January 10, 2007

The radical loser

Hans Magnus Enzensberger—one of modern Germany's most interesting and celebrated writers—looks at the kind of ideological trigger required to ignite the “radical loser”—whether amok killer, murderer or terrorist—and make him explode. In an article which originally appeared in German in Der Spiegel on November 7, 2005 and now available in English translation.

The loser may accept his fate and resign himself; the victim may demand satisfaction; the defeated may begin preparing for the next round. But the radical loser isolates himself, becomes invisible, guards his delusion, saves his energy, and waits for his hour to come.
[…]

The project of the radical loser, as currently seen in Iraq and Afghanistan, consists of organizing the suicide of an entire civilisation. But the likelihood of their succeeding in an unlimited generalization of their death cult is negligible. Their attacks represent a permanent background risk, like ordinary everyday deaths by accident on the streets, to which we have become accustomed.

In a global society that constantly produces new losers, this is
something we will have to live with.
[Read the rest]


[This post was first published at windrosehotel.splinder.com on December 12, 2005]

Riformisti, ovvero 'the way we were'

Se fosse un compito agevole dire qualcosa di riformista sul riformismo mancato dell’attuale sinistra, giuro che non mi sottrarrei a quello che, con ogni probabilità, è un dovere morale, oltre che civico e politico. E invece—almeno a mio avviso—agevole non è, neanche un po’, anzi, direi che è una fatica improba … come sfondare una porta aperta, come far piovere sul bagnato. Sì, voglio semplicemente dire che, forse paradossalmente, quando muovere un’obiezione è troppo facile, mettersi d’impegno a formularla per bene, con scrupolo, ha il sapore della noia, anzi (soprattutto nella fattispecie!) del tedio, cioè, dizionario alla mano, “sensazione tormentosa di stanchezza interiore.”

Nonostante questo, ed anzi proprio per questo, onore al merito di Nicola Rossi, il quale, non essendo, per avventura, un osservatore qualsiasi, e nemmeno un commentatore—dilettante come un blogger o di professione come un columnist—, ma un professore che per giunta è anche un politico, non si è sottratto e ha detto e scritto, da par suo, ciò che era appunto doveroso dire e scrivere.

Per me, come dicevo, è un po’ diverso, ma conosco un trucco che forse mi permetterebbe di salvarmi in corner, e che mi è suggerito dalla celeberrima proposizione del Tractatus di Wittgenstein, corretta, però, se non ricordo male, da Umberto Eco nel Nome della Rosa: “Di ciò di cui non si può parlare occorre narrare.” Ecco, appunto: se proprio dovessi dire qualcosa, racconterei. Ma penso che sarebbe un esercizio tedioso, a sua volta, per i poveri lettori di questo blog … E allora? Beh, propongo un compromesso: che dire se mi limito solo all’incipit, o poco più, di quella narrazione? [Mi sto arrampicando sugli specchi, lo so, ma che vogliamo farci, ognuno ha i suoi limiti …]

Va bene, ieri Maurizio Sacconi—che ho conosciuto abbastanza bene ai tempi del Psi, essendo tra l’altro un concittadino—concludeva così una sua riflessione sul Giornale:

D'altronde Nicola Rossi sa che una sinistra riformista invero è esistita e - non a caso - è stata contrastata e con la violenza cancellata proprio dalla sinistra che oggi lo delude.

Già, una sinistra riformista c’era, appunto. Era la mia sinistra, contrastata accanitamente, odiata (è la verità) e infine "terminata" dall’altra sinistra, anche da quella parte di essa (odio escluso, forse) che oggi si proclama riformista, ma, appunto, come ha spiegato Nicola Rossi, non c’è più alcuna speranza che lo diventi per davvero. Sono ricordi che non si possono cancellare, lo dico senza rancore, lo giuro, come semplice constatazione. Ricordi vivissimi: conversazioni e scontri tra amici, conoscenti, colleghi di lavoro e, naturalmente, avversari politici. Ci voleva una certa testardaggine, allora, ad essere socialisti, cioè craxiani, cioè riformisti. Qualcuno, certo, lo era per calcolo, come sempre accade in politica, e per costoro non c’erano problemi, nel senso che non se ne facevano, ma per chi ci credeva era dura. Era dura all’università, ai tempi in cui «riformista» e «socialdemocratico», lo sanno anche i bambini, erano espressioni equiparabili ad insulti, era dura sul lavoro. Ma la convinzione di essere nel giusto—poi avallata dai mea culpa dei più onesti tra gli avversari di ieri, come Massimo D’Alema e Piero Fassino—era tale che si passava sopra a tutto. Si resisteva.

Ora Nicola Rossi è arrivato al dunque, e, dico la verità, pur senza esserne particolarmente sorpreso, mi dispiace un po’. Per un certo periodo sono stato tra coloro che hanno ritenuto possibile, oltre che, naturalmente, auspicabile (per la sinistra, per l'Italia, per tutto), un percorso che facesse transitare la vecchia sinistra ex comunista da posizioni genericamente massimalistiche, almeno in buona parte, o da uno stato confusionale che definire di ambiguità cronica non sarebbe esagerato, a un’attitudine mentale autenticamente riformista. Ho detto attitudine mentale non a caso, perché, per quel che ho capito io, di questo si tratta, non tanto o non solo di “programmi,” che del resto di quella attitude of mind sono soltanto una logica conseguenza, per quanto inevitabile e necessaria.

Mi dispiace perché, essendo io stesso arrivato (dolorosamente) alla medesima conclusione, speravo, per senso civico, che gente come il Professore ce la facesse a tenere duro. Ma, ovviamente, prendo atto e capisco. Dirò di più: comprendo e ammiro sinceramente. Perché se per me è stato abbastanza “naturale”—questione di memorie, come dicevo—tagliare i ponti, per uno come Rossi deve essere stato terribile e deve aver richiesto un coraggio leonino. Eppure, come appunto ricordava Sacconi, “Nicola Rossi sa che una sinistra riformista invero è esistita,” e quel che segue. Dunque, se ne può fare una ragione, come, per altre vie, se ne sono fatti una ragione tutti gli ex socialisti che sono andati con Forza Italia. Una scelta, quest’ultima, che, d’accordo, qualcuno può aver fatto per tornaconto—anche se lo stesso penso che valga per chi ha fatto la scelta opposta—, ma che, in generale, a meno che non si sia preda di una visione becera e manichea della lotta politica, non può che far riflettere.

Di una cosa sono ragionevolmente certo: a tutti noi “vecchi riformisti,” a noi blairiani prima di Tony Blair, penso produca una strana sensazione (che definire “orgoglio” sarebbe riduttivo) pensare a “come eravamo,” e una certa, struggente, nostalgia immaginare come avrebbe potuto essere. Ma il mondo va avanti. Oggi essere riformisti non implica una scelta di campo, semmai, se posso esprimermi così, è il campo che deve scegliere tra riformisti e no …