)

D’accordo, forse Fini non lo sa, come ipotizza l’editoriale del Riformista, tutto all’insegna del wishful thinking, ma la sua idea di dare il voto agli immigrati sembra discendere da letture impegnative, da frequentazioni intellettuali (teoricamente) improbabili. Ma se il vice-premier potrebbe sorprendersi dell’accostamento, cosa ne penserebbe—se fosse ancora in vita—il professor John Rawls, cioè colui che ha formulato quel principio di giustizia sociale secondo il quale una società dovrebbe fare le sue scelte sotto il «velo dell'ignoranza»?

“I cittadini—sintetizza molto efficacemente il giornale—dovrebbero essere chiamati a definire il livello minimo di equità come se non conoscessero la futura condizione sociale che sarà loro riservata. Così non accetterebbero mai condizioni di disparità così gravi da doverne soffrire personalmente, ma neanche condizioni di egualitarismo così esasperato da poterne esserne penalizzati.”

E’ abbastanza probabile che ne sarebbe due volte contento : per l’oggettiva consonanza e per la collocazione politica dell’insperato discepolo. E in più, forse, per la delicatezza e l’attualità della materia alla quale la proposta si applica.

Fin qui le ipotesi, ma una cosa è invece assolutamente certa: Il Riformista raccoglie la provocazione di Gianfranco Fini, rilancia e allarga il discorso. Non perde tempo a ricercare il bandolo della matassa inseguendo ipotesi malevole circa i secondi e terzi fini (mi scuso per il bisticcio involontario) della clamorosa iniziativa, per quanto ancora solo annunciata. Apre generosamente un credito e domanda al centrosinistra di fare altrettanto, cogliendo l’opportunità “storica” di una svolta senza precedenti nel costume politico di questo paese. Occupiamoci di politiche, non di politica, cioè del che fare piuttosto del con chi stare. E applichiamo il nuovo metodo non solo all’ambito specifico, ma a tutti i campi, a tutti i segmenti del pensare e dell’agire politico.

Difficile non subire il fascino di questa sfida, sottrarsi al wishful thinking che vuole ribaltare prassi e schemi consolidati. Che butta il cuore oltre l’ostacolo e lascia intravedere un futuro nei cui tratti caratteristici si possono scorgere i contrassegni di un’utopia radicalmente diversa da tutte quelle che abbiamo conosciuto, letto e sognato. Un’utopia riformista, cioè un’utopia che non è tale, dal momento che può essere realizzata. Bello, indubbiamente.

Se Rutelli e Fassino fanno come Fini

[Questo post è stato pubblicato per la prima volta su windrosehotel.ilcannocchiale.it il 13 ottobre 2003]

Le coordinate del riformismo (2)

Un editoriale del Riformista (Cara sinistra, la ricreazione è finita ) richiama ancora una volta la necessità, per la sinistra, di andar oltre «un filone di pensiero, più che dignitoso quando non è illiberale, secondo il quale vincere le elezioni non è poi la cosa più importante». Occorre superare, cioè, quella certa visione secondo la quale «più importante è tenere alta una bandiera e vivo un bisogno: un tempo era il bisogno di comunismo, poi divenne bisogno di elementi di socialismo, o bisogno di diversità, infine bisogno di giustizia sociale. Se la maggioranza della società non avverte questi bisogni, tanto più ci deve essere una minoranza che se ne fa araldo e difensore».

E’ una battaglia sacrosanta ma difficile, credo. E per vincerla non penso sia sufficiente convincere un bel po’ di gente che è il caso di combatterla, che è essenziale combatterla—anche se già questo sarebbe un risultato non disprezzabile, se pensiamo realisticamente a quali sono, a tutt’oggi, le abitudini mentali di buona parte del popolo di sinistra e della sua leadership.

Per vincerla occorre promuovere un cambiamento profondo di mentalità, perché certe convinzioni non nascono dal nulla, non sono il frutto di semplici “errori di valutazione”. Si tratta di qualcosa di molto più profondo.

Nel post precedente ho scritto in sostanza che è necessario spostare il baricentro del dibattito dal politico al filosofico. Posso permettermelo perché, appunto, questo è un blog, non è la Festa dell’Unità. Qui si può ragionare senza l’ossessione di essere persuasivi in maniera immediata, qui si può correre il rischio di non essere compresi senza beccarsi una bordata di fischi. Nello stesso tempo, però, come ricordavo, il ragionamento non voleva essere “accademico”. Al contrario, l’obiettivo era, è, estremamente concreto. Infatti, quello spostare il baricentro del dibattito mira non a dare la parola ai filosofi, ma, in un certo senso, a toglierla loro per restituirla alla gente…

Il pensiero di sinistra è filosofico, lo è praticamente da sempre. Anche il militante meno ferrato in filosofia, in realtà, si è formato all’interno di una cultura politica che ha profonde radici filosofiche. Può esserne consapevole o meno, ma è così. Ed è per questo che, se vogliamo fargli cambiare mentalità, dobbiamo cominciare dalle basi filosofiche delle sue convinzioni più radicate. Altrimenti non si fa un nuovo partito, ma la cosa-4, destinata a fallire come le precedenti.

Come ha scritto Benjamin Barber, quando i filosofi, come spesso accade, «sostituiscono la Ragione al senso comune sono inclini a concepire il senso delle persone comuni come un nonsenso». Per questo tra l’altro, Dewey, il grande pensatore liberal, maestro di democrazia, preferiva parlare di intelligenza piuttosto che di ragione, per via della lunga storia antiempiristica che sta dietro a quest’ultima.

Nel suo ultimo libro, Tornare al futuro, Amato ha spiegato molto bene che, per la sinistra, è giunto il momento di prendere atto che viviamo nella società degli individui, che è finito il tempo in cui le società si organizzavano intorno a tre istituzioni: i partiti, i sindacati e il «grande Stato». Le grandi trasformazioni socio-economiche di questi anni hanno sottratto a quella architettura il suo presupposto, le masse, al posto delle quali oggi troviamo appunto individui. C’è un gran numero di operai che diventano imprenditori, ci sono lavoratori dipendenti con accresciute responsabilità, i cui ruoli si differenziano sempre più l'uno dall'altro, gregari divenuti protagonisti. Così, mentre dal sindacato si scappa, i partiti sono percepiti come estranei e allo Stato si chiede di essere meno invadente. Una misura del cambiamento, ricorda Amato, è che la società degli individui chiede di contare, ma non c'è più il tempo e neppure la voglia di partecipare, e in compenso si pretende che le cose siano messe bene in chiaro e che sia lasciata la possibilità a ciascuno di dire la sua su tutto, se e quando se ne sente il bisogno.

La vecchia cultura politica di stampo hegeliano, razionalista, marxista, ecc., non è in grado di cogliere la portata del cambiamento. L’”intellettuale di sinistra” nutre un profondo sospetto, un’insofferenza ai limiti del disgusto per l’anarchia un po’ selvaggia e per il disordine creativo di cui il cambiamento è portatore. Mentre i populismi montanti, di cui Berlusconi è solo una delle manifestazioni più clamorose, a loro modo, riescono molto meglio a rappresentare questa novità radicale.

Ecco perché occorre dotarsi di una prospettiva nuova. Se non vogliamo che i populismi prendano definitivamente il sopravvento, dobbiamo cambiare la nostra cultura politica. Fare la lista unica va bene, fare il partito del riformismo va ancora meglio, ma bisogna che qualcosa di profondo cambi, altrimenti siamo alla solita operazione elettorale e di facciata.

Le sfide sono a molti livelli, a cominciare dal divario tra democrazia e globalizzazione. Per raccoglierle la politica—ricordava sempre Amato nel saggio succitato—ha bisogno di una «visione», del progetto di un «ordine nuovo» nel quale siano esclusi tanto il digital divide quanto un mercato senza regole o con regole imposte dagli Usa. Così come il mondo ha bisogno di un “tessuto etico”, di valori e principi condivisi, senza dei quali le società sono ingovernabili. La missione della sinistra consiste appunto in questo, indicare la via verso un «nuovo ordine» che sia anzitutto fondato su un presupposto etico.

Ma un presupposto etico, mi permetto di aggiungere, necessita di un fondamento filosofico. Un nuovo fondamento filosofico, visto che quelli vecchi hanno fatto il loro tempo. Questo intendevo dire con il post precedente.

[Questo post è stato pubblicato per la prima volta su windrosehotel.ilcannocchiale.it il 22 settembre 2003]

Le coordinate del riformismo

Proverei ad andare un po’ oltre l’ambito entro il quale si sta svolgendo il dibattito sul riformismo, che mi sembra un po’ troppo incentrato sull’immediatezza del politicamente possibile, qui ed ora. Non voglio negare che sia necessario porsi un problema immediato, scadenze ravvicinate, obiettivi concreti (anche elettorali), tuttavia, non essendo personalmente necessitato a prendere decisioni (non sono impegnato nella “politica attiva”) ed essendo piuttosto interessato agli aspetti più culturali (di cultura politica) della questione, mi consento di prendere il discorso più alla lontana.

Dunque, comincerei osservando che su una cosa i propugnatori del nuovo partito riformista si ritrovano generalmente d’accordo : «la storia del riformismo italiano è storia che mette insieme, collega, allea ed a volte intreccia tre filoni fondamentali: il filone socialista, in tutte le sue famiglie, il filone laico-democratico (a cui, più che ad altri, ha finito più spesso per collegarsi il movimento ambientalista) ed il filone cattolico-popolare. Sono tre storie che fanno parte di una stessa storia; ciascuna ha avuto maggiore o minore spazio, ha avuto maggiori o minori devianze, ma sono esse i pilastri del nostro futuro. L’unione dei quattro partiti che formano la sinistra dell’Ulivo è dunque una pregiudiziale per far politica e anche per compiere poi passi ulteriori verso una crescente integrazione della nostra coalizione».

Lo scriveva Giuliano Amato ("Serve ancora una sinistra?") nel luglio 2001, e, appunto, non ho motivi per credere che questa impostazione sia superata, anche alla luce dei più recenti sviluppi.
C’è però un’altra questione che mi pare si tenda generalmente a sottovalutare : quella di trovare un minimo di intesa sulle coordinate culturali e filosofiche del nuovo soggetto politico. Questione che, ancor più che gli aspetti politici e programmatici, già di per sé difficili da portare a sintesi, può a mio avviso costituire un ostacolo formidabile al processo di confluenza da parte di “identità” che sono sì intrecciate tra loro, ma anche, oggettivamente, piuttosto lontane sotto il profilo culturale e filosofico.

Più o meno tutti, almeno in qualche misura, desideriamo superare le diatribe e le divisioni del passato. Questo è certo. E tuttavia occorre accertarsi se tutti siano anche disposti a fare un passo avanti rispetto non solo agli aspetti più contingenti e meno “disinteressati” di quelle divisioni, ma anche rispetto a ciò che di più nobile—e comunque di non strumentale—quelle diatribe pur sempre sottendevano, cioè l’idea generale di società e di stato. Con ciò che ne conseguiva, molto concretamente, per la vita quotidiana del cittadino.

Sollevare la questione è forse mettere immediatamente in crisi l’ipotesi di lavoro? Personalmente non credo, anzi, credo sia vero esattamente il contrario. Ma certo ci vuole molto coraggio e molta determinazione.

Per uscire dal vago, direi che una domanda “banalissima” come “che cosa si intende veramente per riformismo?” può essere con successo elusa o aggirata a livello di propaganda, un po’ meno in termini di “programmi”, molto meno in termini culturali, ancor meno (cioè quasi per niente) dal punto di vista delle ricadute sulla vita quotidiana, sia del singolo sia della società e dello stato.
Cosa vuol dire, tanto per fare un esempio, una frase fatta (oltre che una necessità pratica) come “abbandoniamo gli ideologismi”? Significa forse—a volerla mettere in termini filosofici—andar oltre il mondo della filosofia storicistica successivo ad Hegel, come un sostenitore del «Pragmatismo americano» quale Richard Rorty auspica? Significa chiamare a testimoni, come fa appunto Rorty, tanto un liberal del calibro di Dewey quanto un Heidegger che ripudia la filosofia “als strenge Wissenschaft”, come disciplina argomentativa, ecc.? Significa avvertire la necessità di una ridefinizione del liberalismo di sinistra come impegno a far sì che tutta la cultura possa essere poeticizzata invece che illuministicamente (l’Aufklaerung!) razionalizzata o scientificizzata—e con tanti saluti ad Habermas?

Mi rendo perfettamente conto che forse una parte consistente della cultura di sinistra in Italia ignora che è sicuramente lecito vedere nel “pragmatismo”, di Dewey in particolare, un equivalente americano della tradizione riformista europea, o se si preferisce un cocktail di socialdemocrazia e liberalismo di sinistra. Certo non lo ignora una studiosa come Nadia Urbinati, che ha scritto un bellissimo saggio—Individualismo democratico. Emerson, Dewey e la cultura politica americana—che aiuta sicuramente a capire come e in quale misura una migliore conoscenza della “cultura politica” americana, e delle sue radici emersoniane e deweyane appunto, potrebbe tornarci utile, fatti i dovuti distinguo, anche in un momento come questo.

Quello che vorrei auspicare è che si discutesse anche su questioni come queste. Attenzione: non per fare dell’accademia, ma proprio per non caderci dentro senza accorgersene. Rischio non immaginario, come forse qualcuno potrebbe pensare.

[Questo post è stato pubblicato per la prima volta su windrosehotel.ilcannocchiale.it il 21 settembre 2003]

Se prevale Margherita Hack

Caro Ap, faccio come te, e rispondo con un post al tuo post. Io non corro il rischio di far tardi al lavoro, perché per stamattina ho finito, ma nel pomeriggio sarò di nuovo sotto torchio (“in riunione,” che è ancora peggio) e temo che quando sarò di ritorno non avrò fiato di postare qualcosa, quindi lo faccio adesso e per oggi sono a posto.

Dunque, permettimi di dirti che la nostra discussione sta prendendo una piega che non mi dispiace, e questo per un motivo molto semplice: perché un po’ alla volta si sta spazzando il campo da una serie di equivoci. Sul relativismo, sul laicismo e su qualche altra questione. Ti parrà strano, ma con un po’ di buona volontà—questo devo/devi concedermelo—potrei perfino affermare che quello che hai scritto in questo secondo post, a rigore, non mi sollecita più di tanto a controbattere, infatti—udite, udite!—parecchie tue considerazioni avrebbero potuto uscire anche dalla mia penna. Non ne faccio l’elenco, così come non enumero le puntualizzazioni cui pure mi correrebbe l’obbligo di far ricorso qualora volessi a tutti i costi rifuggire da tutti gli equivoci possibili e immaginabili. Parlo soprattutto di qualche arrière pensée che mi attribuisci e/o di talune “interpretazioni” di cose effettivamente dette, ma appunto è meglio lasciar perdere—e questo non perché la cosa sarebbe, in sé e per sé superflua, quanto piuttosto perché sarebbe tediosa ed essenzialmente non produrrebbe altro che ulteriori puntualizzazioni. Mi limito pertanto a richiamare solo due punti che mi sembrano più “essenziali.”

Il primo è questo: tu dici bene che ciò che non mi piace non è tanto e soprattutto il relativismo—sempre distinguendo doverosamente tra relativismo e relativismo, ché anche questo è per l’appunto un concetto assai relativo …—quanto "l'assolutismo che c'è in giro.” E’ esattamente questo il punto. E va bene anche il tuo rifiuto dell’etichetta per quanto ti riguarda: ok, non sei un relativista, e neppure un laicista. Lo sospettavo, comunque (non è la prima volta che discutiamo su questi argomenti), ma non sottovalutiamo il potere della provocazione! Soprattutto, ma questo non occorre che te lo faccia presente, quando le argomentazioni sono paludate, almeno nelle intenzioni, sotto il manto dell’ironia, che è tanto più feconda quanto più è in grado di allargare l’orizzonte del dibattito. E comunque, diciamolo: anche tu sapevi che le definizioni opposte a quelle che rigetti mal si addicono a me! Anche se da quanto lasciavi intendere le cose potevano sembrare un po’ diverse.

Il secondo. Tu scrivi:

Infine potresti dire. Ma alla buon'ora! Non è forse vero che da sempre le comunità umane si sono riunite intorno a valori e credenze religiose? E non sono state più salde proprio grazie a quei valori e a quelle credenze? Può darsi, non so. Molto si dovrebbe discutere. Ma intanto, concederai che, rispetto a millenni di storia, laicizzazione e secolarizzazione sono un tantino recenti, e bisognerebbe dare a questi processi almeno il beneficio del dubbio. O è troppo relativista?

Beh, potrei risponderti sbrigativamente che se sono bastati questi pochi decenni a provocare gli sfracelli che vediamo—io, magari, li vedo, non tu—chissà cosa dovremmo aspettarci da altri dieci o venti lustri di secolarismo! Ma scarto subito questa risposta e te ne do un’altra un po’ più relativista (nel senso “buono,” s’intende!). Dico, cioè che un conto è la laicità, un altro è il laicismo, un conto sono Galileo e Guicciardini, un altro Margherita Hack e Severino Antinori da una parte e Daniele Capezzone dall’altra—e non c’è neanche l’ombra del dileggio negli accostamenti, che alludono soltanto a differenti attitudes of mind e prescindono da qualsiasi altra considerazione. In altre parole, “il beneficio del dubbio” va concesso a ragion veduta! Quale dei due atteggiamenti mentali cui alludo prevarrà nei prossimi decenni? Tutto dipende da questo. Se prevarrà il primo, allora, dico, io supero la soglia del dubbio e arrivo a proclamarmi «fiducioso» e «ottimista», ma se prevale il secondo, beh, allora spero soltanto che Dio ci aiuti.

[Questo post è stato pubblicato per la prima volta su windrosehotel.splinder.com l'11 ottobre 2005]