May 31, 2007

But Prodi doesn't really care

Though Italian Prime minister has not campaigned, insisting the vote had a local significance and no bearing on national politics, last weekend’s local elections have been largely seen as a test for Romano Prodi, given the number of eligible voters—10 million out of an overall electorate of 47 million—and the number of races, with mayorships and city councils to be filled in some 850 towns and small cities and governments in seven provinces. And the test results—inline with a recent opinion poll saying that the majority of citizens think Prodi's government has not done a good job—indicate that, to be fair, the unpopularity of the year old centre-left government has raised the level of alert. Or, to be manifestly unfair, “all of Italy has sent a clear signal to Prodi: this government of taxes must go home,” as centre-right leader Silvio Berlusconi said.

But it is to be said that, earlier this month, Prodi’s coalition was also largely trounced by the center-right in local elections in Sicily (just another “local test,” according to Italy’s Prime minister). This after in February a humiliating foreign policy vote in the Senate briefly brought down the government.

Yet, Romano Prodi has made his best to minimise the electoral whirlwind (“I have no problems in saying that this was an entirely expected result”). But his dismissive shrug could turn out to be a boomerang by giving Italians the impression—or, I should better say, “confirming” the impression—that their Prime minister doesn’t really care what the people think about what the government is doing.

There have obviously been many attempts to explain Prodi’s defeat. This, in today’s The Times, is in my opinion a very perceptive one:

Italy’s multiple political parties and hangers-on cost its citizens € 4 billion a year, more than those of Britain, Germany, France and Spain put together. It is a mighty machine for patronage and getting out the vote, but hopeless at governing. What Mr Prodi has given Italians for their money is a nine-party coalition that runs the gamut from Trotskyist to (a precious few) economic liberals and is daggers drawn over everything from gay rights to public spending, taxes, pensions and regulatory reform.
Mr Prodi’s pledges of sweeping reforms have dwindled into a modest trimming of Italy’s huge debts, a lower budget deficit, and an assault on taxi-driver cartels, bank charges, notaries and supermarkets, with hairdressers and petrol pump owners next in line. All this activity is marginal. He even shows signs of watering down the Berlusconi law raising the retirement age from 57 to 60 — folly, since for every 100 Italians under 18, there are 141 over 65.
[…]
As the election results came in yesterday, Mr Prodi set out to prove his point. In a sop to the Left, he gave Italy’s 3.5 million public sector workers, whose pay in recent years has risen twice as fast as in the private sector, a budget-busting 4.5 per cent pay rise, all without securing the productivity gains he had insisted must be part of any deal. It took Gordon Brown the best part of a decade to understand that such deals stoke inflation; the Italian Left seems not to care. Mr Prodi should now be aware that voters do care.

Yep, voters do care, indeed.

May 30, 2007

Yalla Italia

Ci sono musulmani, italiani di seconda generazione, che scherzano e ridono di se stessi, dei costumi e consuetudini della loro gente, religione inclusa. Questo grazie a un’interessante iniziativa editoriale del settimanale Vita: un inserto mensile completamente autogestito da un gruppo di giovani musulmani milanesi, per lo più studenti universitari, figli di immigrati arabi. Il Giornale ne dà notizia oggi, qualche giorno dopo la conferenza stampa di presentazione. L’inserto si chiama «Yalla Italia» (Vai Italia). Sul sito di Vita si legge che i giovani autori


fanno capo all'esperienza di integrazione avviata negli scorsi anni nelle scuole di Milano dall'equipe del professor Paolo Branca, docente di letteratura araba all'Università Cattolica di Milano. Il primo numero sarà dedicato allo humour e alle vignette nel mondo musulmano.

Il gruppo originario è costituito da circa 200 persone, tra le quali è stata scelta una “squadra” di otto ragazzi con buona predisposizione alla scrittura e alla creatività. A sorpresa c'è una preminenza femminile.
[…]
Coordinatore editoriale del progetto è Martino Pillitteri. Tutti i ragazzi, perfettamente bilingui o trilungui avevano espresso il desiderio di avere uno strumneto sul quale espriemere il loro punto di vista sull'intergrazione. Yalla Italia è quindi il luogo dove loro si raccontano, lanciano un dialogo ai loro coetanei e all'intera società in cui si trovanao a vivere.

Non mi sono ancora procurato il primo numero di Yalla Italia, in edicola da sabato scorso, ma mi ripropometto di rimediare al più presto. Luca Doninelli, sul Giornale, assicura che, a parte l'indubbia validità dell’idea in sé e per sé, la qualità del prodotto è eccellente.

May 29, 2007

Standing on the Corner

On July 16, 1930, Jimmie Rodgers—the father of country music, also known as America's Blue Yodeler—met and did a session with 29-year-old New Orleans trumpeter Louis Armstrong, in Hollywood. It was then that the two recorded "Blue Yodel #9" (a.k.a. "Standing on the Corner"), a blues/country song by Jimmie Rodgers himself. Fourty years later, on October 28, 1970, Louis Armstrong was a guest on the Johnny Cash Show, on the ABC network, and Man in Black asked him to recreate that recording session. Satchmo cracked everybody up at the start of the song: “Let's give it to 'em in black and white …”



May 27, 2007

Dove vogliamo andare a parare?

Ci si domandava “dove vuole andare a parare,” il Montezemolo, ma il problema era, è, un altro: dove vogliamo andare a parare noi, gli italici cittadini. A volte la vita è meno complicata di quel che sembra. Cioè, una volta inquadrata la situazione, bisogna tirare una linea retta (quasi). Altrimenti tocca sorbirsi un’analisi come quella di Barbara Spinelli su La Stampa di oggi, che per dir male di una complessità che finisce per diventare l’alibi per non far nulla ci propina Durkheim, il suicidio anòmico (attenzione: non anemico), Weimar, Max Scheler e la “«nostalgia straordinaria di guida, a tutti i livelli» (beispiellose Sehnsucht nach Führerschaft allüberall).” Oh Lord, my Lord, salvaci dalle citazioni in Deutsche Sprache, quelle che ti fanno venir voglia davvero di metter mano alla pistola! (Pierluigi Mennitti mi perdonerà, spero …).

Il guaio è che ci si mette anche Luca Ricolfi, su La Stampa di ieri, che cita Lucia Annunziata, stesso giornale (deve trattarsi di un complotto sabaudo …):


Forse mi sbaglierò, ma la mia impressione è che quello che sta montando nel Paese, fra la gente, non è l’astratta richiesta di riforme (su cui ben pochi hanno idee precise) ma è un ben più concreto e diffuso sentimento di frustrazione e di rabbia per il triste film che quotidianamente passa sotto gli occhi di tutti. Pochi giorni fa, su questo giornale, Lucia Annunziata ha parlato di un «generale senso di ingiustizia». Sì, credo che proprio questo sia il sentimento che si sta condensando in Italia. La gente, poco per volta ma inesorabilmente, si sta rendendo conto che l’immobilismo del ceto politico sta alimentando un mare di ingiustizie, che però la politica non ha occhiali per vedere.

Aria, aria fresca, spalancate le finestre, spegnete immediatamente lo stereo, la radio o quello che vi pare, se per caso stanno risuonando le note decadenti del Götterdämmerung wagneriano—niente di più odioso di ciò che si è amato in gioventù, lo devo ammettere onestamente—e datemi piuttosto il padano, verace, concreto Verdi: Viva Verdi!

Datemi, piuttosto, la prosa piana e anglofila—thanks God!—di Giulianone Ferrara (sul Foglio di ieri):


Le idee di Monti sulla società aperta, le intemerate confindustriali, le severe lezioni antitasse di un Mario Draghi, le nuove posizioni svincolate da ogni osservanza prodiana dei grandi banchieri, tutta questa nervosa mobilità collegata con le nuove tendenze europee e francesi, e con una cultura di mercato che cerca di liberarsi dal soffocante clima neoirista del prodismo provinciale all’italiana, sono risorse molto decenti e serie che un leader sicuro di sé deve saper rispettare, e alle quali deve saper dare uno sbocco politico credibile.
[…]
e sta solo al Cav. e alla sua prudenza folle avviare un progetto inclusivo in cui la sua personalità d’attacco sappia incontrare tutti i volenterosi del mondo per porre fine alla vita di un governo e di una maggioranza che letteralmente non ce la fanno più, ma saprebbero tirare avanti se all’opposizione non quagliasse la convergenza dei diversi per un obiettivo comune.

Diciamo la verità: uno può essere d’accordo o meno, ma questo è parlare da cristiani … Se invece preferite l’altro tipo di eloquio, accomodatevi pure (ancora la Spinelli, che cita Arrigo Levi, sempre su La Stampa …):

Il suicidio anòmico, che si diffonde in simili epoche, è favorito dallo slabbrarsi dell’autorità, delle istituzioni come Stato o famiglia, Chiesa o sindacato. Il suicidio può essere l’atto d’un individuo o di una società, una civiltà, uno Stato. Può suicidarsi anche la politica, come rischia di succedere in Italia. Chi è tentato dal suicidio anòmico ha la tendenza a considerarsi perdente, e vive come se nessun legame sociale potesse più tenere insieme gli interessi dei singoli partiti (quella che Monti chiama tecnica della sopravvivenza è in realtà autodistruttiva). A spingerlo verso questo tipo di harakiri non è tanto la crisi economica ma sono le trasformazioni impetuose che spezzano equilibri e regole preesistenti. Secondo Durkheim è soprattutto nei periodi di prosperità che i legami sociali s’allentano e il senso di sconfitta mette radici, creando quell’infelicità così ben spiegata, il 24 maggio su La Stampa, da Arrigo Levi: un malumore dilagante che non nasce da mali autentici ma è piuttosto una nevrosi, una collettiva illusione pessimista, enigmatica e inquietante: assai simile alla sete che secondo Scheler minava Weimar.

Siete ancora vivi? Ancora non vi siete suicidati o non avvertite un’irrefrenabile vocazione a mettere in atto il turpe proposito? Ok, siete quasi salvi—io volevo solo mettervi alla prova. Viva Verdi!

May 25, 2007

Dove vuole andare a parare?

Dove vuole andare a parare? Se lo chiedono tutti, e sarebbe bello che qualcuno avesse la risposta. Ma forse non lo sa nemmeno lui, LCdM, e comunque, se così fosse, la cosa gli farebbe onore, o almeno lo metterebbe al riparo da certe reazioni. Dovrebbe, però, preoccuparsi di farlo sapere in giro, il che gli eviterebbe di beccarsi mazzate come quelle che Oscar Giannino gli ha assestato oggi su Libero: un massacro degno di un film di Quentin Tarantino, o almeno così a me pare. Davvero troppo, anche se le argomentazioni non mancano. Il punto, però, è che le argomentazioni non mancano neanche a LCdM. E semmai il problema, o l’«equivoco», come si esprime un editoriale del Foglio, è “dove va a parare?” Perché, vabbè, la destra italiana non è sarkozista (“politicamente iperprofessionale”), cioè (forse) “capace di realizzare un progetto organico di riforma,” ma nel bipolarismo è da quelle parti che gli imprenditori sanamente tecnocratici e compagnia bella si vanno a collocare. Il resto son chiacchiere.

Oppure LCdM è soltanto un “ambizioso,” come taglia corto Giannino. Dai tempi dell’assassinio di Cesare—almeno stando a William Shakespeare—quella dell’ambizione è sicuramente un’accusa da non prendere sotto gamba, però non bisognerebbe dimenticare che a Bruto quella celeberrima argomentazione è costata cara … Ricordiamo tutti quel perfido individuo di Marc’Antonio che ripete il mantra: “Ma Bruto dice che Cesare era ambizioso, e Bruto è un uomo d’onore …” Ok, chiedo venia per gli accostamenti, ma, di grazia, da quando in qua, caro Giannino, è una cosa così orribile essere ambiziosi? E poi, parlando fuori dai denti, chissenefrega se quello là è ambizioso?

Con questo non voglio certo spingermi fino a sponsorizzare i toni—ma i contenuti sì, perbacco!— dell’editoriale odierno del Corriere, a firma di Dario Di Vico:

Quegli imprenditori che sono stati capaci in regime di moneta unica (senza le generose svalutazioni di una volta) di riconquistare palmo a palmo decisive quote di export, ora si chiedono perché debbano essere finanziate comunità montane a pochi metri di altezza sul livello del mare, perché i consiglieri della regione Veneto abbiano diritto ai funerali gratis e perché si dilapidi denaro pubblico per tenere in piedi istituzioni quasi inutili come le province. Chiedono se la politica abbia scelto come missione quella di perpetuare se stessa e il suo ricco indotto o piuttosto non debba dedicarsi a costruire l'Italia del 2015.

Una cosa è certa, ed è quella che ha sintetizzato Antonio Polito: Montezemolo ha parlato da leader dei Volenterosi. Un’altra certezza è che Pierferdinando Casini ha condiviso il discorso del presidentissimo, in linea, del resto, con ciò che qualche settimana fa auspicava Bruno Tabacci: un allargamento dell'area Udc a personalità esterne. Se poi alla «nuova borghesia consapevole» di cui parla LCdM siffatta prospettiva possa interessare è ovviamente un altro discorso. Del resto, come ha scritto Giannino,
il presidente dai mille incarichi ha una massima ben chiara: tipico dei veri ambiziosi è farsi portare dalle onde, senza curarsi della schiuma. Non l'ha mica detta un fesso qualunque, ma uno che al potere ha pensato mezza vita e per l’altra l'ha gestito personalmente: Charles de Gaulle.

Ora, c’è un’ultima certezza da spendere a beneficio dei lettori di questo blog: De Gaulle, appunto, non era un fesso. Il resto è sommamente incerto e opinabile. A meno che non ci si fidi di uno che ha una certa esperienza nel settore, e che ha tagliato corto come Giannino (ma con molta più grazia ...): «Il discorso del presidente di Confindustria di ieri? L'ho trovato con un tono troppo didattico. Soprattutto dirò a Montezemolo di non pontificare e di lasciare queste cose ai vescovi». Stiamo parlando—ma occorre dirlo?—di Gilio Andreotti. Eh, eterna Democrazia Cristiana!

Cazzola dà da pensare

Sul Foglio di oggi:

Al direttore - Dopo il trionfo della Nazionale al Mondiale tedesco, il Milan conquista la Champions e la Juve torna al suo posto in serie A. Viva il calcio italiano che ha ragione, sul campo, dei suoi nemici. Alla faccia di Francesco Saverio Borrelli e dei magistrati napoletani che intercettano le telefonate mentre la città affonda nei rifiuti.
Giuliano Cazzola

Cazzola dà da pensare, indubbiamente.

May 24, 2007

Vincere la guerra e perdere la pace

Il Corriere ripropone in traduzione italiana un articolo di Christopher Hitchens per il New York Times. La riflessione è ispirata dal libro di Ali Allawi, The Occupation of Iraq: Winning the War, Losing the Peace (L'occu­pazione dell'Iraq: vincere la guerra, perdere la pace), che è “scritto con la mente e con il cuore” e “merita tutta l'atten­zione e i numerosi riconoscimenti che gli sono stati tributati.” Il succo del discorso è che

intervento o non intervento, l'Iraq era co­munque predestinato a essere travolto dal caos. Questa tesi è corroborata da un'al­tra constatazione, e cioè che lo sgretola­mento politico avanzava già con prepo­tenza nel decennio precedente il 2003. Di nuovo, la sobria analisi di Allawi, basata su prove accurate, contribuisce ad aggra­vare uno scenario in sé già assai fosco.

La politica americana non poteva resta­re indifferente davanti a tutta questa soffe­renza, miseria e demagogia, se non altro perché l'intero contesto iracheno era stato plasmato da due decisioni americane. La prima, di lasciare Saddam al potere dopo il '91 e restare a guardare mentre massa­crava sciiti e curdi, un'azione che Allawi definisce giustamente «imperdonabile». La seconda, di imporre sanzioni, le quali, per la loro eccessiva durata, hanno recato danni peggiori a una società già duramen­te travagliata che non al suo governo spietato e corrotto.

Nessuno meglio di me è al corrente di tutti i fallimenti della nostra politica dopo-invasione, e potrei aggiungere anche al­tre osservazioni in base alla mia esperien­za. Ma ho sempre sentito profondamente che l'Iraq è nostra responsabilità in un mo­do o nell'altro, e che rinunciare all'inter­vento o rimandarlo avrebbe significato so­lo essere costretti ad agire successivamen­te, in condizioni forse più spaventose e pe­ricolose di quelle che ci sono diventate fa­miliari. Non so se Allawi sarebbe d'accor­do con la mia valutazione, ma il suo libro, lucido e coinvolgente, presenta argomenti che sarebbe molto difficile contestare.

Oh mia bela Madunina ...



del resto, onestamente parlando, uno può essere diventato nerazzurro perché quand'era ragazzino con quella maglia si vinceva di tutto, e alla grande, e dunque, a esser nati solo qualche anno dopo … e poi, è vero o non è vero che Milàn l’è (semper) un gran Milàn???

May 23, 2007

Giovanni Falcone

Non mi intendo di cose di mafia e di conseguenza non mi arrogo mai il diritto di sparare sentenze sull’argomento. Però ho dei ricordi abbastanza nitidi, ricordi di conti semplici semplici che non mi tornavano. E’ vero che sono sempre stato tentato di attribuire la responsabilità di quei due più due fanno tre alla mancanza di sistematicità (e di pazienza certosina) che caratterizza il mio approccio alla complicata materia. E tuttavia, quando leggo ciò che scrivono persone che, invece, sanno quel che occorre sapere, perché si sono documentate, oppure sono state testimoni personalmente di eventi significativi, e quando qualcuno di costoro racconta e spiega fatti e situazioni come io sospetto da sempre che vadano raccontati e spiegati, beh, allora mi sento autorizzato a uscire allo scoperto.

Oggi ricorre il quindicesimo anniversario del barbaro assassinio di Giovanni Falcone, di sua moglie e della sua scorta. Vorrei ricordarlo anch’io, con tutti quei miei due più due che fanno sempre tre. E mi affido alla buona memoria di un vero esperto e di un bravo cronista: Umberto Santino e Filippo Facci. Del primo ripropongo uno scritto di cinque anni fa, del secondo un articolo che si legge su Il Giornale di oggi. In entrambi i casi—non occorre neppure dirlo—si parla di una persona avversata da viva e santificata da morta. E non certo per colpa sua.

Green Green Grass of Home


(Joan Baez performing "Green Green Grass of Home" on the Smothers Brothers show)

I was little more than a child when I first heard it sung by Tom Jones, and I liked it quite a bit. In fact, it was the Welsh singer who made "Green Green Grass of Home" popular, in 1966, though it had been recorded earlier that year by Jerry Lee Lewis. But it was when I heard it sung by Joan Baez that I realized how much I loved that yearning country song. Since then, I was searching for other versions. So I came across that of Johnny Cash, on his famous1968 Johnny Cash at Folsom Prison album, that of Elvis Presley, my favourite one, on his 1975 Today album, the one by Kenny Rogers (1977), and many others. By the way, in an Elvis fan site—where The King’s version of the song can be heard—I have learned that "Green Green Grass of Home"
had first caught Elvis's attention when he heard Tom Jones's version on George Klein's WHBQ radio show while driving home from California for Christmas in 1966. Elvis had flipped over the record then and stopped repeatedly to have Joe Esposito call from Arkansas to get George to play it again and again. At the time Red West was surprised to hear Elvis raving about the song, having played Jerry Lee Lewis's version for Elvis months before that to no reaction. Elvis's voice was more suited to this second number than the first, and he had it down from the start.
***
LYRICS The old home town looks the same, As I step down from the train, And there to meet me is my mama and my papa. Down the road I look, and there comes Mary, Hair of gold and lips like cherries. It's good to touch the green, green grass of home. The old house is still standing, Though the paint is cracked and dry, And there's the old oak tree that I used to play on. Down the lane I walk with my sweet Mary, Hair of gold and lips like cherries. It's good to touch the green, green grass of home. Yes, they'll all come to see me, Arms reaching, smiling sweetly. It's good to touch the green, green grass of home. Then I awake and look around me, At the four gray walls that surround me, And I realize that I was only dreaming. For there's a guard, and there's a sad old padre, Arm in arm, we'll walk at daybreak. Again, I'll touch the green, green grass of home. Yes, they'll all come to see me In the shade of the old oak tree, As they lay me 'neath the green, green grass of home.

May 21, 2007

Riflettendo sul dopo-Family Day

[Attenzione, questo è un post piuttosto lungo. Me ne dispiace, ma proprio non mi è stato possibile sintetizzare. Anzi, a me sembra fin troppo sintetico, dato il tema. Di questo, forse, dovrei dispiacermi ancora di più.]

Tra giovedì e venerd' scorsi, cioè tra un articolo di Gianni Baget Bozzo sul Giornale ed uno di Antonio Socci su Libero, il dibattito sul dopo Family Day si è arricchito e, nel contempo, complicato. Sì, perché le due analisi mi sono sembrate tanto stimolanti quanto contrapposte. Dunque, i due ragionamenti sono l’ideale per lasciarsi confondere un po’ le idee—strategia sempre efficacissima per arrivare a un risultato apprezzabile …—e consentirsi un discreto ampliamento di orizzonti.

La questione, sicuramente, è cruciale, il momento è topico, e il Family Day, ovviamente, c’entra poco (e meno ancora i “Dico”), perché il punto—che poi è in realtà un groviglio di punti—è un altro: le fede e il suo rapporto con «il secolo», cioè la «verità» e la sua convivenza con la non-verità del secolo, il tutto nelle più svariate declinazioni e rappresentazioni.

A dire il vero, Baget Bozzo ha parlato soprattutto del momentaccio che stanno attraversando i rapporti tra i ds e la Chiesa (perché “la linea filocattolica che risale al Pci viene meno man mano che sul piano europeo la linea anticattolica diviene un patrimonio della sinistra”), ciò non toglie, però, che il ragionamento sia molto interessante anche da quell’altro punto di vista. Infatti, don Gianni pone—giustamente, a mio avviso—all’origine dello “strappo” un cambiamento profondo avvenuto in seno alla Chiesa in questi ultimi anni: lo spostamento dell’attenzione dai temi sociali a quelli morali, con un ritorno in grande stile dello “spirito di tradizione,” cioè della fedeltà alle radici. Ma è proprio a questo punto, aggiungerei, che troviamo il groviglio di cui parlavo prima: se dal sociale si passa alla morale, ecco che radici, tradizioni e identità conducono il confronto su un terreno difficilmente praticabile da parte di chi, appartenendo a una tradizione filosofica e culturale laica, scientista, materialista, ecc., non può che avvertire un certo disagio (per non dire fastidio) nel confrontarsi con una tradizione al centro della quale vi è una «verità» che si colloca oltre lo Stato, la scienza e la materia, e che, tuttavia, «fonda» e dà senso ai precetti morali (sui quali si dovrebbe cercare di trovare una qualche intesa).

A questo punto la riflessione di Socci giunge assai utile. Al di là di alcune considerazioni un po’ estremistiche, che appartengono allo stile polemico e al bagaglio culturale del ciellino Socci, mi sembra interessante il ribaltamento della questione che viene proposto. Socci, cioè, non pensa affatto che la “guerra dei Dico” sia uno scontro “fra guelfi e ghibelli­ni, fra laici e cattolici,” secondo lui, infatti, si tratta innanzitutto di una guerra fra cattolici, di “una dram­matica spaccatura ecclesiale che cova sotto la cenere da tre decenni.” Infatti,

[a] firmare i Dico - per il governo del dossettiano Romano Prodi - è quella Rosy Bindi che viene dalla presidenza dell'Azione Cattolica Italiana, una che è entrata in politica nella Dc proprio come "rappresentante" del mondo cattolico e fiduciaria dei vesco­vi. E l'estensore materiale della legge è Stefano Ceccanti, oggi capo dell'Ufficio legislativo del ministero per i Diritti e per le Pari opportunità, ma ieri pre­sidente della Fuci, la "fucina" dell'establishment "cattolico democratico". Non solo. Pro­prio Ceccanti ha svelato che l'articolato dei Dico si ispira al cardinal Martini. Testuale: «II cardinale Carlo Maria Martini, in un bellissimo discorso pronunciato alla vigilia di Sant'Ambrogio del 2000 diceva che sulle coppie di fatto "l'au­torità pubblica può adottare un approccio pragmatico e de­ve testimoniare una sensibilità solidarista". E concludeva: "Al vertice delle nostre preoccu­pazioni non deve esserci il proposito di penalizzare le unioni di fatto, ma sostenere le famiglie in senso proprio". Questi sono i canoni di Marti­ni che di fatto andiamo a pro­porre» (La Stampa, 11.12.2006).

Se le cose stanno così, prosegue Socci,

[r]esta da capire se per la Chiesa ha senso, mentre si indebolisce la fede vissuta e la dottrina ortodossa, proiettare in battaglie culturali e politiche esterne (contro i "laicisti") quel raddrizzamento della fede cattolica che non si osa operare per via diretta […].


Attenzione, l’obiezione è forte, ma, provenendo da un ciellino, non è sorprendente: è la riproposizione della vecchia polemica nei confronti dell’Azione Cattolica e della Fuci, cioè del­l'establishment cattolico de­mocratico, quello fino a ieri più protet­to e sponsorizzato dai vescovi italiani. E tuttavia, se non sbaglio, riproporre oggi la polemica ha paradossalmente un significato distensivo nei confronti dei laici … Da questo punto di vista la provocazione può essere utile, perché dalla contrapposizione frontale laici-cattolici possono nascere solo problemi. Per cui non sarebbe male se Socci avesse ragione. Ma, a parte gli auspici, è molto probabile che egli sia effettivamente nel giusto, o meglio, che abbiano ragione sia Socci sia Baget Bozzo: le due chiavi di lettura, infatti, non si escludono a vicenda. Perché mai dovrebbero? Lo scontro all’interno della Chiesa inevitabilmente si riverbera nel dibattito laici-cattolici.

Ma c’è un altro strale contro il partito—se ce n’è uno—dello scontro frontale: a rincorrere “un’influenza culturale e politica sui costumi” la Chiesa corre un rischio enorme, quello di considerare il cristianesimo come “il sistema supremo dei valori umani,” a dispetto del fatto che, come osservò Romano Amerio, “la Chiesa è per sé santificatrice e non incivilitrice e la sua azione ha per oggetto immediato la persona e non la società.” Sono concetti che, alle orecchie di tutti coloro i quali auspicano una religione meno «pubblica» e più «privata», devono suonare più dolci del miele.

E’ evidente che Socci, quando vuole, sa essere spiazzante. Ma, onde evitare che nella mente di qualcuno possa insinuarsi il sospetto di una “apostasia” socciana rispetto alla linea della Chiesa italiana, il Nostro, preso atto che, a causa del conflitto che lacera dall’ interno la Chiesa, il successo del Family Day non deve indurre al trionfalismo, invita a prendere sul serio ciò che il cardinale Ratzinger ebbe a dire una volta: «Non è di una Chiesa più umana che abbia­mo bisogno, bensì di una Chiesa più divina; solo allora essa sarà anche veramente umana». Il che, lascia intendere Socci, dovrebbe significare più o meno questo: non innalziamo barricate contro i laici, facciamo piuttosto (prima) i conti con quel «pensiero di tipo non-cattolico» che—per citare la preoccupazione che Paolo VI manifestò a Jean Guitton nel lontano 1977—«sem­bra talvolta predominare all'in­terno del cattolicesimo». Del resto, ricorda Socci, la frase più drammatica di Gesù nel Vangelo è questa: «Quando il Figlio dell'Uomo ritornerà, troverà ancora la fede sulla terra?»

E tuttavia …, tuttavia qualche differenza c’è tra l’impostazione ratzingeriana (e ruiniana) e quella ciellina. Mettere ordine all’interno della Chiesa non basta a Benedetto XVI, il Papa-filosofo, e questo non tanto per ragioni politiche quanto perché è la questione della «verità» che sta a cuore soprattutto al Pontefice. Una verità che non riguarda solo le coscienze dei credenti, ma l’umanità tutta intera, perché per un filosofo non c’è umanità senza verità, e non c’è verità senza «ragione». Qui, ovviamente, il discorso si complica e per un post diventa davvero troppo complesso. Ma un accenno credo di poterlo fare, senza troppe pretese, chiamando in soccorso la prefazione che Giuliano Ferrara ha scritto per il Manifesto dei conservatori, del filosofo inglese Roger Scruton, da domani in libreria (la prefazione è stata pubblicata in anticipo sul Foglio del 17 maggio):

Allargare lo spazio della ragione, sottraendola allo strumentalismo tecnico dello scientismo e all’estetismo superomista nicciano, è il compito di buonsenso, di senso comune, di realismo che un conservatore deve assolvere. Se il manifesto che offre la possibilità di adempiere a questo compito va dal discorso di Ratisbona di Benedetto XVI al pamphlet e all’insieme del lavoro di Roger Scruton, bisogna dire che siamo sulla buona strada: è in atto, che lo si sappia o no, un’alleanza destinata a rivelarsi efficace tra un pensiero europeo-tedesco, che nasce nel cuore della filosofia e della teologia continentale, e che è erede dell’ellenizzazione e del diritto romano, e un pensiero anglo-sassone scaturito dalla common law, dal diritto consuetudinario, dall’idea che lo stato non debba essere un Moloch laico che impone una sua ideologia secolarista, ma uno strumento legale per risolvere conflitti sociali secondo il metro e la misura del buonsenso storico e filosofico, illuminato da un giusto rapporto, il Criterio, tra morale e legge.



Forse, dico forse, quello che sfugge a Socci (o che lo preoccupa) è appunto quell’alleanza tra un pensiero europeo-tedesco e un pensiero anglo-sassone scaturito dalla common law

May 14, 2007

Vittoria amara

Vorrei dire che adesso le cose sembrano un po’ più chiare, che a piazza San Giovanni s’è fatto un passo avanti, ma sarebbe una verità parziale, perché avanti si va solo se c’è l’idea condivisa che ci si debba andare, all’incirca, tutti insieme, non due terzi sì e uno no. E poi, diciamolo, dei laici c’è bisogno, perché senza di loro, cioè senza i “lumi” e le rivoluzioni borghesi, non saremmo ciò che siamo. Così come loro, senza di noi, non sarebbero neanche potuti esistere. Per questo, a rigore, c’è poco da esultare, e la vittoria—schiacciante, perfino imbarazzante—è amara per noi papisti quasi quanto lo è la disfatta per la controparte. Sappiamo, in ogni caso, che se “qualcosa di serio e profondo non fun­ziona nel nostro modo di vivere,” non sarà senza—e tanto meno contro—di loro che riusciremo a cambiare ciò che va cambiato, conservando però ciò che va conservato. Se solo si riuscisse a rispettarsi reciprocamente si sarebbe già in vista della meta. Infine, non vorrei sembrare scortese, ma a me pare che un appello come questo dovrebbe far meditare:

Io rispetto il pensiero degli altri, aspet­tando che maturi il rispetto per il pensie­ro o magistero di un Papa che mi piace, che sa dire quel che si deve dire a favore della ragione e contro il razionalismo astratto. E non sono papista perché voglio "strumentalizzare la religione" (com'è sempre banale, piatto, il pensierodell'onorevole Prodi, con tutti quei fratelli che sanno e che ragionano potrebbe informar­si almeno in famiglia!). Sono papista per­ché sento con sempre maggiore chiarezza che qualcosa di serio e profondo non fun­ziona nel nostro modo di vivere, e che la li­bertà di vivere come a ciascuno pare e pia­ce, sacra in linea di principio, si sta rovesciando nell'obbligo di vivere come impo­ne l'ideologia secolarista, sempre confor­mi a una linea di fatto.

Se ne può parlare liberamente, della verginità prima del matrimonio che suona ruralismo ideologico e proibizionismo urticante contro l'uso precoce dei sensi, suo­na proprio così al cospetto dell'amor civi­le celebrato con il divorzio in Piazza Navona, ma se ne può parlare soltanto se venga rispettato, compreso, accolto con simpatia e non con irrisione l'insieme del discorso pubblico nuovo della chiesa cat­tolica e di tante altre denominazioni, cri­stiane e non (penso alla sortita del rabbino Di Segni sull'omosessualità).

O i laici si aprono al confronto, e si rein­ventano, oppure asfaltano una brutta stra­da che sarà percorsa dal carrozzone dell'incomprensione, della rigidità ideologica, chiunque vinca alla fine, e sappiamo tutti che la vittoria vola per adesso sulle ali di­spiegate dell'informazione di massa, della pubblicità di massa, della cultura di mas­sa supersecolarizzata. Ma per laici veri, vincere nel disonore di un mancato con­fronto, vincere non con l'ironia di una cul­tura che si contamina con quella più anti­ca e più densa dei cristiani, vincere con la forza d'inerzia, non è un premio. È una condanna.
[Dall’editoriale del Foglio di oggi]

May 12, 2007

Family Day

Andare a Roma non è esattamente una passeggiata, quindi oggi non ci sono, a Piazza San Giovanni. Se avessi potuto esserci, però, e se, per ipotesi, mi fosse passato per la mente di buttar giù un post dedicato agli assenti, avrei scritto più o meno quello che si può leggere qui. Grazie ad Angelo.

May 11, 2007

But he didn't pass by

[UPDATED]

After Tony Blair’s resignation speech—delivered on May 10 to party activists in his Sedgefield constituency—I must confess that, among the dozens of comments I have come across on the subject, I have especially loved the sobriety with which my favourite British blogger has expressed his point of view. He simply quoted this passage from the speech “against a whole heap of the commentary” on Blair’s depart (though pointing out that, unlike me, he doesn’t get the ‘belief’ stuff …):

In Sierra Leone and to stop ethnic cleansing in Kosovo, I took the decision to make our country one that intervened, that did not pass by, or keep out of the thick of it.

Then came the utterly unanticipated and dramatic. September 11th 2001 and the death of 3,000 or more on the streets of New York.

I decided we should stand shoulder to shoulder with our oldest ally. I did so out of belief.

So Afghanistan and then Iraq, the latter, bitterly controversial.

Removing Saddam and his sons from power, as with removing the Taliban, was over with relative ease. But the blowback since, from global terrorism and those elements that support it, has been fierce and unrelenting and costly. For many, it simply isn't and can't be worth it.

For me, I think we must see it through. They, the terrorists, who threaten us here and round the world, will never give up if we give up.


UPDATE - Sat, May 13, 2007 - 10:30 pm
There is a full version video in two parts of the speech at You Tube: part one, part two.

May 10, 2007

Tibet tradito

Leggo sul sito dell'associazione Italia-Tibet:

Cedendo alle ripetute pressioni cinesi, il governo belga ha chiesto al Dalai Lama di cancellare la sua visita a Bruxelles dove, i giorni 11 e 12 maggio, il leader tibetano avrebbe partecipato alla sessione inaugurale della quinta conferenza mondiale dei Gruppi di Sostegno al Tibet e incontrato alcuni parlamentari europei. Il governo belga, nel motivare la sua richiesta, ha messo in relazione la visita del Dalai Lama a Bruxelles con la prossima visita (16 – 26 giugno 2007) di una delegazione commerciale, guidata dal Principe Filippo del Belgio, a Pechino ed ha ammesso di aver ricevuto ripetute sollecitazioni dal governo cinese affinché il capo dei tibetani non effettuasse il suo viaggio.
(Phayul/TibetNet)

Non credo ci sia bisogno di commentare questa notizia. Del resto, al momento, non riuscirei neppure a trovare espressioni che fossero sufficientemente severe (per deplorarare il comportamento del governo belga) e, nel contempo, accettabilmente civili e bene educate. Quindi preferisco astenermi.

Chiantishire

Resoconto sintetico in due puntate—di cui questa è la prima—di un lungo week-end nella patria del Chianti e del Brunello. Non tanto per disintossicarmi dagli argomenti di cui si occupa questo blog—anche se ogni tanto ce n’è bisogno—quanto per puro e semplice altruismo. Nel senso che anche soltanto la condivisione virtuale di una bella esperienza è di per sé un gesto nobile. Ma certamente, qualora l’effetto del post dovesse essere quello di indurre chi ancora non c’è stato ad andarci al più presto, avrei fatto davvero un grande favore ai lettori di questo blog. Le foto che vedete sono mie, e ovviamente non sono un granché (il fotografo è scarsetto, ahimè).

Greve in Chianti, Piazza e monumento a Verrazzano


La prima tappa è stata Greve in Chianti, considerata la capitale del Chiantishire. Il paese, reso un po’ snob dalla fama che gli inglesi le hanno procurato, ha un aspetto gradevolissimo, particolarmente la piazza, dove campeggia il monumento al grande esploratore Giovanni da Verrazzano, nato verso la fine del XV secolo in un castello nei dintorni. Ma è il paesaggio—nel quale includo le pietre di cui son fatte tutte le case da quelle parti—la cosa più notevole: dolci colline, vigneti, ulivi e boschi. Un cocktail eccezionale, che soprattutto in primavera si arricchisce dei profumi emanati da una natura che è stata certamente molto generosa. Il tutto è compendiato ovviamente nel Chianti.

MontefioralleDevo anche dire che ho avuto la fortuna di essere in loco l’ultimo week-end di aprile, cioè le due magiche giornate in cui a Montefioralle, cioè un paio di chilometri più su, si degustano i “Vini del Castello.” Una rassegna favolosa, cui presentarsi possibilmente non a stomaco vuoto … Tra i vicoli e le scalinate dell’antico borgo, in mezzo a quelle pietre che parlano, si possono assaggiare i vini di tredici aziende locali, nella molteplicità in cui si esprime l’unità sostanziale del grandissimo vino che qui è l’onnipresente e incontrastato signore.

Castellina in Chianti


La seconda tappa è stata Castellina in Chianti, già in provincia di Siena. Anch’essa di bell’aspetto, ma meno glamour di Greve, pur con le sue belle case di pietra, per lo più restaurate in maniera impeccabile, e con il bel paesaggio circostante. E naturalmente ottimo vino (ma qui, purtroppo, niente assaggi gratuiti, solo a pagamento).

Infine Monteriggioni (vedi foto panoramica nel sito del comune), un magnifico borgo medievale circondato da mura (citate da Dante nel XXXI canto dell’Inferno), con quattordici torri fortificate. Ottimamente restaurato, il borgo, oltre che per le mura, si segnala per la Pieve di Santa Maria Assunta (sec. XIII). Anche qui si può apprezzare l’ottima produzione locale di Chianti, purché non vi si arrivi di prima mattina e non ci sia da rimettersi in strada subito dopo (mi raccomando ...).

In un prossimo post il paradiso dei cultori del Brunello, ma anche delle abbazie medievali.

May 7, 2007

E' nata la Right Europe

E’ un redde rationem, la vittoria di Sarko, che è solo ai suoi primi passi. Lo è perché il nuovo presidente è un uomo colto che ha saputo spiegare bene ai francesi che cosa sarebbe successo se lui avesse vinto. E per farlo si è affidato non solo a programmi, dati e cifre, ma anche a simboli. Uno di questi—il più importante, credo—è il Sessantotto: naturalmente «da liquidare», come lui stesso non si è peritato di esprimersi.

Come un rude guerriero della politica, ha scelto quel mito, che è stato, e in parte è ancora, uno spartiacque tra un «prima» e un «dopo» che, se si incontrassero per strada un po’ soprappensiero, farebbero fatica a riconoscersi carne della stessa carne e sangue dello stesso sangue. Insomma, mica una faccenda da poco prendere di petto il Sessantotto. Uno glissa, per lo più, perché dentro ci siamo tutti, anche quelli di destra-destra, quanto a modi di pensare e di vivere, di vestirsi e di parlare, di divertirsi e di pregare (o di bestemmiare). E dunque, la sfida, a voler essere—per dirla à la Giuliano Ferrara—radicali e conservatori, era, è, proprio lì. Sarko, uomo di studio oltre che d’azione, l’ha capito, ci ha scommesso, e ha vinto. Per questo la Francia, e probabilmente l’Europa intera, non sarà più la stessa, dopo questo 6 di aprile. Il redde rationem è appena cominciato, la Right Europe, versione giustamente e doverosamente riveduta e corretta della Right Nation americana, ha emesso il suo primo vagito. Dopo molti segni premonitori, per altro, tra i quali quelli che hanno solcato i cieli d’Italia in questi anni.

E’ in un'analisi di Barbara Spinelli—che è tutta da leggere, magari per condividerla solo in parte, come spesso capita a me, per esempio, con le cose che scrive la succitata—che ho trovato la definizione più acuta e intrigante del personaggio Sarkozy. Homo novus, scrive la Spinelli, ma questo dice ancora troppo poco. In realtà c’è una caratteristica che lo rende unico, e vincente in una maniera a sua volta molto, molto singolare:

È come se la meta per lui fosse una necessità, se non un'avversità. Si può predisporre un destino politico con lo stesso spirito con cui si vive monaci nel deserto o si traversa un dolore. Non a caso c'è una parola, singolare per la cultura politica francese, che Sarkozy usa spesso quando racconta la propria pluriennale conquista: ascesi, che letteralmente vuol dire esercizio spirituale e fisico fatto di isolamento, preghiera, meditazione, perfezionamento e volontà ferrei. La parola araba è gihàd.

Ecco, appunto, qualcosa come un’ascesi è appena cominciata. Poi, chiamiamola pure come ci pare.

May 4, 2007

At the core of the Microsoft-Google saga

A few months ago Microsoft made an offer to acquire Yahoo!, but the search engine operator spurned the advances of the Redmond, Wash.-based software giant. Yet, that was not the last word. As a matter of fact, according to the New York Post, stung by the loss of Internet advertising firm DoubleClick to Google last month (a $3.1 billion purchase), Microsoft is resuming its pursuit and asking Yahoo to enter formal negotiations for an acquisition that could be worth $50 billion.

Maybe what this story suggests is that, as in the Highlander saga, only one will survive. But how, if ever, will this benefit all of us end users?

Meglio Sarko

[UPDATED] Quel che succede oltralpe è molto, molto interessante, e qui si cerca di seguire gli eventi con la massima attenzione. Magari il tutto non sarà di facilissimo approccio per chi non è francese, ma questo è scontato, e in ogni caso credo che il discorso valga per tutti quelli che mettono il naso nelle vicende politiche altrui. Voglio dire che quando mi è capitato di seguire le reazioni e i commenti che venivano prodotti nell’«anglosfera» sulle elezioni italiane ne ho riportato un’impressione talmente miserevole che mi imbarazza anche il solo pensiero di poter cadere nella stessa trappola infernale, parlando delle elezioni di un Paese che non sia il mio. Le imprecisioni, i luoghi comuni, il semplicismo, le banalità e le autentiche stupidaggini che ho letto sull’Italia mi hanno per così dire vaccinato. E allora? E allora, sinceramente, la tentazione di astenermi dall’esprimere a voce alta opinioni al riguardo—non certo dall’avercele—è forte. Ma correrò il rischio, anche perché non mi risulta di avere lettori francesi …

Dunque, con una buona dose di faccia tosta, mi avventuro fino a dire che Madame Royal mi annoia da morire—soprattutto quando diventa aggressiva e fa scena ostentando arrabbiature poco credibili, come ieri l'altro sera. Dicono che rappresenta il nuovo, a sinistra, e sarà pure vero, ma se il futuro della sinistra francese consiste nelle idee e nell’approccio alle questioni di Ségolène Royal mi pare che non ci sia di che congratularsi, e semmai mi sembrerebbe più appropriato ritenere che la novità più significativa sia la “svolta estetica” che la signora ha impresso alla politica: da questo punto di vista, in effetti, non credo ci siano dubbi.

Per uscire dal generico, direi che condivido molto questa sferzata di André Glucksmann (sul Corriere di ieri):


Si dice che Sarkozy divide, mentre Royal unisce. Il bruto e la madonna? Eccoci davanti a due metodi. Qual è più democratico? Quello di Sarkozy, che non indie­treggia davanti alle divisioni e osa presentare le alterna­tive agli elettori chiamati a prendere la loro decisione con cognizione di causa? Oppure il metodo Royal, che promette l'unione a ogni costo e promuove l'immobili­smo?

Naturalmente resta «l'obiezione suprema» contro Sarko, il «razzista», colui che propone il «ministero infernale». Glucksmann risponde così:


Se­condo me, i veri «lepenizzati» sono le anime belle di sinistra e del centro che, senza esitare, presuppongono che fra identità nazionale e immigrazione non possa es­serci che una relazione d'esclusione. Perché voler crede­re per forza che un ministero dell'Immigrazione e del­l'Identità nazionale sarà un ministero dell'Identità con­tro l'immigrazione? Con quale diritto è formulata una interpretazione così malevola? Per quanto Sarkozy ripe­ta che l'identità francese non è etnica, che la nazione si è arricchita di successive ondate d'immigrazione (di cui fa parte la sua famiglia), che di fronte al regime di Vichy, la Resistenza al nazismo deve tanto ai Repubblica­ni spagnoli, agli armeni, agli ebrei... Non c'è nulla da fare. Un immondo mascalzone ha appena «oltrepassa­to la linea gialla».

Infine, siccome delle somiglianze tra Italia e Francia, malgrado tutto, ci sono, e dal momento che un «grande lupo cattivo» non ce l’hanno solo loro (e a furia di agitare quello spauracchio si finisce per diventare intellettualmente pigri e talvolta pure un po’ cialtroni), si potrebbe pensare che la conclusione del ragionamento faccia tesoro di qualche nostra disavventura:


Brandire «l'apriti sesamo» del Tutto tranne Sarkozy per aprire a Ségolène le porte dell'Eliseo, qualunque cosa dica oggi e faccia o non faccia domani, sa d'imbroglio.

Ancora una volta, insomma, non posso che dichiararmi d’accordo. Meglio Sarko. Apprezzamento e simpatia, oltretutto, che mi accomunano a uno per il quale questo blog si è speso più volte in passato ... Avrebbe detto, costui, in un'intervista a Paris Match, che «bisogna mettere da parte le vecchie ideologie di sinistra e di destra». Ecco, appunto, questo è ciò che stavo cercando di dire in maniera forse troppo prolissa.

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UPDATE (ore 15:00 del 4 maggio 2007)
Da non perdere—anche perché sulla stessa lunghezza d'onda del post qua sopra ...—l'editoriale del Foglio di oggi (questo il link temporaneo). In particolare questo passaggio:


Il problema è che Mme Royal ha anche alla fine rivelato se stessa. Se stessa no, perché siamo documentalmente convinti che di lei in realtà c’è poco. Ma il se stessa di sinistra, nel senso prototipico della gauche eterna, quello lo si è visto. Uno spettacolo pazzesco di demagogia e di arroganza del cuore, una roba che anche in un giornale come questo, che da sempre è di destra e di sinistra, radicale e conservatore, ha avuto il suo impatto: ricordati che non è di quella malattia della gauche che devi morire, perché non è dignitosa. Ha tirato fuori una storia di stupro come arma contundente ideologica d’occasione contro un avversario maschio, e ha accompagnato il colpo basso e freddo con una cosa così risibile che ancora si è sorpresi che sia restata in gara dopo tanta leggerezza: lo stato deve garantire a una poliziotta (dicesi: una poliziotta) la sua sicurezza quando rientra a casa la sera. I poliziotti che proteggono i poliziotti, come nella già leggendaria teoria di Massimo D’Alema, che i soldati americani non devono fare la guerra perché hanno il compito di proteggere gli italiani in divisa di Herat. Ha inventato una tirata di bassissimo conio, del tutto ingiustificata, sui disabili a scuola, e sembrava una piccola reincarnazione sanguinaria di Saint-Just contro la resistenza non vittimistica di Sarkozy, che non sembrava ma era (ché in tv appunto si è più che sembrare) una specie di redivivo Benjamin Constant.