March 31, 2007

Cattolici in politica

Sull’argomento sono tornato varie volte, ultimamente. In particolare con questi due post e relativi commenti, grazie a obiezioni “pregnanti” quali quelle di un lettore di diverso parere che si firma Return e che mi costringe regolarmente a spiegarmi meglio, oltre che, qualche volta, a rendere più chiare persino a me stesso le mie idee. Dunque, non ci sarebbe proprio la necessità di scrivere un altro post, ma è anche vero che su certe questioni c’è sempre qualche risvolto inesplorato. E poi c’è un editoriale del Foglio (di ieri) che condivido e dunque non posso fare a meno di riprodurlo più sotto.

In questo caso, il risvolto inesplorato (si fa per dire) è un certo costume nazionale, cioè quello di cercare (e trovare) sempre dei cavilli o dei trucchetti per fare quello che ci pare ma presentando il tutto non per ciò che è, vale a dire una furbata, bensì come qualcosa che ha una sua “giustificazione” (razionale e, che so, storica, politica, morale, etica, ecc., ecc.). E’ incredibile quello che si sente in giro a volte.

Lasciamo stare il discorso di chi non paga le tasse e si fa paladino di una giustizia fiscale tutta sua contro gli abusi statalistici, anche perché magari il nostro sistema fa girare le scatole veramente e si andrebbe a parare in un campo minato. Prendiamo piuttosto la politica: io non smetto mai di domandarmi—davvero, è quasi una fissazione—come sia possibile essere stati iscritti al Partito comunista per decenni e dichiarare candidamente di non essere mai stati comunisti. Vabbè, dicono i Veltroni o le Livie Turco, c’era la “questione morale,” per cui una persona per bene doveva stare da quella parte perché tutti gli altri erano …, insomma, ci siamo capiti. E poi c’era Berlinguer, il suo indubbio fascino intellettuale e morale, il suo stile, ecc., ecc., per carità. Però ..., però, a mio sommesso parere, nessun Berlinguer e nessuna questione morale dovrebbe mai indurre alcuno ad abbracciare un credo politico—e quale credo, mica una blanda socialdemocrazia!—che non si condivide in profondità. Per cui, per me, delle due l’una: o uno fa il furbo adesso, oppure lo faceva allora. Tertium non datur. Ok, confesso che non sono molto elastico quando si parla di una Weltanschauung, ossia, posso esserlo nei dettagli dell’applicazione nella quotidianità (ma neanche tanto, ad essere proprio sincero), non sulle questioni di sostanza.

Ebbene, qualcosa di analogo accade in materia di religione. A me, per dire, ha sempre dato un po’ fastidio definirmi un cattolico quando si parla di politica, e questo per una ragione molto semplice: perché è molto impegnativo etichettarsi come cattolici in politica, figuriamoci poi chiedere voti in quanto tali! Per questo preferisco tenere per me la mia appartenenza religiosa, pur senza ritenere che quest'ultima possa essere considerata un fatto esclusivamente "privato." Tuttavia, se si arriva al dunque, non posso fare a meno di dire che sono cattolico e che cerco pure di essere coerente, anche se l’esplicitare il tutto è come se mi togliesse ossigeno, perché in fondo credo sempre nel primato della coscienza—del resto, emersoniano quale sono, come potrebbe essere altrimenti?—e nella responsabilità personale, davanti a Dio, delle azioni di ciascuno, il che, tra le altre cose, non è prerogativa soltanto dei protestanti. Ma certamente, se mi qualificassi come un cattolico impegnato in politica, e per giunta in una formazione che si presenta come ispirata ai valori cattolici, non mi permetterei neppure per un secondo di mettere in discussione il Magistero della Chiesa. Me ne guardo anche senza essere mai stato né un dc né qualcosa di simile, figuriamoci!

Una differenza, però, tra me e loro, c’è, anche se si gioca sul filo del rasoio. E questa differenza è il motivo per cui ho sempre ritenuto che un partito politico che si rifà espressamente a un credo religioso non faccia per me, anche se rispetto chi si regola in un altro modo. Però, appunto, chi sceglie di militare in un partito di quel tipo non può sottrarsi agli obblighi che ne conseguono. E i non cattolici non hanno motivo di ritenere che questa «obbedienza» sia qualcosa di disdicevole.

E a questo punto cedo il passo all’editoriale del Foglio (30-03-2007):

Si sta arrivando, sulla questione della regolamentazione delle coppie di fatto, allo “spartiacque” che era stato preannunciato da un autorevole editoriale del quotidiano dei vescovi. Su questa materia la chiesa chiede obbedienza ai suoi fedeli, compresi quelli che rivestono cariche politiche. E’ la chiesa cattolica nel suo insieme a farlo, senza distinzioni possibili tra l’episcopato italiano e la cattedra papale, visto il linguaggio se possibile più esplicito impiegato da Benedetto XVI, confortata dal sostegno delle organizzazioni del laicato, che manifesteranno in piazza San Giovanni a sostegno dell’unicità irripetibile della famiglia. Le reazioni dei sostenitori dei Dico a questa richiesta di obbedienza vanno dallo scandalo alla delusione allo sconcerto. L’argomento più ripetuto è che in questo modo i vescovi italiani ledono la libertà di coscienza dei credenti e l’autonomia della politica. Si tratta di un uso paralogistico, cioè inappropriato al caso, di nobili concetti. La coscienza è libera, libera di aderire o no a una religione, ma se lo fa assume liberamente un impegno. Essere cattolici non è obbligatorio, ma il cattolicesimo non è un supermarket nel quale si prende quel che serve e si lascia il resto. L’autonomia della politica, poi, si esercita nelle istituzioni nelle quali gli eletti rispondono alla loro coscienza e ai loro elettori, peraltro senza un cogente vincolo di mandato. Se un esponente politico, però, vanta pubblicamente la sua adesione alla fede cattolica, traendone anche i vantaggi elettorali che ne conseguono, non può negare a chi ha, per così dire, il copyright del cattolicesimo, cioè ai vescovi, di richiamarlo alla coerenza con i valori cui liberamente ma pubblicamente si è impegnato a ispirarsi. L’autonomia della politica implica che i cattolici accettino le decisioni delle istituzioni anche quando non le condividono, rispettando le leggi dello stato. Una libertà di coscienza che implica la disobbedienza ai vescovi e al Papa non è una novità, si chiama protestantesimo, e com’è noto non fa parte del cattolicesimo.

March 30, 2007

Forza Petruccioli

Con la sua intenzione di por fine al «florilegio di dichiarazioni» di questo e quel deputato sui tg della Rai, Claudio Petruccioli avrebbe probabilmente guadagnato la stima e la gratitudine anticipata di una buona parte dei telespettatori. Purtroppo per lui, però, avendo in contemporanea manifestato il proposito di farla finita anche con i reality shows, è senza ombra di dubbio riuscito a neutralizzare o addirittura a ribaltare quel benefico effetto.

E’ un peccato, perché in entrambi i casi, almeno a mio giudizio, ha ragioni da vendere. Ma così va il mondo, non si può piacere a tutti, come dimostra, per altro, la decisione presa qualche giorno fa dall’Autorità per la Garanzie nelle Comunicazioni, cioè il provvedimento restrittivo sulla pornografia in tv: ha accontentato e scontentato in eguale misura. E si badi che gli scontenti non erano, come sarebbe stato logico aspettarsi, soltanto i fruitori e i cultori di quel tipo di entertainment, no, neanche parlarne, tanto che in giro si sono letti e sentiti anche i lamenti di persone “benpensanti” le quali, tuttavia, non hanno accettato quello che a loro è sembrato uno sfregio alla libertà di espressione o comunque il sinistro presagio di un clima moralistico, censorio, e, naturalmente, illiberale che starebbe per instaurarsi. Poco importa se il nocciolo della questione non fosse quello di vietare alcunché ad alcuno, ma semplicemente di risparmiare ai bambini la visione, sia pur fortuita e occasionale, di scene che sono, per dir così, al di là della loro capacità di rielaborazione critica e contestualizzazione semantica, con danni probabilmente irreparabili sul piano affettivo-comportamentale, psicologico e culturale.

Ma non sta scritto da nessuna parte che la salvaguardia del pluralismo debba riguardare anche l’ignavia di chi confonde l’ideologia (liberale e libertaria) con la licenza di recar danno ai telespettatori meno attrezzati a difendersi da spettacoli intrinsecamente e ostentatamente volgari, che denunciano l’assoluta incapacità di produrre qualcosa che non offenda il buon gusto e un elementare rispetto della dignità umana.

Così come—per tornare al punto da cui siamo partiti—non sta scritto da nessuna parte che un servizio di informazione, per assolvere la sua funzione fino in fondo, debba render conto anche dei battibecchi da cortile tra politici in cerca di pubblicità a costo zero (per loro, ma non per il cittadino che paga il canone). Né sta scritto nelle stelle che la tv pubblica, per rendere un servizio alla collettività, debba mettersi in competizione con la tv commerciale nella produzione di reality shows.

La speranza è che iniziative e proposte come quelle di Petruccioli non divengano occasione di disputa politico-ideologica. Qui non c’entra né la libertà di informazione e di espressione, né il moralismo, né l’oscurantismo sessuofobico, né altro. C’entra solo la necessità di non offendere l’intelligenza, il buon gusto, il buon senso e, last but not least, di impiegare bene il pubblico denaro. Per questo penso che “Forza Petruccioli” dovrebbe diventare il motto di tutti coloro che pagano il canone Rai.

March 28, 2007

Ha perso soprattutto Prodi

Sarà anche come scrive Fausto Carioti, cioè che con il voto del Senato sulla missione italiana in Afghanistan quelli che hanno perso sono i nostri soldati. Ma io qualche dubbio ce l’ho. Non che sia convinto che per i militari italiani il voto sul rifinanziamento possa essere considerato un premio al loro impegno, questo no, piuttosto a me pare che, se proprio dobbiamo individuare lo sconfitto per eccellenza, questo non possa che essere il governo Prodi. Cioè un governo senza maggioranza, su una questione cruciale come questa, in uno dei due rami del Parlamento.

I politicismi che vanno per la maggiore possono fornire tutti gli argomenti che vogliamo a chi vuole arrampicarsi sugli specchi. Anche il Senatore Lino Jannuzzi—che pure non è un virtuoso di questa spericolata disciplina politico-sportiva—può fare tutte le dichiarazioni del mondo, e magari segnare anche qualche punto a suo favore nel denunciare gli “errori politici” della sua parte. Ma il dato che a me sembra emergere con prepotente evidenza è che un governo che sopravvive grazie ai senatori a vita e ai calcoli di qualche oppositore, semplicemente non può non prendere atto di essere arrivato al capolinea.

In questo senso non credo si possa parlare neppure di sconfitta del centrodestra. L’opposizione, semmai, ha mostrato che il re è nudo. Ma lo strappo di Casini? Beh, innanzitutto il leader dell’Udc non ha rafforzato il governo, al contrario: in qualsiasi paese democratico dell’Occidente la flebo praticata dall’Udc al governo—esibizione pubblica di una carità alquanto pelosa—sarebbe considerata un’umiliazione inaccettabile. Casini è riuscito semplicemente a smarcarsi intelligentemente da Berlusconi. Ha fatto il suo gioco, non certo quello di Prodi. A meno che domani stesso egli non si dichiari pronto ad entrare nella maggioranza, cosa di cui mi permetto di dubitare fortemente (e su cui nessuno con un minimo di sale in zucca oserebbe scommettere un solo centesimo). Inoltre, a Casini non si può imputare alcun tradimento, al contrario: ha mantenuto il punto rispetto ad una missione che è nata anche con il suo concorso. Posizione difendibilissima di fronte al proprio elettorato.

Per quanto riguarda gli altri partiti dell’ex CdL, d’accordo, non si può parlare neppure di vittoria: la “spallata” non c’è stata, il governo è salvo (si fa per dire), l’Udc è andata per la sua strada, Berlusconi è infuriato, … insomma si torna a casa con le pive nel sacco. Ma, appunto, adesso è chiarissimo che gli avversari hanno le gomme a terra e non possono andare da nessuna parte. Ma la CdL—si è obiettato da tutte le parti, Casini compreso—ha tradito se stessa! Mica vero: sono mutate le circostanze, bisognava impegnarsi (come recitava l’ordine del giorno proposto dal capogruppo forzista Renato Schifani, respinto dall’aula)


«a dotare, in tempi brevi, i nostri militari di armi di difesa attiva, come ad esempio veicoli di massima blindatura, elicotteri, postazioni predisposte per il tiro, armamenti e apparecchiature per attivare la reazione immediata in caso di attacco, procedure di intervento e contrasto in caso di violazione delle zone perimetrali, al fine di garantire adeguati strumenti che consentano di fronteggiare eventuali scontri, eliminando così quanto più possibile il rischio della vita dei soldati».

Posizione sensata, e difendibilissima anche questa. Dunque, ha ragione Jannuzzi, ma solo in apparenza. Nella sostanza Berlusconi e i suoi non ne escono affatto male.

La prova del nove di quanto sopra sostenuto è che l’Udc ha chiesto oggi stesso di poter incontrare il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Con questa motivazione (dichiarazione di Lorenzo Cesa, segretario dell'Udc, al termine dell' ufficio politico del suo partito):


«L'Udc ritiene doveroso conferire con il presidente della Repubblica in ordine alla situazione che si è determinata ieri al Senato durante il voto per il rifinanziamento delle missioni militari di pace».

E con lo scopo dichiarato di dire al Presidente (dichiarazione del Senatore Mario Baccini a margine dell'ufficio politico del partito)

«che questo governo è politicamente finito. […]Al capo dello stato non chiederemo elezioni anticipate, la nostra proposta è quella di un governo di salute pubblica che vari una nuova legge elettorale per evitare che in Italia ci siano ancora 24 partiti, con uno sbarramento del 5%, di ispirazione proporzionale ... e che sia in un quadro bipolare».


Poco dopo, la Reuters ha informato che è arrivato il sì dal Quirinale: una delegazione dell'Udc è stata convocata dal presidente Napolitano alle 18 per un incontro con il presidente.

Fukuyama: per un nuovo multiculturalismo

Prima che sia troppo tardi, una segnalazione che avrei voluto fare ieri: l’intervento di Francis Fukuyama su Avvenire (di ieri, appunto). Il succo del ragionamento è questo: qui in Europa tendiamo a concepire il multiculturalismo come un contenitore di culture separate, ciò che Amartya Sen definisce «pluralità di monoculturalismi». Ebbene, questo modello è sostanzialmente fallito e bisogna sostituirlo con qualcosa di nuovo. Fukuyama propone un percorso, ma soprattutto ci ricorda qualcosa che sembriamo aver dimenticato:


La civiltà dell'Illuminismo europeo, di cui la democrazia liberale contemporanea è erede, non può essere culturalmente neutrale, poiché le società liberali coltivano determinati valori riguardo alla pari dignità e all'eguale valore degli individui. Le culture che non accettano tali premesse non meritano pari tutela in una democrazia liberale. I membri delle comunità di immigrati e la loro prole meritano un pari trattamento come individui, non in quanto membri di comunità culturali.

March 27, 2007

Chi ha distrutto la scuola

Avrò sbagliato, e se è così ne faccio pubblica ammenda, ma ho sempre pensato che parlare o scrivere della e sulla scuola sia una perdita di tempo. Tuttavia, se ho sbagliato, non è stato per difetto ma per eccesso di importanza attribuita al problema, cioè non perché io ritenga che si tratti di un argomento secondario: al contrario, penso che la scuola sia troppo importante e centrale per mettersi a discuterne nel clima di “tutti a casa” che si respira, nell’incapacità generale di cogliere i nodi essenziali del problema, anche in considerazione del fatto che ben pochi sembrano avere qualche idea decente su ciò che possa o debba essere ritenuto veramente importante e centrale. Senza fondamenta non si costruisce nulla, e se non si capisce che, soprattutto nel caso specifico, quello dei fondamenti è appunto il problema, tanto vale non affrontare neppure la questione.

Oggi, però, mi sembra che le “condizioni ambientali” stiano cambiando, che da più parti si stia cominciando ad avvertire quanto meno l’urgenza di un redde rationem, il che, nei miei auspici, nel mio wishful thinking, significa una cosa sola: che si faccia finalmente giustizia di una montagna di sciocchezze che sono state dette, scritte e, soprattutto, pensate sul sistema formativo. Ma qui siamo probabilmente già nel regno dell’utopia, e dunque rimetto i piedi per terra e mi accontento di qualche piccolo passo che, grazie soprattutto—è proprio il caso di dirlo—agli episodi di cui si sono occupate le cronache n questi ultimi tempi, si sta tentando di fare, di qualche spiraglio di luce che si comincia a intravedere dietro la spessa coltre di nebbia che avvolge tutta la materia.

Oggi, su Avvenire, un’intervista a Paola Mastrocola mi solleva dalla fatica di tirar fuori dal mio sacco qualche palata di farina, dal momento che sottoscrivo ampiamente l’impostazione generale della scrittrice-insegnante e quasi tutte le argomentazioni di cui il suo ragionamento si sostanzia. Il quasi si riferisce al rifiuto della Mastrocola di attribuire una reale rilevanza proprio a quegli episodi di cronaca che a me sembrano in qualche modo “provvidenziali.” Ma queste sono quisquilie rispetto a tutto il resto.

In breve, la Mastrocola difende la scuola e addebita la responsabilità dello stato di profondo disagio in cui versa questa importantissima istituzione alla crisi della famiglia, della politica e della televisione, o meglio dell’arte in generale, che “deve migliorare le persone, non peggiorarle e per questo ha una grande responsabilità.” Il risultato è che la scuola non può più fare affidamento su principi condivisi—sgretolati dalle crisi su indicate—e si trova ad avere paradossalmente tutti contro, a cominciare dai genitori.

Sono concetti piuttosto elementari, ma non bisogna farsi ingannare dall’apparente semplicità e genericità del ragionamento, perché i fattori di crisi indicati sono al contrario “precisi” e circoscritti. Attengono, appunto, a quei “fondamenti” cui accennavo prima. Prescindere da queste zone d’ombra della realtà in cui viviamo, a mio avviso, allontana qualsiasi possibilità di affrontare il problema per il verso giusto, senza girare intorno alle questioni e senza ingannare l’opinione pubblica. Riporto qui di seguito alcuni stralci dell’intervista.

La scuola è l’istituzione meno colpevole

«Credo che sia profondamente ingiusto dare tutta la colpa alla scuola rispetto a un degrado raccontato dai giornali solo nelle punte più sensazionali. Diciamocelo, una volta per tutte: se c'è una istituzione che è meno colpevole di altre, è proprio la scuola, perché è l'unica che cerca ancora di contrapporsi al degrado di valori che viene dal mondo esterno. La scuola cerca ancora di intervenire sulle questioni affettive, in qualche modo istituisce un'idea di disciplina e di onesta autorità e autorevolezza a cui in altri settori costantemente si abdica».


I veri colpevoli

«Mi irrita sentire frasi generiche come "È colpa della società". Non è possibile rimanere sempre in questo ambito dell'astratto. La società si declina in istituzioni e ce ne sono alcune che sono veramente fallite, creando un mondo di adulti che si riflette negativamente sul pensiero e sulla crescita dei ragazzi. […] Io direi che sono in profonda crisi la famiglia, la politica e la televisione. Vedo genitori che sembrano ignorare che l'impegno educativo è oneroso e richiede tempo, fatica, sforzi. […] La politica non è da meno: è diventata cialtrona, irresponsabile, volgare, in balia di scandali, tra intercettazioni e leggi come quella dell'indulto che fanno perdere credibilità. Non abbiamo messaggi esemplari, oggi, dal mondo dei politici, dove trionfano privilegi e arroganza. Non c'è più il senso della serietà e della responsabilità. Infine indicherei il mondo dell'arte e dello spettacolo: la televisione, il cinema, i libri. Quando mi è capitato di vedere spezzoni dal Grande fratello non riuscivo a credere ai miei occhi. Da che parte si va, se non verso il nulla, tra le pupe e i secchioni e gli amici della De Filippi? […] La televisione è un esempio, ma il problema va allargato al mondo dell'arte che non veicola più messaggi alternativi, positivi ed esemplari. L'arte deve migliorare le persone, non peggiorarle e per questo ha una grande responsabilità».


Non c’è nessun progetto di ricostruzione della montagna

«[N]on c'è più nessuno che chiede di avere una meta, un obiettivo di crescita personale. I ragazzi sono lasciati liberi a se stessi, affinché non disturbino la quiete edonistica familiare. Il problema di noi insegnanti è che non sappiamo più che cosa insegnare e se pretendere lo studio o no. Le innovazioni proposte dai vari ministri che si sono succeduti in questi anni rischiano di lasciare la scuola in un cumulo di macerie. Non c'è nessun progetto di ricostruzione della montagna. Ognuno deve trovare la sua strada, inventarsi la propria didattica. Oggi si vuole una scuola personalizzata sull'allievo. L'istituzione invece per poter crescere e poter continuare ad avere credibilità deve reggersi su principi condivisi. Saltato il sistema della condivisione, con la crisi delle istituzioni, la scuola brancola nel buio e deve affidarsi alla buona volontà e del buon senso dei professori. Oggi la scuola ha tutti contro, i genitori per primi, che non vogliono che il figlio impari a studiare ma sia solamente promosso; alla fine vincono loro, perché nella scuola di massa l'utenza ha sempre ragione. Non è ammissibile. La scuola deve sapere dove andare».

March 26, 2007

Angela caduta in volo

“Passata la festa, gabbato lo santo,” si potrebbe dire dell’Evento di Berlino. E infatti qualcosa del genere lo hanno scritto su Repubblica, a dimostrazione del fatto che un po’ di sense of humour, ancorché forse involontario, può essere rintracciato persino nei luoghi più impensati della pubblica opinione politically correct:


Finita la festa tutti ripartono e di Berlino ri­mane solo un bel ricordo. Per chi vuole rilanciare l'Europa, adesso, comincia il duro lavoro […]

In effetti, il lavoro non sarà né facile né breve, soprattutto per chi osa ancora sperare nel superamento di quella “singolare forma di «apostasia» da se stessa” che, secondo Benedetto XVI, consiste nell’occultamento volontario delle radici cristiane d’Europa. Una battaglia persa: inutile farsi illusioni. Pare che lo abbia capito pure quella brava donna di Angela Merkel, agnello in mezzo ai lupi del laicismo trionfante. Esulta infatti, non a caso, il Corriere: la Merkel, “cristiana sia pur protestante” (quel sia pur varrà probabilmente all’estensore dell’articolo, Paolo Valentino, un plauso corale da parte dei protestanti tutti), avrebbe dato nientemeno che “una som­messa lezione di laicismo a Benedetto XVI.” Attenzione, laicismo, mica laicità: beccatevi questo, cristiani sia pur cattolici! Ma che avrà fatto-detto mai l’incauta donna? Ecco il resoconto del bravo cronista:


La Can­celliere «capisce» la posizione di Santa Romana Chiesa. E non lascia dubbi su dove affondino per lei le radici dell'Europa. Al centro di tutto è l'individuo, la sua intoccabile dignità, ha detto nel suo discorso del mattino. E questo, ha aggiunto a titolo persona­le, «deriva dall'eredità giudaico-cristiana dell'Euro­pa». Ma in conferenza stam­pa, rispondendo alla doman­da del Corriere, ricorda «che ci sono anche altre tradizioni secolari, secondo le quali nei documenti degli Stati non ci possono essere riferimenti al­la fede». Occorre essere consa­pevoli «delle diverse visioni politiche». E se è giusto che gli europei siano «coscienti delle loro radici giudaico-cristiane», altra cosa è se queste debbano essere evocate nei testi ufficiali. Si discuterà an­cora se il riferimento dovrà es­sere inserito o meno nel Trat­tato costituzionale. Ma anche se lei se lo augurerebbe, Ange­la Merkel allarga le braccia: «Sono realista e non molto ot­timista». Con buona pace del­l'apostasia.

Laicismo puro, senza dubbio, anzi, apostasia bella e buona. Sia reso merito, dunque, al valoroso cronista che, “in conferenza stampa,” ha estorto all’apostata la frase che inequivocabilmente la condanna alle fiamme eterne. Di scomunicarla, però, non se ne parla neppure, sia ben chiaro, e non tanto perché il Papa tedesco potrebbe magari avere un occhio di riguardo per la connazionale, no, semplicemente, lei, scomunicata lo è già, in quanto luterana, se nel frattempo non è caduta in prescrizione quella benedetta bolla di Leone X datata 3 gennaio 1521 (il che è piuttosto improbabile, credo). Pazienza, comunque, sopravvivremo.

Ma di gabbato, in ogni caso, non c’è soltanto lo santo, ci siamo pure noi, volgari peccatori. E qui il discorso si fa cupo, perché, vabbè non farsi illusioni sulle radici cristiane, gettate malamente alle ortiche, ma che almeno qualche parvenza di serietà—parlando sempre di principi sacri e inviolabili—sia fatta salva. E invece picche. Che cosa si afferma, infatti, nella solenne «Dichiarazione di Berlino» che, nelle intenzioni dei ventisette Capi di Stato e di governo dei Paesi europei che l’hanno sottoscritta, dovrebbe rilanciare la missione dell’Unione? Nientemeno che questo:


«L’uomo è al cuore della nostra azione. La sua dignità è inviolabile. I suoi diritti inalienabili. Il modo in cui viviamo e lavoriamo insieme nel quadro dell’Unione europea è unico nel suo genere […] noi aspiriamo alla pace e alla libertà, alla democrazia e allo stato di diritto, alla prosperità e alla sicurezza, alla giustizia e alla solidarietà».

Andrea Romano, in uno splendido editoriale apparso su La Stampa di oggi, ha commentato come si conveniva questi voli poetici:


Alzi la mano chi non potrebbe essere d’accordo con queste sante parole. Dalle quali, tuttavia, si fatica a distinguere il buon senso dalla sostanza necessaria a rimettere in moto un’impresa comune che appare da qualche tempo più che zoppicante. È vero che qualche riga più avanti ci si spinge a dichiarare che «il modello europeo concilia la riuscita economica e la solidarietà sociale» e che «il mercato unico e l’euro ci rendono forti». E addirittura si annuncia che «noi ci mobiliteremo affinché i conflitti nel mondo si regolino in maniera pacifica e affinché gli uomini non siano vittime della guerra, del terrorismo o della violenza». Ma l’enunciazione di questa ed altre impettite banalità, che non sfigurerebbero nel manifesto di una qualsiasi associazione di beneficenza, non può servire a molto più che a sentirci ancora una volta appagati dalla fortuna di essere venuti al mondo in questa parte benedetta del globo.

In ogni caso, viene da dire, questa parte benedetta del globo non sembra al momento disporre di una classe dirigente meritevole di tanta benedizione. Il che potrà anche non sorprendere più di tanto il Vaticano—et pour cause!—ma noi, cittadini di questa Europa, come dovremmo sentirci?


March 23, 2007

A sinistra del Vuoto

Lo confesso, da quando ho smesso di considerarmi “di sinistra,” riesco a seguire le cose che avvengono da quelle parti con una nobiltà d’animo e una capacità d’ascolto—per esprimermi come i vescovi quando parlano delle loro “pecorelle smarrite”—che prima neanche mi sognavo. Anzi, mentre un tempo me ne facevo quasi una malattia, mi arrabbiavo, mi indignavo e così via, oggi guardo le vicende che si svolgono su quel palcoscenico quasi con affetto. Ma queste considerazioni sono abbastanza private, dunque meglio parlare d’altro, senza cadere nella trappola di voler echeggiare l’insuperabile Adriano Sofri di ieri, cioè quello che su Repubblica ha adoperato toni lirici—una pagina, in effetti, che mi è sembrata particolarmente “ispirata” sotto il profilo letterario—per raccontare il travagliato momento storico che la sinistra italiana sta attraversando.

Sofri, però, malgrado la vena poetica, non è stato tenero, e questo, evidentemente, la dice più lunga di qualsiasi mozione dei sentimenti, a livello di analisi politica: non ha risparmiato niente e nessuno, mi pare. Né la “fascinazione del vuoto” (“il tale spostamento a destra creerà il tale vuoto a sinistra - o viceversa -e noi lo riempiremo. La politica guidata dalla domanda, come il mercato”), né “la proliferazione caricaturale - ma efficace, come sono effica­ci i bastoni fra le ruote - dei partiti (e di supposti leader, e veri e grevi apparati e clientele), né il Partito democratico che “poteva essere un'altra cosa,” cioè immune da quella fascinazione malefica cui “soccombe soprattutto la vocazio­ne centrista. Il centro è vuoto per definizione, un perenne risucchio, un maelstrom della vacuità, nel quale sprofondare a gara.”

Di oggi, invece, sono due interventi meno inclini al lirismo, né più né meno di quanto lo siano i due autori: la pacatissima e razionale Claudia Mancina, sul Riformista, e il sarcastico Riccardo Barenghi, l’interfaccia umano di Jena, su La Stampa. Piuttosto severa, la Mancina, un po’ con tutti. Con Boselli, giustamente, ma forse per la ragione sbagliata:


negativa la riproposizione, da parte di Boselli, del tema identitario, che addirittura risale fino alla scissione di Livorno per segnare i confini tra due partiti che oggi si collocano entrambi nell’Internazionale socialista. Verrebbe da chiedere: quanti italiani sotto i cinquant’anni sono in grado di ricordare di che cosa si tratta? Ma tant’è, chi mette al centro l’identità storica non è molto sensibile alle cesure che pure la storia produce in quell’identità.

Verrebbe da dire: d’accordo sui men che cinquantenni, ma ci sono i libri per chi è a corto di esperienze dirette, e sui libri, talvolta, le cose son raccontate meglio che dai testimoni e dai protagonisti … Però ha ragione, la Claudia Mancina, quando lamenta che


il dibattito sul Pd, in assenza di un più serio e approfondito confronto sui principi fondanti di una politica di centrosinistra oggi (che avrebbe dovuto toccare i temi del ruolo dell’individuo, dei limiti dello stato, della giustizia globale, eccetera), si è andato concentrando in modo quasi parossistico sulla questione del rapporto tra laici e cattolici. Una questione certamente importante, ma mal posta […].

Meno d’accordo, magari sul perché la questione sia mal posta: siamo proprio sicuri che oggi “i laici della sinistra e i cattolici della Margherita in gran parte condividono una visione liberale che non è più né quella solidaristica della Dc né quella collettivistica del Pci?” Io avrei qualche dubbio. Ed anche Barenghi, a dire il vero, che immagina il “bel Partito democratico che va da Fassino a Rutelli, passando per D’Alema, Veltroni e tutti gli (ex?) democristiani.” Dove il “bello” è un aggettivo barenghiano, cioè quanto meno carico di incognite …

Ma Barenghi entra anche in altri dettagli e non rifugge dagli scenari più complessi. Segue a tal riguardo una citazione un po’ lunga—ma chi se la sente di accorciarla?


E qui è un pullulare di partiti e partitini, gruppi e gruppetti, associazioni e singoli pensatori, compagni ubbidienti e dissidenti irriducibili, correnti e correntoni. Comunisti, socialisti, trotzkisti, sindacalisti, ambientalisti... riusciranno tutti questi radicali di sinistra a mettersi insieme dentro un qualcosa che compensi e faccia da contraltare al partito dei riformisti, magari alleandosi con loro per governare il Paese? Tutti no, qualcuno forse sì.
Rifondazione comunista, per esempio, è la forza principale di questa galassia. Ma sarà ancora comunista tra due anni? Lo sarà ma non lo sarà. Lo sarà, perché prima di buttare via quel nome e quel simbolo (sul mercato vale tra l’1,5 e il 3 per cento), bisogna andarci cauti. Ma non lo sarà, perché ha intenzione di uscire dal suo porticello e navigare in mare aperto. Che ormai si chiama socialista, tanto che da qualche tempo il suo leader Fausto Bertinotti parla solo di socialismo, di socialisti, di sinistra (europea), ma di comunismo niente, scomparso, defunto. L’aggettivo non c’è più. E non per caso: Bertinotti sa bene che il futuro della «sua» sinistra non potrà essere comunista, d’altra parte neanche il presente lo è più. Socialisti poi si definiscono quelli del Correntone Ds, che non entreranno nel Partito democratico ma che hanno urgente bisogno di una nuova casa che li accolga. Che non può essere comunista anche se andrà costruita insieme ai comunisti (ex a quel punto) di Rifondazione.
[…]
Dunque socialismo, la parola magica che dovrebbe significare quantomeno la socializzazione dei mezzi di produzione: obiettivo poco realistico nel nostro tempo, ma tant’è, l’importante è suggestionare, evocare, illudere, far finta di crederci. Tutti socialisti allora, Bertinotti e i suoi comunisti, Mussi e il suo Correntone ormai correntino (viaggia attorno al 15 per cento nei congressi e chissà in quanti lo seguiranno nell’uscita di sicurezza), Diliberto e Rizzo, che pur di non restare soli, sono pronti a dimenticare di chiamarsi comunisti. E mettiamoci pure i Verdi, che socialisti non sono ma che alla fine potrebbero pure diventarlo, per giusta e opportuna causa.

"Tutti socalisti, allora ..."

Eh, Barenghi è uno che non perdona. Io l'ho sempre detto ch'era troppo forte per il manifesto ... E adesso ditemi voi come si fa a non provare un moto di affetto per questa sinistra!

March 22, 2007

Il blog e l'arte del domandare

[DUE AGGIORNAMENTI RECENTI IN QUESTO POST]


La filosofia è la disciplina del domandare e del ricordare.
—Hans Georg Gadamer

L'ingegno di un uomo si giudica meglio dalle sue domande che dalle sue risposte.
—Duca di Lévis

Le risposte sono capaci di darle tutti, per fare le vere domande ci vuole un genio.
—Oscar Wilde

La chiave di tutte le scienze è indiscutibilmente il punto di domanda.
—Honoré de Balzac

Questa formidabile sequenza di elogi d’autore dell’arte del domandare si legge nel «Mattutino» odierno di monsignor Gianfranco Ravasi, naturalmente su Avvenire. Pregevole anche il contributo personale del famoso biblista:



È quel «Come?» o quel «Perché?» che affiora incessantemente sulle labbra del bambino, non ancora rovinato dall'indifferenza o dalla delusione, domande capaci di mettere in crisi l'adulto che non si pone più interrogativi, perché ormai il fremito della ricerca in lui s'è spento.

Qui, con una certa libertà, mi aggancerei per una considerazione estemporanea sui blogs politici. Mi sembra, cioè, che in giro ci sia una netta prevalenza di bloggers che si dimostrano ansiosi—anche giustamente, sia chiaro—di suggerire, proporre e talvolta tentare perfino di imporre, per lo più in maniera argomentata (per fortuna!), delle risposte. Pochi sollevano dubbi, pongono domande, esprimono una volontà di ricerca, prima di mettere in circolazione il proprio punto di vista. Questa non mi sembra una cosa buona.

Inoltre, cosa non secondaria, ci si attarda poco a citare e commentare opinioni altrui, autorevoli e collaudate, a vantaggio delle proprie, con un eccesso, a mio parere, di «autostima». Ora, è ben vero che avere fiducia nella propria capacità di giudizio e discernimento è un fatto positivo, ma, appunto, non bisogna neppure esagerare, anche perché l’autostima che non si sostanzia di un sistematico e rigoroso esercizio critico verso se stessi e le proprie convinzioni—passando attraverso un confronto serrato con le opinioni altrui, meglio se diverse o almeno non collimanti con le nostre—spesso finisce per sfociare nell’auto-referenzialità e nell’auto-compiacimento, includendo nell’auto- anche le appartenenze di cui ci nutriamo.

La qualità di un blog politico, secondo me, si misura, più che dagli “editoriali,” dalle buone rassegne stampa, più che dalla facilità di giudizio, dalla prudenza, più che dalla univocità del messaggio, dalla capacità di riconoscerne la relatività. Il che, per altro, non significa affatto una resa al solito, malefico relativismo!

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UPDATE 1 / 23-03-2007
Di questo post si è discusso con Enzo Reale via email. Ne è nato un altro post che porta acqua al mulino dell'asserire invece che a quello del domandare. Personalmente direi che l'una cosa non vieta l'altra, e che anzi queste siano le due facce dell'identica medaglia. Insomma, sono d'accordo con Enzo pur restando d'accordo con me stesso. Ancora una volta, non aut-aut ma et-et, come piace dire al grande Vittorio Messori.

UPDATE 2 / 25-03-2007
Ho visto con piacere che altri due bloggers si sono inseriti nel dibattito con interventi molto interessanti. Si tratta di Nullo e di JimMomo. Il primo, tra l’altro, riferisce sinteticamente di un dibattito svoltosi recentemente nella blogosfera britannica e che ha visto protagonisti Oliver Kamm e Norman Geras. Lo ringrazio sentitamente perché, pur seguendo con una certa assiduità entrambi i blogs in questione (soprattutto quello di Norm), mi ero perso questo intelligente scambio di opinioni. Vorrei tornarci un attimo anch’io.

Dunque, Norm ha sintetizzato così il pensiero di Oliver Kamm:

Oliver's argument (following Cass Sunstein) seems to be that, despite allowing a greater number of voices and range and variety of opinion, the overall effect of blogs is to lead people to look for, and stick with, the ideas and arguments with which they're comfortable, so that what you get is not a genuine conversation but an echo chamber, with participants standing firm on fixed positions and sometimes indulging in abuse, rather than engaging with one another in a thoughtful way.

Ebbene, attenzione, la risposta di Norm è interessante e, a mio avviso, condivisibile:

Given how much of blogging consists of bloggers and commenters taking issue with one another, the suggestion is implausible to me that they're less exposed than they would otherwise be - without the blogosphere - to opinions different from their own.

Dunque, bisogna distinguere bene e, pur senza voler minimizzare certi difetti molto diffusi nella blogosfera, non addebitare al blog in quanto tale colpe che sono semmai molto più generali. Infatti Norm dà ragione a O.K. su un punto:

At the same time, Oliver is plainly right that blogging debate - as is evident at Comment is Free but on many other sites as well - includes a lot that isn't conducive to deliberation, in a good meaning of that word, or to open-minded consideration of the views of others. It is striking how far modes of address and argument are tolerated in the blogosphere that would not be in a seminar or democratic public meeting. Not only would the chair intervene. Against some of the excesses now taken as par for the course in blogospheric debate it is probable there would be a more collectively expressed disapproval.

La conclusione del Prof. Geras, mi pare, è da manuale: non è questione dello strumento in sé, si tratta di tentare di elevare il livello culturale della discussione nella blogosfera. Ecco come si esprime Norm:

But if, from a democratic point of view, there is this shortcoming of debate on the blogs, it needs to be dealt with practically by trying to improve the culture of Internet discussion. There is nothing about the medium as such, about the sheer availability of this new space for debate, one open to much larger numbers of people and to every point of view, that impoverishes democracy.

Condivido parola per parola.

Quanto a JimMomo, condivido assolutamente che “i blog sono competitivi - e molto - rispetto ai media tradizionali.”

Trovo abbastanza scontata anche l’osservazione che

[c]hi prova a dare le risposte non per questo ha rinunciato alla funzione del dubbio. In qualsiasi percorso di ricerca esiste anche il momento in cui occorre mettere un punto. Per la chiarezza e l'intellegibilità della ricerca stessa. E perché è da quel punto che si può proseguire senza perdere il filo del discorso.

Altrettanto giusta è la rivendicazione della consapevolezza che

il primo esercizio di critica è proprio il mettere in discussione verità e versioni della realtà fornite da fonti «autorevoli e collaudate».

Ci mancherebbe altro. Quindi penso che siamo perfettamente d’accordo su questo. Il problema è, appunto, quello che sollevava Norman Geras: elevare il livello del dibattito.

Ma JimMomo aggiunge un’osservazione polemica che suona così:

A me pare […] che lo sport preferito di qualcuno sia presentare argomenti ostentando una retorica dubbiosa, ma tra le righe proponendo una visione della realtà nient'affatto neutra e sospesa come si vorrebbe far credere.

Questo è un altro discorso. Ma anche qui bisogna distinguere: certo che sui principi si possa (o si debba) avere “una visione della realtà nient'affatto neutra.” Il problema è quando cali i principi e la Weltanschauung che hai abbracciato nella realtà concreta. E’ sempre difficile far discendere da dei principi generali dei comportamenti univoci nella concreta realtà della vita. Qui è doveroso esercitare il dubbio. Certo, tra le righe uno può scorgere una “preferenza,” ma questa non viene sbandierata come un giudizio apodittico, bensì viene, appunto, presentata come una possibilità alla quale si dà un certo credito. Gli esempi potrebbero essere infiniti. Ne scelgo uno: E’ giusto combattere con determinazione la W.O.T (War On Terror)? Sì (secondo me). Bush ha scelto le modalità più opportune per combatterla? Qui il dubbio è doveroso. Poi uno può dire che, nel complesso, appoggia la politica americana sull’Iraq, ma mantiene delle riserve (che possono anche essere piuttosto pesanti). Questa non è ambiguità. E’ la vita, la storia, la politica, che non sono mai semplificabili oltre un certo livello.

March 21, 2007

Sentieri interrotti (Heidegger? Macché, il governo dell’economia)

Luca Ricolfi su La Stampa di oggi (estratti):

> "Un anno fa, in piena campagna elettorale, quando i conti erano ancora in profondo rosso, il centro-sinistra aveva promesso ... "

> "Poi, ad aprile, l’Unione vince le elezioni e fa mostra di scoprire - improvvisamente - che la situazione dei conti pubblici è drammatica, e quindi tutte le promesse vanno riviste ..."

> "Tra febbraio e marzo i nostri governanti cambiano di nuovo idea: forse abbiamo esagerato, forse abbiamo spremuto un po’ troppo gli italiani ..."

> "A questo punto della storia la rotta è di nuovo cambiata. Grazie all’ipotesi di abolizione dell’Ici si ricomincia a parlare di riduzione delle tasse, forse già dal 2007 ..."

> "Non passano ventiquattro ore da queste caute aperture del ministro dell’Economia e il presidente del Senato non resiste alla tentazione di dire anche lui la sua: le tasse vanno sì ridotte (ma non le avevate appena aumentate?), e tuttavia non basta farlo per le imprese, occorre farlo anche per le famiglie ... "


> "Il governo, naturalmente, ha tutto il diritto di decidere su che rotta vuole condurre la barca dell’Italia. Può fare come la Merkel (caute riforme del Welfare più sgravi fiscali alle imprese), può fare come ha fatto fin qui (più tasse e più spese), può fare come aveva promesso (riforme, meno sprechi, meno tasse), può persino inventarsi una politica economica completamente nuova. Però deve dircelo, deve farci capire dove siamo diretti. Non soltanto perché, dopotutto, è ai cittadini che un governo risponde, ma perché l’incertezza, i segnali contraddittori, i falsi annunci, il continuo dire e contraddire, fare e disfare - insomma questo continuo governare a zig-zag - danneggiano l’economia del Paese e deprimono il morale delle persone. "

Non vorrei aver saltato qualche passaggio ...

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March 20, 2007

Decostruire la decostruzione (dell'uomo)

Non ci si può distrarre un attimo. Sono pieno di da fare e non chiederei altro che di essere lasciato in pace. E invece no, Il Foglio se ne esce con una lunga e interessante intervista all’antropologo francese, ma americano d’adozione, René Girard. Una fantastica chiacchierata che potrebbe far scoccare in chiunque—persino nel sottoscritto, scampato per miracolo, a suo tempo, ai tentacoli di Claude Lévi-Strauss—la scintilla di una passionaccia per l’antropologia filosofica, come se uno non avesse già abbastanza grattacapi.

Al centro della conversazione, naturalmente, l’uomo, quello di sempre e quello contemporaneo e postmoderno, e inevitabilmente l’uomo e la scienza, il linguaggio, la religione.

Proveniente dal radicalismo francese, ma in seguito convertitosi al cattolicesimo, Girard ricorda senza particolari nostalgie quei suoi esordi:



“Mi sono riempito la testa con le pagliacciate e il semplicismo mediocre e stupido dell’avanguardia. So bene quanto la negazione postmoderna della realtà possa condurre al discredito della domanda morale dell’uomo. L’avanguardia un tempo relegata in ambito artistico oggi si estende a quello scientifico che ragiona sull’origine dell’uomo. In un certo senso, la scienza è diventata una nuova mitologia, l’uomo che crea la vita. Così, ho accolto con grande sollievo la definizione di Joseph Ratzinger di ‘riduzionismo biologico’, la nuova forma di decostruzione, il mito biologista. Mi ritrovo anche nella distinzione dell’ex cardinale fra scienza e scientismo”.

Come dire? Beccatevi questa, signori laici, e passiamo oltre. Scherzo, neh. E poi il bello deve ancora venire … Ce n’è per tutti, da Auguste Comte al famoso biologo dei nostri giorni Richard Dawkins, da Nietzsche a Voltaire e, udite udite, all’islam, cui manca una cosa fondamentale: la croce. Lo sospettavo, ma sentirlo confermare così autorevolmente fa indubbiamente piacere.

Qualche citazione al volo. Il testo integrale, ad ogni buon conto, l’ho sistemato qui.

L’antropologia:



“Può esserci una antropologia realistica che precede la decostruzione? In altre parole: è lecito e ancora possibile affermare una verità universale sul genere umano? L’antropologia contemporanea, strutturalista e postmoderna, nega quest’accesso alla verità. Il pensiero attuale è la castrazione del significato. Sono pericolosi questi tentativi di mettere in discussione l’uomo.”

La religione:



“E’ questa l’essenza dell’esistenza umana, è l’origine della proibizione dei sacrifici e della violenza. Dove si è dissolta la religione, lì è iniziato un processo di decomposizione.”


La religione cristiana:



"La religione cristiana, la più grande rivoluzione nella storia umana, è l’unica a ricordarci l’uso corretto della ragione. E’ una sfida che si gioca sul concetto di colpa. A lungo l’Europa ha deciso che i tedeschi dovevano essere il capro espiatorio. Era impossbile anche solo accostare comunismo e nazismo. Decretata la morte di Dio e la fine illuministica del senso religioso, si doveva tenere in piedi un ‘anti Dio’, una controdivinità, il comunismo. Sono d’accordo con le tesi di Ernst Nolte sull’affinità fra nazismo e comunismo. Ogni regime totalitario è iniziato con la soppressione della libertà religiosa."


La microeugenetica, Nietzsche e «l’abolizione dell’uomo»:



“La microeugenetica è la nuova forma di sacrificio umano. Non proteggiamo più la vita dalla violenza, schiacciamo invece la vita con la violenza. Per cercare di appropriarci del mistero della vita a nostro beneficio. Ma falliremo. L’eugenetica è il culmine di un pensiero iniziato due secoli fa e che costituisce il più grande pericolo per la specie umana. L’uomo è la specie che può sempre distruggere se stessa. Per questo ha creato la religione.”



“Aveva ragione C. S. Lewis quando parlava di ‘abolizione dell’uomo’. Michel Foucault aggiunse che l’abolizione dell’uomo sta diventando un concetto filosofico. Non si può più parlare oggi dell’uomo. Quando Friedrich Nietzsche annunciò la morte di Dio, in realtà stava annunciando la morte dell’uomo. L’eugenetica è la negazione della razionalità umana. Se si considera l’uomo come mero e grezzo materiale da laboratorio, un oggetto manipolabile e malleabile, si può arrivare a fargli qualsiasi cosa. Si finisce per distruggere la fondamentale razionalità dell’essere umano. L’uomo non può essere riorganizzato”.

Il messaggio cristiano:



“[M]i pare che la superiorità del messaggio cristiano diventi ogni giorno più visibile. Quando è più attaccato, il cristianesimo brilla di maggiore verità. Essendo la negazione della mitologia, il cristianesimo splende nel momento in cui il nostro mondo si riempie di nuove mitologie sacrificali. Lo skandalon della rivelazione cristiana l’ho sempre inteso in maniera radicale. Nel cristianesimo, anziché assumere il punto di vista della folla, si assume quello della vittima innocente. Si tratta di un capovolgimento dello schema arcaico. E di un esaurimento della violenza.”

Il divorzio fra umanità e sintassi, la perdita dell’escatologia cristiana:



“Stiamo perdendo ogni contatto fra il linguaggio e le regioni dell’essere. Oggi crediamo solo al linguaggio. Amiamo le favole più che in qualunque altra epoca. La cristianità è una verità linguistica, logos, Tommaso d’Aquino è stato il grande promulgatore di questo razionalismo linguistico. Il grande successo della cristianità angloamericana e dunque degli Stati Uniti si deve non a caso a straordinarie traduzioni della Bibbia. Nel cattolicesimo oggi c’è fin troppa sociologia. La chiesa è troppo spesso compromessa con le lusinghe del tempo e il modernismo. In un certo senso i problemi sono iniziati con il Concilio Vaticano II, ma risalgono alla precedente perdita dell’escatologia cristiana. La chiesa non ha abbastanza riflettuto su questa trasformazione. Come possiamo giustificare la totale eliminazione dell’escatologia persino nella liturgia?”.


Già, come è stato possibile? Vuoi vedere che il problema è proprio questo?




March 19, 2007

Riformisti addio

Se “la scissione dei Ds, ormai, è cosa fatta,” come sintetizza Maria Teresa Meli sul Corriere di oggi, e se persino Piero Fassino “ha capito che questo è un esito inevitabile, che Fabio Mussi e compagni se ne andranno,” bisogna gioire o rattristarsi? Parlo non tanto mettendomi dal punto di vista di quel popolo di sinistra—del quale, da non poco tempo, non posso più dire di far parte—che in questi giorni sta vivendo col fiato sospeso in attesa di sapere che cosa succederà, quanto da quello dell’Italia, cioè del “bene comune,” se posso permettermi di esprimermi così, ovviamente con la massima umiltà, sforzandomi soltanto di capire e senza la pretesa di ergermi a giudice di nessuno. Anche perché questo è un momento “alto” del dibattito politico, direi un momento storico, in cui il solito cicaleccio ha lasciato il posto a un dramma vero, crudo, lacerante.

Addirittura Mussi accarezza l'ipotesi di non partecipa­re al Congresso di Firenze, ad aprile. Motivo? «II rischio è che si trasformi in una rissa, con fischi e insulti con­tro di noi, con la gente che ci urla "traditori"». Ovviamente, completa la Meli, “c'è anche una giustificazione politica: perché andare alle as­sise nazionali se tanto c'è la scissione?” Questo per dare l’idea del dramma.

Dunque, gioire o rattristarsi? E chi lo sa? Innanzitutto, però, confesso che se c’è una cosa di cui sono sicuro è che la CdL ne gioirà. Questo vorrà dire qualcosa, suppongo. Certo la sinistra non ci fa una bella figura presso l’opinione pubblica, che tante distinzioni è piuttosto stufa di doverle fare, anche perché il bipolarismo ha fatto ormai breccia nel corpo elettorale (ma non più di tanto nei gruppi dirigenti e nella base militante dei partiti, soprattutto di centrosinistra).

Ma chi se ne importa della brutta figura se questa è ripagata da qualche vantaggio concreto? E allora, appunto, a cosa può servire la scissione? Faccio un’ipotesi: può giovare alla chiarezza. Cioè: i riformisti di qua e gli estremisti di là. Però c’è il rischio concreto che l’esito finale sia che una parte dei riformisti (ex Psi + Caldarola e Macaluso) saltino il fosso, cioè diventino, assieme al “correntone,” l’ala destra del rassemblement a sinistra del Pd caldeggiato da Bertinotti e Giordano (si veda l’intervista di quest’ultimo al Messaggero) e “garantito” da un sistema elettorale alla tedesca. Sembra di sognare, ma questo esito è davvero possibile, tanto è vero che si moltiplicano gli appelli affinché questo non accada, come ricorda “senza farsi troppe illusioni” Paolo Franchi nel suo editoriale sul Riformista:

Non so quante speranze abbiano quei dirigenti dei Ds (ma anche Giuliano Amato) che, con l’avvicinarsi dei congressi nazionali dello Sdi, della Quercia e della Margherita, si appellano ai «compagni socialisti» perché ci ripensino, e aderiscano al costituendo Partito democratico. Poche, direi, anche perché fatico a capire quale straordinaria proposta possano mettere in campo per convincerli in extremis.

E allora? Beh, se succede questo, se davvero, in nome del “socialismo” (si veda anche su questo punto cosa dice il “neo-socialista” Giordano nell’intervista già citata …), si butta a mare il riformismo, non so che mi dire. Tranne che sarebbe un male per l’Italia—che avrebbe semmai bisogno di mettere in quarantena la sinistra non riformista, come Schroeder insegna—e un bene per i massimalisti.

Un’ipotesi preferibile sarebbe, naturalmente, che gli scissionisti e i “compagni socialisti” facessero un partito (di consistenza sufficiente a resistere allo sbarramento “tedesco”) per conto proprio, lasciando perdere Bertinotti. Salverebbero il nome del socialismo e non indebolirebbero troppo il Pd a vantaggio della sinistra estrema. Questo potrebbe rivelarsi un bene, una soluzione persino preferibile ad una confluenza poco convinta nel Pd. Non resta che stare a vedere.

L'erba cattiva

Avevo qualcosa da dire sul dietro-front dell’Independent sulla cannabis. Ma l'ha detto prima lui, qui. Unicuique suum ...

March 16, 2007

Ma Lui è venuto a portare la spada

Tutto si tiene, sempre. Vuoi capire il senso di un avvenimento? Devi possibilmente analizzare a fondo e afferrare il significato di quello che viene prima, che sta accanto, dietro, sopra, sotto. Cogliere analogie, contiguità (anche contingenti, o, più spesso, solo apparentemente tali), rapporti, nessi di causa-effetto, e via dicendo. Va a capire, ad esempio, perché proprio adesso si legge una notizia come quella che campeggia sui giornali di oggi: basta porno in tv 24 ore su 24! Sì, proprio adesso, e perché non una settimana, un mese, un anno fa? Naturalmente chiunque provasse a rispondere verrebbe contestato e zittito, perché non può esserci una risposta univoca, buona per tutti. Capita agli storici, capita ai cronisti (e ai filosofi, ai semiologi, agli antropologi culturali, ecc.): il “conflitto delle interpretazioni” è sempre dietro l’angolo, è perfino necessario e salutare. E’ semmai il “silenzio delle interpretazioni” che dovrebbe preoccuparci! Mentre il gossip, quello no, non lo tacita nessuno, né, men che meno, si auto-censura, sia pure per una buona mezzora filata.

Vabbè, dove voglio andare a parare? E’ imbarazzante, lo ammetto …, ma vorrei tornare sull’Esortazione del Papa e prenderla di lato, un po’ a tradimento. Adesso qualcuno starà pensando: hai visto mai che vuol stabilire una relazione di causa-effetto tra il discorsetto ratzingeriano e il giro di vite sul porno? Tranquilli, non ci penso neppure, non voglio stabilire un bel niente. Però, però un dubbio, un sospetto magari sì, quello vorrei insinuarlo, perché si sa, la vita è una foresta di simboli, e allora, se prima citavo il titolo del capolavoro di Paul Ricoeur, ora citerò il motto che ne costituisce il Leit-Motiv: le symbole donne à penser. E allora pensiamo: che senso ha questa svolta epocale—perché tale è, sia ben chiaro—in materia di comunicazione, intrattenimento e pubblicità? Non vuol dire, per caso, che siccome la pornografia è male, a tutte le ore del giorno e della notte, occorre vietarla o quanto meno limitarne la diffusione esclusivamente a trasmissioni criptate? Personalmente direi di sì. Ebbene, passiamo all’Esortazione. Breve, chiara, inequivocabile, come si diceva. Il senso? Butto lì: ci sono principi non negoziabili, c’è il bene e il male, ci sono cose che sono buone e cose che sono cattive: la Chiesa sta con le une e contro le altre. E pretende che chi in essa si riconosce si regoli di conseguenza, soprattutto se ha responsabilità politiche.

Si può vedere un nesso tra i due eventi? C’è libertà di interpretazione, naturalmente. Ma se l’Autorità per la Garanzie nelle Comunicazioni è arrivata a questa decisione, e se la motivazione è quella che suggerivo prima, forse il nesso c’è: (mia interpretazione) è forse arrivato il tempo della chiarezza. Non qualsiasi comportamento—in materia di morale e costumi sessuali—è lecito, non tutte le scelte si equivalgono, anche se non si è in presenza di violazioni del codice penale e si resta nei limiti di un civile rispetto delle libertà individuali.

Naturalmente c’è chi non è d’accordo con la decisione dell’Autorità, e il suo dissenso va rispettato. Il problema è che prima poteva succedere che un ragazzino o una ragazzina potesse assistere a spettacoli di una oscenità e di un cattivo gusto al di là di ogni immaginazione. Ora non più.

A questo punto uno si potrebbe domandare se una Chiesa più martiniana (ascolto della gente, dialogo) e meno ratzingeriana e ruiniana (riaffermazione di “principi non negoziabili”) avrebe mai potuto generare un humus favorevole alla chiarezza che oggi si comincia a respirare. Io ne dubito, con tutto il rispetto che il cardinal Martini merita, con tutte le ragioni che bisogna riconoscergli—che senso avrebbe una Chiesa incapace di ascolto e di dialogo? Anche se—attenzione, prego!—è lo stesso cardinale che, per esempio, dice di «non credere molto nel dialogo interreligioso», perché «ciascuna religione è un po’ incasellata nel suo schema, e gli schemi si ripetono», e tuttavia c’è «un livello di verità delle parole che vale per tutti, credenti e non, e in cui tutti si sentono coinvolti e parte di una responsabilità comune» (sul Corriere di oggi, non online). Sembra di sentire Benedetto XVI. Già, perché in fondo la differenza tra i due, se c’è, non è sostanziale, è politica. Nel senso che Ratzinger “fa politica,” Martini no. Il primo calcola le conseguenze che il suo magistero può avere sulla società, il secondo si preoccupa soprattutto delle anime. Il primo parla di Gesù, il secondo anche, ma tenendo d’occhio l’Anticristo che incombe minaccioso. Uno è un costruttore di pace, l’altro sta portando nel mondo una spada.

Ehi, l’ho nominato, non ho potuto evitarlo, e adesso devo renderne conto, sia pure obtorto collo, ché sarei allergico agli escatologismi (a buon mercato). Il fatto è che ieri Il Foglio ne parlava in un intero paginone, ed io, per i cultori del genere letterario, ho dato asilo al tutto in un posto sicuro e tranquillo. Ne parlava, Il Foglio, come si conviene, cioè con le parole di Solov’ëv, il filosofo russo che nell’Ottocento ne profetizzo la venuta e ne descrisse il tratto e il programma: pacifista, animalista, ecologista, ecumenista, spiritualista. Uno che crede persino in Dio, ma non in Gesù Cristo, cioè in colui che “ha portato la spada,” mentre lui dice di sé “io porterò la pace,” non nel Cristo che “col suo moralismo ha diviso gli uomini secondo il bene e il male,” mentre lui li unirà “coi benefici che sono ugualmente necessari ai buoni e ai cattivi.”

Ecco, direi, qual è il punto. Dividere gli uomini secondo il bene e il male. Ovvio, perfettamente legittimo dubitare che il bene secondo Ratzinger sia il bene secondo Dio (o secondo gli uomini) e il male sia il male, e via discorrendo, e che debba esserci qualcosa che si possa definire come il Bene (o il bene). Ma da un Papa cosa ci si può aspettare? Evidentemente che chiami le cose con i loro nomi, cioè come a lui è stato tramandato che debbano chiamarsi. E se a un certo punto si intravede lo sfavillio di una spada dovremmo forse scandalizzarci? Dovremmo, noi cristiani, sacrificare tutto alla “pace” e deporre la spada? No, certamente, se la pace è quella cosa di cui parla l’Anticristo solovëviano e la spada è quella che Gesù Cristo è venuto a portare, perché, come Solov’ëv fa dire ad uno di quei pochi che ancora si oppongono al nuovo Padrone del mondo,

«C’è […] la pace buona, la pace cristiana, basata su quella divisione che Cristo è venuto a portare sulla terra precisamente con la separazione tra il bene e il male, tra la verità e la menzogna; e c’è la pace cattiva, la pace del mondo, fondata sulla mescolanza o unione esteriore di ciò che interiormente è in guerra con se stesso.»

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P.S.: Fa piacere che, ogni tanto, anche sul versante “laico” si riconosca a un Papa il diritto di richiamare “i suoi” a un minimo di coerenza. Segno, a mio avviso, che c’è ancora speranza che la franchezza venga accolta come un pregio, e non come un difetto, anche in un Paese che è maestro nell’arte di eludere gli aspetti sostanziali delle cose per rifugiarsi in comode rendite di posizione. Una lettura caldamente raccomandata.

March 14, 2007

E il Papa chiuse il discorso

E con l'Esortazione post-sinodale Sacramentum Caritatis Benedetto XVI pose fine a un’illusione “un po' superficiale,” come scrive Massimo Franco sul Corriere di oggi, quella, cioè, di “una Cei «liberata» dal cardinale Camillo Ruini, e dunque meno arcigna verso l'Unione.” Il messaggio, infatti, è di una chiarezza cristallina e non lascia neppure uno spiraglio a volesse “leggerlo” come un ragionamento che si tiene al di sopra delle polemiche contingenti, che vola alto, ecc., ecc. Niente di tutto questo: non ci può essere alcun dubbio su coloro ai quali il messaggio è rivolto in primis. Ecco il passaggio chiave:


Il culto gradito a Dio, infatti, non è mai atto meramente privato, senza conseguenze sulle nostre relazioni sociali: esso richiede la pubblica testimonianza della propria fede. Ciò vale ovviamente per tutti i battezzati, ma si impone con particolare urgenza nei confronti di coloro che, per la posizione sociale o politica che occupano, devono prendere decisioni a proposito di valori fondamentali, come il rispetto e la difesa della vita umana, dal concepimento fino alla morte naturale, la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, la libertà di educazione dei figli e la promozione del bene comune in tutte le sue forme. Tali valori non sono negoziabili. Pertanto, i politici e i legislatori cattolici, consapevoli della loro grave responsabilità sociale, devono sentirsi particolarmente interpellati dalla loro coscienza, rettamente formata, a presentare e sostenere leggi ispirate ai valori fondati nella natura umana.

A scanso di equivoci, inoltre, il Pontefice ha aggiunto subito dopo questo pro memoria per i suoi confratelli più prossimi gerarchicamente:


I Vescovi sono tenuti a richiamare costantemente tali valori; ciò fa parte della loro responsabilità nei confronti del gregge loro affidato.


Va bene, chiuso il discorso, si potrebbe dire. E infatti che altro si può aggiungere? Ruini aveva sparigliato qualche giorno prima di lasciare la presidenza della Cei, ed ora lo ha fatto addirittura il Papa …

A chi legge, comunque, se non il diritto all’interpretazione letterale (resa superflua, appunto, dalla chiarezza del messaggio), resta il compito di riflettere sul perché e sul percome, sugli obiettivi, le cause, il contesto e le conseguenze (immediate e di medio-lungo termine) di tanta nettezza. Insomma c’è pur sempre spazio per l’ermeneutica e per quegli approcci, testuali e non, che doverosamente si avvalgono di tutti gli strumenti e dei metodi di indagine che abbiamo a disposizione. Questo ci spetta e questo cerchiamo di fare anche qui (con tutti i limiti, non è neanche il caso di puntualizzare).

Al dunque, l’idea è quella di agganciarmi a un carro di quelli che non tradiscono mai: quello di Vittorio Messori, un cattolico senza peli sulla lingua e nel contempo uno “spirito laico” altrettanto rigoroso e poco incline a lasciarsi racchiudere in schemi di comodo. In un’intervista del 3 marzo scorso di cui pochi hanno saputo, in quanto rilasciata a Il Nostro tempo, un settimanale cattolico tanto prestigioso e ben fatto quanto poco noto al grande pubblico, Messori ha affrontato in maniera molto esplicita le questioni che sono al centro del dibattito. Il suo approccio mi sembra estremamente interessante, e in grandissima parte lo condivido.

Dunque, sollecitato da una domanda secca del direttore Beppe Del Colle (che idea si è fatto della bagarre politico-mediatica sul "caso Dico?") Messori ha risposto così:


[D]evo dire che non ho alcuna intenzione di partecipare a crociate su simili temi. E non perché non ne veda l’importanza. Ma perché vedo anche l’effetto che provocano su tanti non credenti queste battaglie su temi morali. L’etica cristiana, e cattolica in particolare, è sempre più incomprensibile al di fuori di una prospettiva di fede. Non nego, certo, l’esistenza di una “morale naturale“, ma essa è sepolta e forse ormai irriconoscibile per molti sotto l’ammasso di punti di vista divenuti ora egemoni ma accumulati sin dal secolo dell’Illuminismo.
[…]
Per il pensiero dominante tra la gente, per la quale la fede è ormai un oggetto sconosciuto, l’insegnamento morale della Chiesa appare non solo retrogrado ma anche fastidioso. Invece che rispetto provoca dispetto, avversione, rivolta, invettive contro “i preti che vogliono mettere il naso“. Soprattutto in camera da letto.
Sono convinto che, noi cristiani, dovremmo deciderci a riscoprire la vocazione che ci ha indicato Gesù stesso: piccolo gregge, granello di senape, sale, lievito. Abbandonando le nostalgie di una cristianità da tempo perduta e che, forse, non merita poi tanti rimpianti. Abbiamo il diritto-dovere di dire la nostra, la Chiesa deve ricordare che non si può pretendere il suo plauso quando non può concederlo, dobbiamo ricordare che se hanno uno statuto perfino le bocciofile, la Chiesa è aperta a tutti ma ha le sue regole che occorre rispettare se si pretende di definirsi
“cattolici“. Tutto qui, riannunciando il kérygma ma non dimenticando mai la logica della parabola del seminatore che non può pretendere che la semente cada sempre su terra feconda.

L’intervista, davvero molto interessante, chiarisce e approfondisce ulteriormente quanto sopra, per poi addentrarsi in altre questioni importanti (in particolare: chi sono i nemici della Chiesa, il giudizio sulla fase politica attuale e persino sui sistemi elettorali ...). Ma l’essenziale, quello che qui ci interessa, è sintetizzato nel brano riportato.

Sono in gran parte d’accordo, dicevo, ma mi resta un dubbio. E’ un dato di fatto indiscutibile, secondo me, quello che Messori denuncia sulla “morale naturale” e sulla fede (“oggetto sconosciuto”). Così come trovo del tutto condivisibile l’appello dello scrittore cattolico a “riscoprire la vocazione che ci ha indicato Gesù stesso: piccolo gregge, granello di senape, sale, lievito.” Vada anche—e ci mancherebbe—per la necessità di mettere da parte le nostalgie per “una cristianità da tempo perduta.” Solo non capisco perché, a quanto sembra, Vittorio Messori debba far discendere da tutto questo un abbastanza evidente non-endorsement per la “svolta” ruiniana. Oggi come oggi, però, può darsi che la netta presa di posizione del Papa in persona faccia cambiare idea al Nostro, che è sempre stato un ratzingeriano convinto.

Aggiungo solo che, per quanto mi riguarda, trovo che le parole del Pontefice siano un elemento di chiarezza, un contributo che va in direzione di una maggiore onestà intellettuale da parte di tutti. Personalmente, inoltre, è anche perché ritengo che il Papa abbia ragione che non mi definirei mai, in politica, uno che agisce «in quanto» cattolico. Vorrei mantenere la mia libertà di giudizio (per poi magari scoprirmi assolutamente d’accordo, alla maniera diei bravi “atei devoti” ...). Ma se fossi un militante dell’Udc, dell’Udeur, ecc., non potrei far altro che seguire disciplinatamente il “consiglio” che proviene dal Capo della Chiesa. Pur tenendo conto del contesto che Vittorio Messori ha così ben rappresentato e di quel che ne consegue. Cioè senza farmi troppe illusioni. Del resto, non sono forse gli idealisti senza illusioni quelli che più spesso di tutti riescono a far cambiare in meglio le cose in questo mondo?

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P.S.: Su Rolli c'è un post che affronta molto polemicamente la questione che è all'origine di questo post. Credo che sia interessante mettere a confronto i due differenti approcci—anche se, ad essere sincero, ho troppa stima di Rolli per non pensare che ci sia molto di puramente "provocatorio" nel suggerimento che chiude il suo post. Comunque, tra i commenti ce n'è anche uno mio, in risposta a un'osservazione "cattivella" di Return. Un'occasione per chiarire ulteriormente il mio punto di vista.


March 13, 2007

Per dovere di cortesia

Solo un redirect a un post che ho appena scovato in un blog nuovo di zecca, ospitato dalla piattaforma gentilmente fornita dal quotidiano La Stampa. Dice che si occupa di cronaca & costume, il che non dovrebbe dire granché ai frequentatori di WRH, abituati a ben altro approccio. Ma siccome questo, come tutti sappiamo, è un paese di raccomandati, e a me questo blog mi è stato effettivamente segnalato, e con una certa insistenza (eufemisticamente parlando), mi adeguo non senza imbarazzo, pur consapevole che qualche compromesso, nella vita, bisogna saperlo accettare, e ve lo segnalo pregandovi di portare pazienza. Il Titolare del nuovo blog, comunque, non è sicuro che l’esperimento avrà un futuro. Del che, immagino, a molti non potrebbe importare di meno. Nel caso, comunque, per quanto mi riguarda me ne farei una ragione (purtroppo i blog vanno e vengono ...). Buon divertimento.

March 11, 2007

Heidegger e la Niemandrose (che saremmo noi)

Venerdì scorso, su Repubblica, c’era un lungo articolo di Adriano Sofri su Heidegger e sui rapporti di quest’ultimo col nazismo, passando per il poeta Paul Celan (ebreo, scampato fortunosamente alla deportazione nei lager nazisti e sopravvissuto ai lavori forzati), incluso un celebre incontro tra i due. Anche al di là della spinosa questione dell’adesione al nazismo—che per altro qualcuno tende ancora a minimizzare, con gran dispetto dell’autore dell’articolo—da parte del grande filosofo di Freiburg, la riflessione di Sofri può essere molto interessante per chi vuole concedersi una “pausa” nel bel mezzo delle angustie regalateci dalle cronache politiche.

Non essendo personalmente mai stato un grande estimatore di Heidegger, anche se m’è toccato di studiarmelo a fondo (in entrambe le versioni, prima e dopo la Kehre), non sono granché interessato neanche alle sue défaillances biografiche, compreso l’ostinato silenzio sull’Olocausto. Però sono un po’ incuriosito da chi tuttora se ne appassiona. Sofri è di quelli che non demordono. Interessante, in ogni caso, la citazione dalla celebre intervista del 1966, in cui M. H. si sottrae all’opportunità in extremis di salvare la faccia:

Al momento di sciogliere l´enigma, nell´intervista del 1966 allo Spiegel, da pubblicare postuma, Heidegger avrebbe detto: «Per me oggi una domanda decisiva è: come può adattarsi un sistema politico - e quale - all´età della tecnica? A questa domanda non so dare risposta. Non sono convinto che sia la democrazia».


Verrebbe quasi da rispondergli—con nonchalance e alla maniera di Winston Churchill—che la democrazia gli potrà anche fare specie, ma vuoi mettere tutti gli altri sistemi? Questo, però, è il meno, in sede filosofica. Il più è la poesia, la grande scoperta di Hölderlin:


Voll Verdienst, doch dichterisch wohnet
Der Mensch auf dieser Erde

(Pieno di merito, e tuttavia poeticamente
abita l’uomo su questa terra)

Basta questo a riscattarlo (almeno un po’)? Basta, come nel caso di Celan, la “parola-che-apre-e-nasconde, luce e segreto?” Per me sì, malgrado la Niemandrose, la “rosa di nessuno,” che saremmo noi:

SALMO

Nessuno c’impasta di nuovo, da terra e fango,
nessuno insuffla la vita alla nostra polvere.
Nessuno.

Che tu sia lodato, Nessuno.
È per amor tuo
che vogliamo fiorire.
Incontro a
te.

Noi un nulla
fummo, siamo, reste-
remo, fiorendo:
la rosa del Nulla,
la rosa di Nessuno.

Con lo stimma anima-chiara,
lo stame ciel-deserto,
la corona rossa
per la parola di porpora
che noi cantammo al di sopra,
ben al di sopra
della spina.

(Traduzione di G. Bevilacqua)

March 10, 2007

Chi è Angelo Bagnasco

Che fare se non si è dei vaticanisti dilettanti o degli aspiranti ecclesiologi e tuttavia si è desiderosi di sapere qualcosa di discretamente approfondito sul nuovo presidente della CEI, Angelo Bagnasco? Soprattutto, bisogna aggiungere, in questo momento, cioè nell’immediato dopo-Ruini, vale a dire dopo una presidenza “rivoluzionaria.”

La risposta penso sia abbastanza scontata, almeno per i frequentatori di questo blog: la cosa migliore è andare a leggersi cosa scrive Sandro Magister sul suo sito Web. Io l’ho fatto e mi basta e avanza. E con questo potrei chiudere il post: il link l’ho messo, andate in pace. Però c’è sempre qualcuno che è troppo impaziente e vuole qualche ragguaglio su due piedi (e l’articolo di Magister è lunghetto). Lo accontento subito: Bagnasco è praticamente la stessa cosa di Ruini, è “tosto” come lui, è filosofo come lui (è stato per un ventennio circa professore di metafisica e ateismo contemporaneo alla facoltà teologica dell’Italia settentrionale). Insomma: non cambierà assolutamente nulla.

Infine, un particolare non trascurabile del cursus honorum di Bagnasco: prima di diventare arcivescovo di Genova, sei mesi fa, è stato arcivescovo ordinario militare per l’Italia. Perché è importante questa tappa? Ricordate il memorabile “non fuggiremo” scandito dal cardinale Ruini durante i funerali delle vittime di Nassiriya? Ebene, il Nostro, racconta Sandro Magister, lo sottoscrisse immediatamente.

P.S.: Qualcuno non è sicurissimo di ricordare bene le parole di Ruini davanti alle bare dei caduti, avvolte nel tricolore? Eccole:
«Amare anche i nostri nemici: è questo il grande tesoro che non dobbiamo lasciar strappare dalle nostre coscienze e dai nostri cuori, nemmeno da parte di terroristi assassini. Non fuggiremo davanti a loro, anzi, li fronteggeremo con tutto il coraggio, l'energia e la determinazione di cui siamo capaci. Ma non li odieremo, anzi, non ci stancheremo di sforzarci di far loro capire che tutto l'impegno dell'Italia, compreso il suo coinvolgimento militare, è orientato a salvaguardare e a promuovere una convivenza umana in cui ci siano spazio e dignità per ogni popolo, cultura e religione.»

March 9, 2007

Penn e la sacralità del governo

William Penn fu il fondatore e colui che dette il nome allo Stato di Pennsylvania. Fu un quacchero che in un saggio del 1681, “The holy Experiment,” in cui diede norme e regole al popolo del nuovo stato, descrisse il governo come “parte della religione stessa, qualcosa che è sacro nella sua fondazione e nei suoi fini” e che ha come scopo supremo “mantenere il potere nel rispetto del popolo e assicurare il popolo dall’abuso del potere.”

Sul Foglio di oggi, un intellettuale radicale, Angiolo Bandinelli, gli rende omaggio. Ecco il testo integrale dell’articolo (lettura consigliatissima):



William Penn. Chi era costui? Quanti se lo chiederanno, come don Abbondio per Carneade? Non molti, crediamo. Si sa, l’Italia è un po’ un’isola, chiusa a quanto venga da fuori. Figurarsi poi se si tratta di un quacchero! E invece il quacchero William Penn fu un’eccezionale figura di leader religioso e di scrittore politico. E’ celebre per aver fondato e dato il nome allo Stato di Pennsylvania. Di lui so qualcosa perché ogni volta che sono a Londra alloggio in una pensione gestita dai suoi confratelli, “The Penn Club”, con una buona biblioteca sul loro movimento. Si trova tra Bloomsbury Square, il British Museum e le Courtauld Galleries. A due passi c’è il Russell Hotel, dove soggiornai nel 1962 quando partecipai, dietro a Marco Pannella, alla costituzione della prima Internazionale contro la guerra. All’incontro c’erano A. J. Muste, il leader nero (e omosessuale) che precedette Luther King, Grigori Lambrakis, il deputato greco ucciso dai colonnelli e che ispirò poi “Z”, il film di Costa-Gavras, e il reverendo Collins, Dean della cattedrale di St. Paul, la cui moglie si mostrò molto languida verso Marco. La pensione è frequentata da attempate vergini, da reverendi e pastori coi sandali francescani su calzini di lana grossa, da utopisti stravaganti e globetrotters solitari, tutti probabilmente sospettosi verso il sesso. Niente alcolici, ma la colazione di uova fritte, pancetta, pomodori e fagioli rossi, è ottima. Nell’atrio è in bella vista una splendida citazione di Penn, tratta dal saggio “The holy Experiment” (1681), che dà norme e regole al popolo del nuovo stato d’oltreatlantico: “Il governo è parte della religione stessa, qualcosa che è sacro (‘sacred’) nella sua fondazione e nei suoi fini”… “noi abbiamo concepito e composto al nostro meglio la cornice e le leggi di questo governo in vista di quello che è lo scopo supremo di ogni governo: mantenere il potere nel rispetto del popolo e assicurare il popolo dall’abuso del potere”. Da giovane, William Penn aveva più volte scontato il carcere per la sua infiammata predicazione di stampo “radicale” in difesa dei diritti civili e religiosi. Nel 1681 si trasferì in terra d’America, per fondarvi una società retta sui principi della benevolenza reciproca, che fosse “seme di una nazione”, di un popolo “libero, sobrio ed industrioso” governato dalle sue proprie leggi. Fu la Pennsylvania, con la capitale Philadelphia il cui nome grecizzante è un programma di radicalismo etico che direi prekantiano. Penn strinse con gli indiani del Delaware un memorabile trattato, nel quale i due contraenti erano alla pari. Suo è anche un altro famoso documento politico, le “Concessions and Agreements”, sorta di carta costituzionale per un gruppo di quaccheri che andava a stabilirsi nel New Jersey. Il documento prevedeva il diritto per ciascuno a essere giudicato da una giuria e a non essere imprigionato arbitrariamente per debiti, oltre a un editto contro la pena di morte. In quell’epoca oscura per le libertà, stabiliva che “nessun uomo ha potere o autorità sugli uomini per quanto concerne le materie di religione e le coscienze”. Il documento è stato definito “la prima chiara affermazione apparsa in America sulla supremazia della legge fondamentale, cioè dei ‘diritti universali’, sopra ogni possibile statuto o legge”. Ah, America, venusiana terra aperta agli utopisti, ai liberi e forti, Israele promessa ai pacifici, ai veri credenti e ai perseguitati dal potere, fuggi, fuggi via dall’Europa prona dinanzi al sanguinario Marte/Ares, padre di Deimo e Fobos, Paura e Terrore! In Europa, il secolo era cominciato con il rogo di Giordano Bruno; nel 1628 il cardinale Richelieu, onnipotente ministro di Luigi XIII di Francia, assediava e distruggeva La Rochelle, bastione degli ugonotti riformatori; nel 1649 il dittatore fondamentalista Cromwell faceva decapitare re Carlo I. In quegli stessi anni, i Papi condannavano i quietisti cattolici che tendevano a una forma di culto rispettosa della libertà interiore. Nel 1651 uscì il “Leviatano” di Hobbes, testo chiave dell’assolutismo statalista. Solo nel 1690 Locke avrebbe definito i diritti essenziali della tolleranza religiosa e politica.



Il Bene e il Male in diretta

Stasera in tv c’erano due Italie. Una buona e una cattiva (oggi sono manicheo e me ne vanto). Nel senso—tanto per non lasciare dubbi—che una era rappresentava il bene e l’altra il male. Una, quella cattiva, era in scena a Otto e mezzo, l’altra, quella buona, ad Anno zero. La prima—che ho visto per intero—discuteva sulla “rivoluzione” di Ruini, con Emanuele Severino, Rosi Bindi, Sandro Magister e Luigi Bobba. Una discussione di alto profilo, civile …, però che sofferenza, ragazzi, quei discorsoni seriosi!

La seconda discuteva di diritti dei gay, e poi non so di che altro, visto che dopo cinque o sei miniti ho lasciato perdere (poi spiego perché). Chi c’era? Mah, io ho fatto caso soltanto a due personaggi: uno era Clemente Mastella, l’altro non lo conosco se non per averlo intravisto qualche altra volta da Santoro, e al momento non mi ricordo come si chiama (ma forse alla fine mi verrà in mente). Dunque, Mastella esprime il suo parere (che è quello che è) sulla materia del contendere. A un certo punto, se non ricordo male su sollecitazione di Santoro, fa riferimento alla sua fede per argomentare la sua posizione sull’argomento oggetto del dibattito, e lo fa in maniera molto corretta, senza presunzione, con equilibrio, mettendo avanti la consapevolezza che la fede, pur se intensamente vissuta, è anche dubbio, umana fragilità e cose di questo genere. Insomma, ci siamo capiti, che rottura ‘sti cattolici!

L’altro personaggio, nel frattempo, tace, ma una telecamera assassina lo inquadra per qualche secondo: si copre la bocca con una mano, trattiene a stento le risate mentre gli occhi quasi fuoriescono dalle orbite per lo sforzo. Come se chi stava parlando in quel momento stesse raccontando una barzelletta oscena, o come se Veltroni stesse rievocando (naturalmente davanti alle telecamere e alle penne fameliche dei cronisti) una delle innumerevoli scene struggenti del suo ultimo viaggio in Africa e ne stesse ricavando, trattenendo a stento le lacrime, un prezioso insegnamento da trasfondere senza se e senza ma nella sua quotidiana ed instancabile azione politica. Un momento di grande televisione-verità.

Ah, che magnifica trasmissione, con quell’ intelligenza vagamente selvaggia, se mi si passa l’espressione e il quasi ossimoro, e quel gusto un po’ estremo per la provocazione (intellettuale, of course) che sprizzava da tutti i pori e perfino, appunto, fuori dagli occhi del personaggio semi-sconosciuto!

Insomma, ribadisco che ho visto in scena il Bene e il Male. Naturalmente, era più interessante il Male (come la Divina Commedia: volete mettere l’Inferno rispetto al Paradiso?). Comunque, se, come dicevo, dopo qualche minuto di quel concentrato di Bene ho spento il televisore, è stato solo ed esclusivamente perché all’improvviso ho avvertito dei problemi all’apparato digerente—sintomi inequivocabili che non nomino per educazione ... Succede, dopo cena, quando si è un po’ delicati.

Vabbè, l’ho detto. Dovevo dirlo, e ora sono soddisfatto. Che altro? Ah sì, or ora, rievocando lo spiacevole dopo-trasmissione, m’è venuto in mente il nome del personaggio (mi sarebbe dispiaciuto tacerlo): era un certo Travaglio, Travaglio Marco, e ora che ci penso devo essermi già occupato di lui in qualche altro post, nella categoria "uomini d'onore," alla quale appartiene di diritto anche questo modesto esercizio di stile.

March 7, 2007

Rifondaroli, elefanti e gazzelle

Un poscritto al post sulla “questione socialista.” Il Foglio pubblica una letterina piuttosto piccata di Peppino Caldarola, che se la prende con Antonio Polito per le dure critiche che l’ex drettore del Riformista aveva rivolto ieri, sempre sul Foglio, ai “rifondaroli socialisti.” Ecco la lettera e la risposta di Giuliano Ferrara:

Al direttore - Antonio Polito scrive sul suo giornale che non crede alla così detta Rifondazione socialista. Va bene. La descrive come un raduno di elefanti. Va bene. Se si guardasse attorno, dalle parti del futuro Pd, non troverebbe una gazzella. Se si guardasse allo specchio vedrebbe una bella proboscide. Alcuni di noi scrivono la propria biografia adattandola ai tempi. Io da vecchio elefante ho memoria. E ricordo che Polito è stato accesamente ingraiano, ferocemente bassoliniano, calorosamente napolitaniano, mediamente scalfariano, entusiasticamente blairiano, professionalmente velardiandalemiano, attualmente rutelliano. E non è finita qui. Incombe Capezzone. Auguri.
Peppino Caldarola, deputato Ds

[Risposta] Polito ce l’aveva con la cosa, e ha fatto notazioni personali per spiegarsi, lei ce l’ha con Polito, punto e basta. Fallo di reazione in seguito a provocazione. Polemismo. Passato il malumore personale, se ci spiegate Bertinoro, grazie. Da solo non si spiega.


Scaramucce personali a parte, e andando alla sostanza, come volevasi dimostrare.

Celtic Woman

Celtic Woman are four Irish female vocalists—Chloe, Lisa, Méav and Orla—and a terrific fiddle player—Mairead—who have created a wonderful musical experience. Since their March 2005 debut in the U.S. they have become one of the most popular Celtic music groups performing today. In their repertoire are contemporary hits (“Beyond the Sea,” “The Prayer,” “Scarborough Fair,” “Over the Rainbow”), classical favourites (“Lascia Ch’io Pianga,” “Vivaldi’s Rain”), and Irish standards (“Dúlaman,” “At the Ceili,” “Caledonia,” “Mo Ghile Mear”).

I must confess I was astonished when I first came across, a few months ago, this ensemble of beautiful, young women and angelic voices. It was indeed a very emotional discovery, and not only because Celtic music is one of my favourite musical genres (I am a long time lover of Enya’s music, for example). So I’ve got to thank Beth, at Blue Star Chronicles, for letting me know about this video, in which Celtic Woman is performing The Sky and the Dawn and the Sun in a live concert filmed at Slane Castle, the home of Lord Henry Mount Charles, in County Meath, Ireland (December 2, 2006). Enjoy the listening … and watching experience!