November 30, 2007

Quelli che il Dalai Lama ...

Linkare Macchianera (detto elegantemente) non è nella tradizione di questo blog, eppure è la seconda volta che succede nel giro di pochi giorni. Responsabile Filippo Facci. Stavolta una sfuriata contro quelli che della visita del Dalai Lama in Italia se ne infischiano altamente. Un bell’elenco di gente che, secondo Facci, dovrebbe vergognarsi. E persino con il buon senso di non mettere il Papa nel mazzo—ossia, di metterlo ma affrettandosi subito a spiegare che la sua posizione è un po’ più complicata: già, ci sono pur sempre “milioni di cattolici cinesi” che “rischiano persecuzioni ogni giorno” …

Interessante, in calce al post, l’elenco dei 285 firmatari dell’appello affinché il Dalai Lama sia ricevuto con tutti i crismi.

November 29, 2007

Autumn Song




Autumn Song

Know'st thou not at the fall of the leaf
How the heart feels a languid grief
. . .Laid on it for a covering,
. . .And how sleep seems a goodly thing
In autumn at the fall of the leaf.

And how the swift beat of the brain
Falters because it is in vain,
. . .In autunin at the fall of the leaf
. . .Knowest thou not? And how the chief
Of joys seems—not to suffer pain?

Knowst thou not at the fall of the leaf
How the soul feels like a dried sheaf
. . .Bound up at length for harvesting,
. . .And how death seems a comely thing
In autumn at the fall of the leaf?



Dante Gabriel Rossetti, Poetical Works, ed. William M. Rossetti (New York: Thomas Y. Crowell, 1886).

November 28, 2007

Ma cosa vuole Fini?

L’ho già scritto, e dunque non vorrei tediare il lettore. Ma che la migliore chiave interpretativa della politica (almeno di quella italica) sia letteraria me lo dimostra talmente spesso la realtà che vado male, davvero, a non ripetermi. Falliscono gli scienziati della politica, come Giovanni Sartori, quando si improvvisano (si fingono, come dice lui) “politici,” e centrano l’obiettivo i letterati—di un certo tipo, d'accordo (vedere due post fa). Cosa vorrà dire tutto questo? Bah, non chiedetelo a me: la risposta, purtroppo, non è alla mia portata. Né, onestamente, saprei suggerire chi potrebbe essere all'altezza, ed è un mio limite anche questo, sia ben chiaro. Epperò, per non lasciare il post in sospeso e, starei per dire, faute de mieux, una proposta "intermedia" ce l’avrei: si potrebbe interpellare l’autore di questo corsivo. Ma non aspettiamoci di riceverne risposte, bensì altre domande (molto sensate), il che non è solo meglio di niente, è una ragionevolissima aspettativa, un lampo nel buio. Ad esempio, appunto, una domanda come quella del corsivo: "Ma cosa vuole Fini?" Date una letta, e dopo ditemi se secondo voi esiste un approccio al problema che possa garantire esiti, per così dire, meno incerti.

Sartori, apprendista politico di qualità

Giovanni Sartori è uno scienziato della politica, ma questo non gli basta: si sforza di essere uno che di politica (quella “pratica, la politica «come veramente è»”) ci capisce. E cerca di darne prova. Come dargli torto, dal momento che la politica, secondo un’antica definizione, è piuttosto un’arte (la Politiké teche) che una scienza? Questa umiltà da vero scienziato, in verità, gli fa onore. Il guaio è che il suo legittimo desiderio di “completezza” non è supportato dalla pazienza che sarebbe necessaria per il conseguimento dell’obiettivo, nel senso che la consequenzialità dello scienziato—alla quale egli non può e non vuole rinunciare neanche per un secondo—gli fa perdere di vista alcuni risvolti interessanti dell’oggetto della sua ricerca. E il risultato ne viene inevitabilmente a soffrire.

Sul Corriere di oggi, dunque, l’illustre politologo ha deciso di “travestirsi da politico,” e in questa veste prende in esame questo particolare momento politico e si spende in alcuni suggerimenti ai leaders delle varie forze in campo. Innanzitutto, ecco come riassume la situazione:



Il momento è eccitante: in questo momento tutto è in movimento. Berlusconi che fa sparire, con la sua bacchetta magica, Forza Italia e il connesso Polo delle libertà; Fini e Casini che in autodifesa sono costretti a «rompere» con Berlusconi; la collusione (che comincia a essere documentata) Rai-Mediaset che costringe Prodi a tirare fuori dal cassetto le riforme sulla tv predisposte dal ministro Gentiloni; e Veltroni che si deve destreggiare su tre fronti: la riforma elettorale (e connessi) con il Cavaliere, il salvataggio del governo Prodi, e la patata bollente della questione tv (che torna a far esplodere il problema del conflitto di interessi).

A questo punto il professore si immedesima, a turno, con i principali attori ed esprime le sue convinzioni su ciò che andrebbe fatto. Ed ecco il ragionamento che farebbe se fosse al posto di Fini e Casini (tralascio le altre “immedesimazioni,” che mi sembrano meno significative):


Per non essere costretti a tornare all'ovile ancor più in sudditanza di prima, Fini si deve rapidamente scordare del referendum Guzzetta- Segni e appoggiare un sistema elettorale (come quello tedesco preferito dal suo nuovo alleato Casini) che gli consenta di andare tranquillamente da solo alle prossime elezioni. Inoltre Fini e Casini hanno bisogno, per sopravvivere, di indebolire il peso televisivo del loro nuovo nemico.


Purtroppo, però, si lamenta Sartori, “Casini si è affrettato a dire no a qualsiasi «legge punitiva » contro Mediaset, riecheggiato da An.” Questo proprio non va bene, osserva il professore, anzi! Ed ecco che “l’apprendista politico” si ri-trasforma rapidamente nel professore che conosciamo bene: “Bravi davvero. Sarebbero questi i politici che davvero si intendono di politica?”

Ebbene, nessun problema, direi, sulla convenienza, per i due, del sistema tedesco. E’ sulla questione Mediaset che il ragionamento vacilla. Lasciamo perdere se sia giusto o sbagliato, in sé e per sé, colpire Mediaset e guardiamo, appunto, all’utile delle due formazioni politiche. Vediamo, allora, che senza dubbio potrebbe far comodo ai due competitors di Berlusconi all’interno del centrodestra una minore potenza mediatica del Cavaliere. Ma da quell’indebolimento non deriverebbero anche conseguenze negative per l’intero schieramento, visto che ad avvantaggiarsene sarebbe soprattutto il centrosinistra? Non solo: sotto il profilo della credibilità di quelle due forze politiche nei confronti del loro elettorato, non avrebbe forse una ricaduta alquanto pesante un voltafaccia—perché di questo, è chiaro, si tratterebbe—così repentino e sospetto?

O forse Sartori ritiene che l’elettore medio di Fini e Casini sia un minus habens e/o che sia sprovvisto del benché minimo senso morale? Dal momento che quell’inversione di rotta sarebbe due volte riprovevole: perché avrebbe palesemente il sapore di una vendetta piuttosto meschina e, soprattutto, perché rappresenterebbe la prova provata che in precedenza, per anni e anni, la gente è stata deliberatamente ingannata. Chi non si indignerebbe a quel punto? E quale altra spiegazione avrebbe, a parte la frode elettorale, appunto, l’aver risolutamente negato per anni ciò di cui oggi finalmente si prende atto, cioè che l’accanimento anti-Mediaset delle sinistre era motivato e che un conflitto di interessi veramente inaccettabile per la democrazia c’era eccome?

Ma non credo che Sartori la pensi in quel modo. E’ vero che spesso ha l’aria di sottovalutare il prossimo in generale, ma quello è più un tratto caratteriale, un’apparenza. Ad ogni buon conto, quando il professore dice che “la politica «come veramente è»,” in definitiva, non fa per lui, non viene voglia di contraddirlo. Meglio—per lui e per tutti gli inguaribili “impolitici”—la politica «come dovrebbe essere» (secondo i professori), e che Machiavelli vada a farsi benedire ...

November 26, 2007

Lunga vita al Cavaliere

Non c’è niente da fare: la migliore chiave interpretativa della politica è letteraria—ed è già tanto che non si dica che la politica, in fondo, è pura poesia …, sulla qual cosa, tuttavia, sarebbe plausibile formulare qualche seria ipotesi di lavoro, qualora non volessimo farci mancare proprio nulla nel nostro eterno vagare alla ricerca di un senso in quella foresta di simboli che, appunto, è la politica.

Ehi, non pensate che, a forza di scervellarmi sulle ben note vicende, mi sia spinto troppo in là, oltre le Colonne d’Ercole della cara, vecchia razionalità cartesiana delle idee chiare e distinte, e mi stia addentrando sconsideratamente tra flutti perigliosi, avvolti da fitte nebbie imperscrutabili. No, non è questo il caso. E’ che ho appena finito di leggere quello che ha scritto oggi Adriano Sofri su Repubblica, e come al solito non ne sono uscito indenne. Né, per l’ennesima volta, mi azzarderò a sintetizzare o riassumere per sommi capi il suo pensiero, perché inevitabilmente lo banalizzerei.

Dico solo che Sofri si è occupato del Berlusconi resuscitato, o meglio di coloro che aspiravano a succedergli—novelli Bruti (e Cassii) alle prese con un Cesare un filo più accorto e diffidente—e delle cose che sono andate come sono andate. Un groviglio di calcoli anagrafici (che portano bene, assicura Sofri) e di scongiuri, con tanto di gufi un po’ grotteschi e molto, molto maldestri (e non saprei se pure un po’ rimbambiti). E poi altre storie parallele, tipo l'ordine di aprire il fuoco sul quartier generale impartito da Mao nel 1966, quello che scatenò la Rivoluzione Culturale. E poi ancora “la svelta adesione” di Daniele Capezzone—che di successioni mancate era fino a qualche giorno fa il massimo esperto in circolazione—“al Partito del Popolo pur mo' nato,” e l’astuto Giuliano Ferrara, che “non esclude nessuna frec­cia dal proprio arco, e a suo modo ha fatto molto per il Par­tito Democratico, e fa moltis­simo per il Partito del Popolo.”

Insomma, ottima letteratura, IMHO, di una classe cristallina di cui, oramai, solo la vecchia guardia sembra dotata—se Sofri non si offende per l’espressione affettuosamente “anagrafica,” epperò, mi pare, adeguata al contesto. La chiusa è degna di tutto il resto:
Vien quasi da dire che c'è una provvidenza. La meschi­nità di centrosinistra oscurava il vuoto pneumatico del centrodestra, tenuto assieme da due attese, quella melodram­matica della caduta di Prodi, e quella intrigante della giubilazione di Berlusconi. Prodi può sempre cadere, restano fior di professionisti dello sgambet­to: ma anche se succedesse, ora, la giubilazione politica di Berlusconi nel centrodestra è aggiornata a data da destinar­si.
[Leggi il resto]

E come evitare di aggiungere, per il bene di tutti, l’augurio che l’attesa abbia a essere molto, molto lunga, e soprattutto paziente? Questione di stile, oltretutto: forza, Cavaliere, fagliela vedere a quei gufi malefici!

November 25, 2007

I have a dream

Improvvidamente chiamato in causa, provocato e tirato per la giacchetta da una simpatica Perla Scandinava—già, fin dalla lontana Norvegia si è scomodata colei ...—che a sua volta era stata tirata in ballo (e come si sa, a nessuno piace essere lasciato con il cerino in mano), eccomi qua, pronto a pagare il mio tributo al giochino del momento. Solo mi astengo dall’estendere, per mancanza di tempo, ché sarebbe un’impresa scovare qualcuno che non faccia purtroppo presagire qualche subdola vendetta …

Il mio governo impossibile:

> Presidente del Consiglio dei Ministri: Giulio Tremonti
> Ministro dell'Interno: Francesco Cossiga (con vent’anni di meno)
> Ministro degli Esteri: Franco Frattini
> Ministro della Difesa: Antonio Martino
> Ministro della Giustizia: Alfredo Biondi
> Ministro dell'Economia: Mario Draghi
> Ministro delle Attività produttive: Pierluigi Bersani
> Ministro del Lavoro: Roberto Maroni
> Ministro della Salute: Roberto Formigoni
> Ministero dell'Istruzione, Università e Ricerca: Dario Antiseri
> Ministro delle Infrastrutture e Trasporti: Giorgio La Malfa
> Ministro delle Comunicazioni: Pietro Lunardi
> Ministro dell'Ambiente e Tutela del Territorio e del Mare: Ermete Realacci
> Ministro per le Politiche Comunitarie e Commercio Estero: Michela V. Brambilla
> Ministro per le Politiche Agricole, Alimentari e Forestali: Altero Matteoli
> Ministro dei Beni e Attività Culturali, Turismo e Spettacolo: Vittorio Sgarbi
> Ministro della Funzione Pubblica: Benedetto della Vedova
> Ministro per le Riforme Istituzionali: Giovanni Sartori
> Ministro per le Pari Opportunità: Stefania Prestigiacomo
> Ministro per lo Sport e le Politiche Giovanili: Carlo Giovanardi

Tartufi (e altri tuberi) del giornalismo

Filippo Facci e Mario Cervi, chiamati in causa da Francesco Merlo nell’articolo di cui ad un mio precedente post affinché esprimessero il loro parere sui “tartufi del giornalismo,” hanno risposto alla chiamata sul Giornale di ieri. Facci ha messo insieme il tutto (lui, Cervi e Merlo) su Macchinera. Mi pare che valga la pena di dare un’occhiata. Cervi ricorda i «formidabili» anni in cui
[i]l giornalismo si avviava verso una omologazione ferrea, tutti i maggiori quotidiani scrivevano le stesse cose con titoli suppergiù uguali e i comitati di redazione - appartenenti in toto allo schieramento di sinistra - pretendevano di imporre un’unica linea all’intera stampa italiana. Per questo Montanelli - che fu osannato come esponente d’un liberalismo colto, risorgimentale aristocratico dopo che ebbe litigato con Berlusconi, ma che prima era bollato come fascista - volle dare una voce ai senza voce, all’esecrata maggioranza silenziosa. Lo fece fondando questo giornale [Il Giornale, appunto].

Facci, invece, tra molte altre interessanti considerazioni, ricorda che “non è solo questione di rapporti tra giornalismo e politica, ma tra giornalismo e potere,” il che mi sembra particolarmente corrispondente alla realtà dei fatti, oltre che perfidamente appropriato alla testata da cui, volente o nolente, proviene la chiamata in causa da parte dell'ottimo Merlo. Sentite qua:
Scrivere un articolo contro Prodi o Berlusconi, oggi, è facilissimo: il cretinismo bipolare offre ripari confortevoli. Il problema è scriverlo contro un'industria di moda, una marca di automobili o di acqua minerale, un grande gruppo farmaceutico o telefonico, colossi che il giornalismo statunitense seziona da almeno trent'anni mentre noi seguitiamo a pensare che la vita passi attraverso le crostate che i politici si cucinano a vicenda. C'è un mondo, là fuori.

Personalmente resto del parere che il mosaico sia ricostruibile mettendo insieme innanzitutto Merlo e Guzzanti. Certo, a questo punto, aggiungerei anche Facci e Cervi. Se qualcuno ha voglia di operare la grande sintesi si accomodi. Sarebbe una fatica meritoria, per niente impossibile. Solo una questione di pazienza (e di stomaco, vabbè).

Caduto nell'adempimento del dovere

Forse è morto da eroe, o forse è stato solo il fato. Quel che è certo è che è caduto nell’adempimento del dovere, nell’ambito di una missione militare che poi—in molti ne siamo convinti—è in realtà una missione di civiltà. Il suo comandante di unità a Piacenza, Mario Tarantino, dice che «era un bravo meccanico». Ma dopo un attimo aggiunge: «Non era uno che si tirava indietro». Di bravi meccanici c’è bisogno, come c’è bisogno di gente che sappia fare bene il proprio lavoro in qualsiasi campo, ambiente, circostanza. E lui, il maresciallo capo Daniele Paladini, era davvero bravo, come ricorda il colonnello Alfredo De Fonzo, comandante del contingente a Kabul: «Era un ragazzo in gambissima. Quel ponte l’aveva smontato, rimesso a posto e ridipinto lui». Già, quel maledetto-benedetto ponte. Ma c’è bisogno anche di gente «che non si tira indietro». E ce n'è, appunto. Stiamo parlando, naturalmente, di quell’altra Italia, che convive con quella delle cronache di queste settimane o di queste ore. Grazie, maresciallo Daniele Paladini.

November 24, 2007

Diamo voce al Dalai Lama (updated)

Il Dalai Lama sarà in Italia nel prossimo dicembre, e, come è ovvio attendersi, le autorità di Pechino chiederanno alle istituzioni italiane di trattarlo da ospite non gradito. In questo, suoneranno persuasive la ritorsioni annunciate dalla Repubblica Popolare di Cina nei confronti di Germania e Stati Uniti, i cui capi di governo hanno avuto la “sfrontatezza” di incontrare il Dalai Lama. Un paese, come l’Italia, che ha guardato con preoccupazione e simpatia alla protesta nonviolenta dei monaci buddisti birmani, repressa nel sangue dalla giunta militare di Rangoon, deve operare per impedire l’isolamento internazionale del Dalai Lama e la sua emarginazione civile e politica… Chiediamo dunque che la Camera dei deputati ospiti, in seduta plenaria, la persona e la “voce” del Dalai Lama, sicuri che, come sempre, le sue parole saranno nel segno di libertà, pace, nonviolenza e riconciliazione.

Sua Santità Tenzin Giatso, il XIV  Dalai Lama del TibetDalla lettera-appello al Presidente della Camera in vista dell’arrivo in Italia del Dalai Lama, previsto per la metà di dicembre. L’iniziativa è partita dal Presidente dei Riformatori Liberali, Benedetto Della Vedova, ed è stata fatta propria da 165 deputati che hanno sottoscritto il testo.

Dal suo blog, il giornalista dell’Espresso Alessandro Gilioli sposa l’opinione fortemente critica dello scrittore tibetano Jamyang Norbu—che da decenni vive tra l’India e gli Stati Uniti—nei confronti della nonviolenta Middle Way («Via di Mezzo») seguita dal Dalai Lama nei rapporti con la Cina. Gli risponde Della Vedova con questo commento:

Comprendo la delusione per quanto accaduto fino ad oggi in Tibet (io ci sono stato nel ‘93 e posso immaginare come sia oggi), ma, mi chiedo, quale alternativa alla strategia del Dalai Lama c’era? Cosa potevano fare lui ed il suo popolo nei confronti della Cina se perfino nelle democrazie occidentali c’è il terrore di incontrarlo per non urtare Pechino?


Condivido la difesa di Della Vedova, ma sono meno incline di lui a “comprendere” le ragioni di chi critica il Dalai Lama. E non perché ritenga in assoluto preferibile la via della nonviolenza, e men che meno perché consideri Sua Santità infallibile, quanto in base a ciò che mi suggerisce il semplice buon senso. Stiamo parlando, infatti, di un piccolo popolo che ha la sfortuna di doversela vedere con un gigante come la Repubblica Popolare Cinese, vale a dire con un regime tra i più sordi, pervicaci e disumani che la storia abbia mai conosciuto.

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UPDATE Nov. 25, 2007 - 11:40 am

1) Il post ha avuto interessanti sviluppi nei commenti (intervento di Enzo Reale e mia rispsta).

2) Corriere della Sera. Bertinotti dice no (e Della Vedova protesta):

Fausto Bertinotti non concederà l'Aula di Montecitorio per la visita del Dalai Lama a Roma. «Nell'emiciclo si svolgono solo lavori parlamentari, non celebrazioni», spiegano i suoi collaboratori e infatti l'unica eccezione che ha fatto il presidente della Camera è stata quella di ospitare i presidenti dei Parlamenti stranieri: «Si potrà organizzare un incontro nella Sala Gialla, con tutti gli onori». Ma non sarebbe la stessa cosa. Romano Prodi è orientato a non ricevere la guida spirituale tibetana. E così Massimo D'Alema: anche se questo non esclude, spiegano alla Farnesina, che ci siano incontri con ministri, come avvenne durante la sua visita l'anno scorso. L'arrivo del premio Nobel per la pace Tenzin Gyatzo, in Italia ai primi di dicembre, ha già creato un mezzo incidente diplomatico con la Cina (con proteste preventive dell'ambasciatore di Pechino), ma rischia ora di creare un vero e proprio caso politico.

[...]

«Non si può abdicare ai diritti umani in nome degli affari — insiste Della Vedova —. Perché ci sono tre Paesi del G8, Stati Uniti, Canada e Germania, che hanno avuto il coraggio di ricevere il Dalai Lama e invece noi non vogliamo fare dispiacere a Pechino». Il perché è nelle notizie che arrivano dalla Cina sui ricatti e gli affari perduti dalle aziende tedesche e americane. Il caso diplomatico è dunque chiuso, a meno che i due partiti, quello più realista che non vuole sfidare la Cina e quello che vuol fare della visita del Dalai Lama una vetrina per la battaglia per i diritti umani, non costringeranno a riaprire i giochi.

November 23, 2007

Quei moralisti stagionali dell'informazione (updated)

Torno sulla questione delle sospette collusioni Rai-Mediaset per segnalare due magnifici interventi che, pur animati da intenti diversi, concorrono a mettere in luce un’identica realtà, quella del giornalismo italiano, che obiettivamente risulta abbastanza penosa. I due contributi, in altre parole, si integrano e si completano a vicenda, al di là delle intenzioni degli estensori.

Nel primo, Paolo Guzzanti, sul Giornale (l'articolo può essere letto anche qui), racconta ciò di cui è stato testimone diretto per anni, a La Stampa, e a farne le spese sono l’allora direttore del giornale Ezio Mauro, che oggi dirige la Repubblica, Walter Veltroni, che al tempo era il direttore dell’Unità, più il direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli e, a turno, i vari vicedirettori de la Repubblica. Un quadro, a dir poco, imbarazzante. Tutto da leggere, un documento da conservare.

Nel secondo, Francesco Merlo, su Repubblica, rivolge i suoi strali non contro “il conflitto di interessi” o “la miseria della politica che in queste intercettazioni vengono esposte,” ma contro “la professione,” contro il giornalismo. “Non è questione di indignazioni pelose,” spiega Merlo, o “dei moralisti stagionali che condannano nell’altrui campo quel che elogiano nel proprio.” Anzi,

sospettiamo che vituperabili e deplorevoli pratiche siano, con dosaggi diversi, bipartisan.
[…]
Di più: sospetto che questi prendano ordine senza che ci sia qualcuno che li comandi. Ancora più zelanti,incarnano una straordinaria maschera italiana: il servo disinteressato.

E questo lo porta fatalmente a riconoscere che “c’è (…) una miserabile censura che cerca il capro espiatorio per verginizzarsi, che si erge a campione del buon gusto e dell’etica.” Di chi sta parlando? Beh, nientemeno che dell’Ordine dei giornalisti.

Dopodiché Merlo torna a rivestire i panni dell’uomo di parte e assesta qualche colpo agli intercettati. Ma ormai quel che ha scritto ha scritto … Da non perdere.

Alla fine, come si diceva, messi assieme con un minimo di scrupolo i vari tasselli forniti da due formidabili testimoni, vedrete che il mosaico avrà preso forma.

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UPDATE Nov. 25, 2007 - 4:45 PM

Ci sono stati sviluppi interessanti. Troppo per un aggiornamento, ma sufficienti per un nuovo post.

November 22, 2007

Sì, è proprio la RAI

Quando qualcuno dice o scrive le cose che, in linea di massima, avresti detto o scritto tu, perché fare doppioni? Beh, sulla faccenda delle ipotizzate collusioni fra Rai e Mediaset, quel che si legge qui e qui mi sembra corrispondere ad uno standard accettabile di chiarezza e verosimiglianza.

All that country music

La musica, dice monsignor Ravasi sul “Mattutino” di oggi, può essere “sia uno strumento di esaltazione interiore, di luce e di liberazione, ma anche di esasperazione, di inasprimento, di sofferenza, di svelamento del vuoto che è in noi.” Come sempre, ha ragione il monsignore. Personalmente ho elaborato qualche strategia difensiva: certa musica, per me, semplicemente non esiste. Includo, però, anche un sacco di roba che sta in mezzo, cioè tra i due estremi evocati da Ravasi. Il resto è un’altra storia: amo la «mia» musica come poche altre cose. La ascolto poco, è vero, ma quando lo faccio è sempre una bella esperienza.

Navigando per la blogosfera, e precisamente gettando le ancore sul blog di Cherry, col quale c’è da tempo uno scambio di links, ho scoperto che uno può mettere sul suo sito la propria playlist! Mi sembra una trovata grandiosa, di quelle che mi fanno entusiasmare per la tecnologia. Posso ascoltare quel che più mi piace mentre leggo, scrivo e curioso, ma soprattutto lo posso condividere “in tempo reale,” facendo sapere che razza di gusti musicali ho. Ho appena cominciato, e nella playlist (vedere colonna di destra, in basso) ci sono meno di una trentina di pezzi. Altri presto arriveranno. Dopodiché, una volta scoperte le carte, a qualcuno cadranno le braccia, a qualcun altro non potrà importare di meno. Ma state pur certi che io, comunque, della «mia» musica vado piuttosto orgoglioso ...

Pensato, scritto e sottoscritto nel giorno in cui, sul calendario cristiano, si ricorda Santa Cecilia, patrona della musica.

November 21, 2007

Se i Gracchi furono populisti

Un’occhiata, non di più, alla stampa e alla blogosfera, ieri (giornata piena, anzi strapiena), ma quanto basta per toccare con mano quanto la svolta del Cavaliere abbia sconvolto, gettato nel caos, lasciato secchi o storditi.

Ma soprattutto è stato istruttivo il dialogo con le numerose persone in carne ed ossa che ho incontrato e con cui ho potuto scambiare due chiacchiere al volo tra un impegno e l’altro. Anche perché, in questi casi, le reazioni sono state un po’ diverse: autentico entusiasmo nei colleghi e conoscenti di centrodestra ed una curiosità senza falsi pudori in quelli di centrosinistra. Uno di sinistra mi ha confidato—guardandosi prima attorno con circospezione—di aver vivamente apprezzato il colpo mortale inferto da Berlusconi … alla noia (“non se ne può più di questa politica …”).

Tuttavia non sfrutterò i pur sacrosanti sfoghi esistenziali dell'«uomo della strada» per avvalorare quanto ho espresso nel post precedente. Anche perché ho sottomano, se non di meglio, qualcosa di più convincente dal punto di vista della tradizionale dialettica politica, vale a dire la serrata confutazione degli argomenti anti-Berlusconi (è populista e plebiscitario, un demagogo, un cortocircuito temibile, una minaccia, e così via) dell’ottimo Oscar Giannino, su Libero. Ne riporto qualche stralcio.

Populismo

Quanto a populismo, se un difetto storico noi sparuti liberisti imputiamo a Silvio, è proprio di non essersi mai fatto davvero un Pierre Poujade, il cartolaio di Saint-Cére che nel 1953 scosse la Francia dalle fondamenta contro le tasse. Eh no, cari dissenzienti, il populismo vero è di chi pro­mette a destra e manca pur di tenersi avvinghiato al potere, e da questo punto di vista esso abita a palazzo Chigi, con Prodi. 12,3 miliardi di spesa pubblica aggiuntiva che si sono sommati alla Fi­nanziaria in Senato, pur di far contenti tutti da Lamberto Dini a Franco Giordano, ne sono la più plateale conferma.

Sul principio carismatico e plebiscitario

Se malgrado 13 anni di maggioritario le coalizioni restano eterogenee fino all'impossibilità di governare - come si è visto sotto la destra come sotto la sinistra - tan­to vale abbracciare un proporzionale corretto da soglie ma con ciascuno che corra per il proprio programma e con alleati più coesi. E l'esatto con­trario del principio carismatico e plebiscitario.

Inoltre,

quanto all'appello direttamente ai cittadini per iscriversi al nuovo Partito della libertà, anche qui cerchiamo di intenderci. Rispetto alla regola co­stituzionale per la quale i partiti sono libere asso­ciazioni attraverso le quali i cittadini concorrono a determinare la politica nazionale, il meccani­smo scelto da Silvio è meno rispettoso di quello che ha presieduto alla nascita del Pd, con la desi-gnazione a tavolino di un leader da parte di un'oli­garchia, e la spartizione matematica tra le due nomenklature dei Ds e della Margherita delle lea­dership e delle composizioni dei nuovi organi co­stituenti? No. È la nascita del Pd a peccare di oligarchismo, visto che non sono stati certo i votanti delle primarie a determinare l'indicazione di Veltroni e i candidati alle segreterie regionali.

Per concludere:

A dar fastidio, di Silvio, è il consenso di cui gode nel popolo, necessario lievi­to per fare del partito delle Libertà l'equivalente dell'Ump francese. A risultare insopportabile è la sua capacità di parlare direttamente agli italiani. Come Bonaparte ai suoi grognards, aggirando la mediazione di maggiori e colonnelli. Troppa let­teratura? Ma senza miti letterari la democrazia non vive. Né Pericle né Alcibiade erano uomini privi di ambizioni. La loro forza era saper parlare al cuore e al portafoglio dei concittadini. E li accu­savano per questo di populismo, appunto. Esattamente come gli oligarchi senatori di Roma fa­cevano coi Gracchi. Dare all'avversario del populista, di solito, è un'ammissione della propria minor capacità di aver consenso.

Oltretutto, aggiungerei, risultano sempre più insopportabili quei teorici della bella politica i quali, contravvenendo ai loro stessi canoni di comportamento, sbandierati ai quattro venti ad ogni piè sospinto, spesso riescono solo a formulare accuse pretestuose—quando non si abbandonano senz'altro all’insulto più o meno esplicito—nei confronti del loro più agguerrito e dotato avversario politico. Se non bastassero gli argomenti più strettamente politici, che non fanno certo difetto, un simile malcostume, volgarmente camuffato da politica (e per giunta con la «P» maiuscola), potebbe meritare anche da solo, come doverosa risposta «civica», la spontanea mobilitazione dei cittadini intorno al progetto del nuovo partito dei liberali italiani.

November 19, 2007

Grazie, Cavaliere

Povero Berlusconi, abbandonato da tutti, aveva scritto ieri l’ineffabile Jena su La Stampa. Oggettivo, indubbiamente, ma soprattutto nella conclusione beffarda: “Con lui non è rimasto più nessuno, un pugno di fedelissimi e circa dieci milioni di italiani.” Il dato, infatti, al di là dei balletti, è stato sempre e soltanto questo. Fini e Casini, politici molto sottili e di lungo corso, questo dato non sembravano averlo colto, tutti presi dai riti e dai colpi di scena fasulli del teatrino della politica, e così il Cavaliere ha fornito loro, su un piatto d’argento, uno di quei coupes de théâtre nei quali di solito si appalesa la dura «realtà effettuale della cosa».

Gli stolti e petulanti “parrucconi,” insomma, non avevano capito nulla? Non direi. Capito, cioè, avevano capito, ma a modo loro, come è stato insegnato loro dall’Alta Scuola di Politica della Prima Repubblica, che hanno entrambi frequentato con profitto e dalla quale hanno imparato tutto quello che sanno fare, dire, pensare. E, attenzione, quella non era una pessima scuola, però aveva un limite: conosceva soltanto una realtà politica cristallizzata, immobile, dove il «potere di coalizione» delle forze politiche minori era fermo e saldo come una rocca di Gibilterra contro la quale erano destinati ad infrangersi tutti i calcoli dei partiti maggiori.

“Senza di noi, Berlusconi non può fare niente,” erano soliti ripetere i Fini e i Casini. Era vero, anche allora, soprattutto l’inverso, ma non avevano torto nemmeno loro, sic rebus stantibus, ma si dà il caso, appunto, che le cose siano nel frattempo cambiate: con la crisi irreversibile del bipolarismo—che era sotto gli occhi di tutti anche prima che il Cavaliere, con la svolta di ieri, ne ratificasse ufficialmente la fine—il «potere di coalizione» non ha smesso di contare, ma è destinato a contare molto meno. Sia col sistema tedesco e succedanei, sia con quello francese, che sono le due ipotesi fondamentali (il motivo, lo sappiamo, è che la “contrattazione” avviene dopo e non prima del voto, come adesso).

In più i nostri eroi hanno sottovalutato la capacità del loro alleato-avversario di sparigliare, e questo grazie al fatto che egli ha “una caratteristica forse unica nel panorama della politica italiana,” per dirla come Gian Antonio Stella (sul Corriere di oggi), cioè “il coraggio spericolato di giocarsela.” Insomma, spiega Stella,

Gianfranco Fini, Pier Ferdinando Casini e perfino Umberto Bossi, dopo l’ennesima spallata annunciata e poi fallita al Senato, sembravano avergli rubato finalmente la palla? Lui se l’è ripresa di forza, è uscito dall’area in cui pareva asserragliato e si è catapultato all’attacco con una di quelle «ripartenze» da lasciare a bocca aperta anche il «suo» Arrigo Sacchi.

Ma un errore ancora più madornale è stato quello di ignorare che, come ha notato Angelo Panebianco (ancora sul Corriere di oggi),

Berlusconi non potrebbe mai sedersi a un tavolo a discutere con Prodi ancora premier. Per la stessa ragione per cui Prodi non poteva trattare con Berlusconi quando il premier era quest'ultimo. I suoi sostenitori nel Paese non lo avrebbero accettato. Non lo accetterebbero oggi i sostenitori di Berlusconi.

Come spiegarsi un errore del genere se non alla luce di quanto si diceva pocanzi, e cioè, da una parte, la sopravvalutazione del «potere di coalizione» (fino ad una negazione piuttosto ingenerosa, oltre che miope, delle ragioni dell’alleato) e, dall’altra, la sottovalutazione del Cavaliere?

Ancora Panebianco illustra come non si dovrebbe interpretare la fase che ha preceduto la mossa di Berlusconi:

All'apparenza, il suo è stato fin qui un comportamento irrazionale. Garantendo che avrebbe fatto cadere il governo sulla Finanziaria, Berlusconi si è comportato come quel tale che entra in un casinò e si gioca l'intera posta in un colpo solo, puntando tutto sul rosso o sul nero alla roulette. Ma è davvero così? Non è possibile che anche quella iniziativa fallita fosse parte di un più generale disegno teso a mettere i suoi riottosi alleati in un vicolo cieco, obbligandoli a confrontarsi col fatto che senza di lui non possono andare da nessuna parte?
[Il corsivo è mio]

Personalmente sarei del parere che l’ipotesi di Panebianco sia piuttosto realistica, oltre che, naturalmente, molto acuta. Sarebbe allora esagerato concludere che il Cavaliere si è rivelato molto più «fine politico» dei suoi riottosi e politicissimi alleati? Altro che tentazioni plebiscitarie, come insinua Fini—che ovviamente, lui sì, è un vero democratico con tutti i crismi e le carte in regola ...

Detto questo, però, siamo solo al principio. Un buon principio, in ogni caso: siamo, intanto, fuori dal bipolarismo, e questa, diciamolo, è una grande conquista—a proposito, grazie Cavaliere!—per chi non ha mai creduto che in un Paese come l’Italia le scelte potessero essere così drastiche come è giusto che siano per gente che ha il pragmatismo nel proprio dna, come gli anglo-sassoni. Ma ora inizia una fase costituente per i liberali italiani. Il nuovo partito non può deludere le attese che la svolta del Cavaliere ha suscitato.

November 18, 2007

Povero Berlusconi

Inarrivabile Jena ...

Sconfitto e abbandonato dai suoi alleati, ormai Berlusconi è un uomo solo. Con lui non è rimasto più nessuno, un pugno di fedelissimi e circa dieci milioni di italiani.

November 16, 2007

Di sillogismo in sillogismo

Stasera a Otto e mezzo Lamberto Dini ha riferito che D’Alema avrebbe detto, più o meno, che l’errore è stato quello di non aver dato vita, fin dall’inizio della legislatura, a una grande coalizione. Un’opinione super-condivisibile che fa onore all’intelligenza del ministro degli Esteri, ma che giunge alquanto tardiva. Nella stessa sede Dini ha detto che

«se dovesse esserci una crisi di governo, l’ipotesi più naturale sarebbe quella di un governo istituzionale e penso che il presidente del Senato sarebbe la prima persona a cui il presidente della Repubblica dovrebbe pensare».

Per la verità, però, Giuliano Ferrara gli aveva chiesto se un governo Marini fosse il suo auspicio, al che Dini ha spiegato che quella, molto semplicemente, sarebbe la prima ipotesi che verrebbe in mente a Napolitano. Maurizio Belpietro, ospite anche lui della trasmissione, ha a quel punto fatto presente che anche un’ipotesi Dini rientrerebbe nel novero delle possibilità. Dini, per parte sua, non ha respinto al mittente la deduzione. Il che mi sembra quanto meno non insignificante.

L’altro ospite di Ferrara era il professor Sartori, il quale ha detto molte cose, la più interessante delle quali a me è sembrata essere la constatazione che l’attaccamento al potere di Romano Prodi va oltre qualsiasi immaginazione. Tra lui e D’Alema direi che c’è una bella gara di buon senso postumo, segno che il tempo è pur sempre galantuomo. Ma Sartori sulla Große Koalition ha stracciato D’Alema, avendola prospettata fin dall’inizio. Come del resto Silvio Berlusconi. A questo punto uno potrebbe ritenersi autorizzato a concludere che il più debole della compagnia sia il ministro degli Esteri, che tuttavia è ritenuto—non a torto, credo—una delle menti più lucide della sinistra riformista.

Adesso, però, ci fermiamo, ché altrimenti, di deduzione in deduzione, di sillogismo in sillogismo, va a finire che ...

Stateci attenti, bloggers ...

Diffamazione a mezzo stampa uguale diffamazione via internet. Così Carlo Felice Dalla Pasqua, giornalista-blogger, corregge—almeno a prima vista—un vero esperto come Tomaso Pisapia, che la cosa l’aveva spiegata a Luca Sofri in maniera un po’ diversa—e quest’ultimo, a sua volta, ne aveva incolpevolmente riferito nel suo “blog di piccola umanità.” Ma l’esperto è intervenuto di nuovo per puntualizzare che certe sintesi non gli hanno evidentemente giovato, e che l’essere egli—de facto, si direbbe, oltre che, si può supporre, de jure—d’accordo con Carlo Felice

nel ritenere che “la diffamazione via internet è punita allo stesso modo di quella a mezzo stampa”, se si fa riferimento all'entità della pena,

ancorché non fosse il tema del colloquio con Sofri (cosa di cui prendiamo atto volentieri),

è ben diverso dall’affermare che alla diffamazione commessa con il mezzo telematico siano applicabili le norme previste per la diffamazione commessa “con il mezzo della stampa”.

Seguono ulteriori fondamentali considerazioni, distinguo e chiarimenti, il tutto onde “rassicurare chi teme l’horror vacui,” che come si sa è sempre in agguato quando ci si cimenta con le leggi (e gli avvocati) di questo nostro amatissimo Paese.

Naturalmente, oggi siamo tutti un po' più rassicurati rispetto al recente passato. Soprattutto sul fatto che un attento esercizio della prudenza, nella controversa materia, sia di gran lunga preferibile ad una certa (malintesa, ahinoi) libertà di espressione ...

Parola di Sua Santità

«Cambiare religione non è mai positivo. È un’azione che può generare grande confusione nello spirito. Sono rare le persone che traggono benefici da un cambiamento spirituale. Che d’altra parte non è affatto necessario: tutte le religioni portano in sé delle possibilità di guarire l’anima».

Da un’intervista concessa dal Dalai Lama a Geo e pubblicata in parte sul Giornale di oggi (rispondendo a una domanda sui numerosi cristiani che si convertono al buddismo). Il concetto espresso da Sua Santità non è una novità per lui, ma potrebbe esserlo per qualche spirito entusiasta di passaggio da queste parti. Magari, dopo aver sistemato le trasmigrazioni interreligiose, la prossima volta il Dalai Lama dirà qualcosa di altrettanto tranchant sui «sincretismi», sempre con riferimento alle tentazioni più diffuse tra i cultori della religione fai-da-te.

Popper e i suoi detrattori

Quando uscì, più di mezzo secolo fa, La società aperta e i suoi nemici, il saggio di Karl Popper considerato universalmente un classico del pensiero liberale, fu accolto malissimo. Non solo in Italia, e non solo da coloro che erano stati apertamente attaccati nel libro, vale a dire storicisti, marxisti e positivisti. Dario Antiseri, su Avvenire, racconta l’accoglienza a La società aperta e alla «malattia» (la «popperite») di cui l’opera stava rapidamente diffondendo il contagio. Ma quel «maccartista» di Popper fu in compenso accolto benissimo dall’Osservatore Romano, e questo fin dal 30 novembre 1972, quando uscì un lungo articolo a firma di Orlando Todisco …

November 14, 2007

Morire due volte

Le tragedie vere ed autentiche, malgrado il termine “teatrale” col quale, appunto, vengono designati certi eventi, non sono quelle che possono essere rappresentate davanti a un pubblico, essendo troppo intime per poter essere condivise e troppo profonde per poter essere dichiarate, o urlate, o comunque date in pasto ad una folla, plaudente o piangente che sia, o tutte e due le cose insieme. Una famiglia romana ha oggi seppellito un figlio, un ragazzo morto in circostanze che attendono di essere chiarite definitivamente e senza reticenze. Il dato tremendo, irreparabile, è questo. Niente e nessuno può consolare quella famiglia, o almeno nulla che sia di questo mondo. Non certo la partecipazione di massa ai funerali di quel povero ragazzo. Neppure in un’epoca in cui tutto, ma proprio tutto, diventa spettacolo, e in cui, forse, solo l’esteriorizzazione di qualcosa trasforma quel qualcosa in un evento meritevole di pubblica considerazione e commozione.

Per questo, cioè, per così dire, a causa della sproporzione tra il danno e la (tentata) riparazione, a qualcuno—non molti, credo—capita di detestare dal profondo del cuore, se non tutte, quasi tutte le rappresentazioni pubbliche del dolore. Un altro discorso, in ogni caso, è stringersi intorno alla bare avvolte nel tricolore di soldati caduti nell’adempimento del dovere, in nome e per conto di un intero popolo, la cui bandiera, appunto, si è scelto di servire, se necessario, fino al supremo sacrificio. Il tifo calcistico è palesemente un’altra cosa. L’emblema di una squadra di calcio, con tutto il rispetto, non è sullo stesso piano del simbolo di un’intera nazione. Al di là di tutte le degenerazioni sciovinistiche, alla bandiera nazionale è dovuto un rispetto che va oltre ogni spirito di parte, mentre al vessillo di una squadra di calcio si può essere affezionati, ostili o indifferenti, senza alcun problema. Chi non avverte la “differenza” non è neppure degno di essere cittadino di una nazione.

Viste alla tv, le scene di dolore e disperazione di oggi erano tremende. Molti si saranno identificati nel dolore di un padre e di una madre, di un fratello e degli amici più stretti, e tutti avranno pensato che morire a ventisei anni e in quel modo è qualcosa che va al di là di qualsiasi discorso. Ma c’era qualcosa che stonava: quell’essere tifosi in un momento in cui il tifo non c’entrava più nulla, se mai c’è stato un momento in cui c’entrava. E non solo: stonava che, in teoria, tra i tanti commossi presenti potesse esserci qualcuno che alla vita di un poliziotto non dà lo stesso valore di quella di un tifoso. Mi è capitato di pensare che onorare così quel ragazzo morto sarebbe stato, nel caso, come ucciderlo un’altra volta, e in maniera altrettanto idiota. Mi è capitato di compiangere una famiglia anche perché, nel caso, avrebbe potuto far poco o niente per evitare una simile evenienza.

November 11, 2007

Senza senso

Cronache di straordinaria follia o di monumentale stupidità? Me lo domando e, ne sono sicuro, se lo chiedono milioni di persone, perché la presunzione di avere il monopolio del buon senso sarebbe stupida o folle almeno quanto i due episodi di cui tutta l’Italia discute.

Un tifoso ucciso da un poliziotto che avrebbe esploso due colpi—di cui uno andato tragicamente a segno—a seguito di una rissa scoppiata tra opposte tifoserie in un’area di servizio in autostrada. «Un tragico errore», secondo il ministro dell’Interno, che ha rilevato come «ancora una volta un giovane è morto in circostanze legate alla violenza che ruota intorno al calcio». Una violenza che, ha puntualizzato Giuliano Amato, «costringe tutti i fine settimana migliaia di uomini e donne delle forze dell'ordine a presidiare autostrade e città per evitare il peggio». Sinceramente, e con tutto il rispetto per Amato, questo tipo di approccio non sembra particolarmente appropriato: che i tifosi abbiano, in generale, le loro colpe è indubbio, ma in questo caso specifico, dispiace dirlo, si fatica a cogliere il nesso di causa-effetto, almeno sul piano delle proporzioni. Che uno, di solito, faccia il tifo per le forze dell’ordine non può e non deve influenzare che fino a un certo punto il giudizio. C’è un limite a tutto. Ma stiamo a vedere, ci mancherebbe, magari salta fuori qualcosa che spiega tutto (è l’ultima speranza, ammettiamolo …).

Una studentessa inglese viene assassinata in casa sua, a Perugia. La sua coinquilina americana ritratta due o tre volte le sue deposizioni. Un musicista congolese sembra dapprima coinvolto in qualche modo, poi salta fuori un alibi. Fin qui nessuna sorpresa, suppongo, per gli appassionati del genere. Poi c’è il moroso dell’americanina, che anche lui sembra dapprima entrarci, poi no, poi forse. Normale. Ma che dire del fatto che il ventiseienne laureando, figlio di un urologo barese, abbia l’abitudine di girare armato di coltello a serramanico? Ma, attenzione, papà ci tiene a far sapere che trattasi di un collezionista, anzi, di uno che cambia coltello a seconda dell’abbigliamento. Notizia illuminante, certo. Uno ha solo la forza di sollevare un dubbio: possibile che nessuno, intorno a quel ragazzo—innocente o colpevole che sia—si sia mai sentito in dovere di esternargli la sensazione epidermica che la sua passionaccia per i coltelli, come minimo, fosse una cosa da pirla? No, direi che non è possibile. E dunque, se messo sul chi vive l’interessato non ha recepito il messaggio, che cosa dobbiamo concludere? Esercitiamoci, e chissà che nei prossimi giorni una risposta sensata non venga in mente a qualcuno.

November 9, 2007

Francesco, rimembri ancora ...

C’è una domanda angosciosa che mi perseguita da qualche ora, e come si sa, in questi casi "socializzare" è un espediente efficace per togliersi dalle ambasce. Dunque, la domanda è questa: Francesco De Gregori avrà nel frattempo cambiato idea su Walter Veltroni? Voglio dire: uno arriva al punto di voltare inopinatamente le spalle a un vecchio e caro amico, ritenendolo inadatto a guidare il partito del cuore, e questo in quanto lo ritiene affetto da quel male oscuro che Crozza ha sapientemente definito “ma-anchismo” (o roba del genere). Poi, a un certo punto, il povero Walter ha provato a metter fuori la testa un attimo per dire che, diamine, bisogna dare un taglio alle chiacchiere in materia di delinquenza e prendere provvedimenti drastici. Il risultato è che la sortita produce un decreto, certo, con qualche ambiguità, ma insomma una cosa quasi accettabile. Dopodiché rifondaroli, comunisti e verdi minacciano di far cadere il governo, e come se non bastasse pure D’Alema si risente. Insomma l’Unione è sul punto di spaccarsi. E allora che succede? Semplice, si prende il decreto e lo si stravolge, cioè, invece di andare nella direzione auspicata da Walter, vale a dire semplificare e accelerare le procedure di espulsione dei mascalzoni, si va a complicare ulteriormente quelle medesime procedure e tutto finisce in una bolla di sapone.

Allora, mi domando, avrà finalmente capito il bravissimo cantautore che non è questione di Walter o non Walter ma della testa di quelli che lui, il leader, dovrebbe rappresentare e (eventualmente) guidare? Avrà capito, il bardo, che ad uno con le idee chiare come lui non resta che scegliere tra Diliberto e Bertinotti? E che, come dice un suo celebre collega e concittadino, tutto il resto (a sinistra) è noia?

Vabbè, fin qui era uno sfogo, adesso passiamo a cose più meditate, come l’editoriale del Foglio di oggi, al quale va riconosciuto il merito di affrontare l'argomento in maniera puntuale e lucida, ma senza per ciò stesso scivolare in una sorta di pessimismo cosmico ...


La mossa di Veltroni, che dopo l’orrendo crimine di Roma aveva imposto al governo di riunirsi d’urgenza per varare un decreto sulla sicurezza, sembrava l’annuncio di una nuova fase politica. Il neosegretario del Partito democratico cominciava ad applicare concretamente il suo slogan sulla discontinuità, con il corollario del “chi ci sta ci sta”. E’ bastata una settimana, però, perché il quadro mutasse radicalmente. Prodi ha accettato di dare al decreto (che di per sé era già zeppo di ambiguità) un’interpretazione soddisfacente per l’estrema sinistra, quella che aveva accusato Veltroni di accodarsi ai “fascisti”, Giuliano Amato gli ha dato una mano e anche Massimo D’Alema, che non aveva gradito l’irruenza veltroniana sui rapporti con la Romania, ha benedetto la virata a sinistra. Così il decreto è stato svuotato, come pare abbia detto lo stesso Veltroni al gongolante capogruppo di Rifondazione, partito il cui giornale festeggia apertamente la sconfitta dei democratici e inneggia alla “fortuna che arride ai coraggiosi”. Quel che si vede in controluce è un inasprirsi del dualismo tra Veltroni e Prodi, che non è affatto disposto ad accettare una supervisione critica del segretario del suo partito. Anche la costruzione piuttosto solitaria degli organismi dirigenti dei democratici, necessaria a Veltroni per poter esercitare una funzione e un potere non troppo vincolati ai vecchi potentati, ha provocato una reazione tacita ma ruvida, che si è espressa nel capovolgimento del senso dell’iniziativa sulla sicurezza. Invece delle espulsioni (che avrebbero potuto e dovuto essere numerose anche senza violare l’ovvio principio della responsabilità personale) ci sarà una maggiore complicazione delle procedure, si cercheranno denari per finanziare i rom, insomma si farà il contrario di quanto annunciato. Veltroni così è rimasto in mezzo al guado e saranno in molti a congiurare per impedirgli di uscire di lì. Alla prima uscita ha potuto misurare la forza delle resistenze che gli si oppongono. Chissà se saprà farne tesoro.

November 8, 2007

No, non è la BBC

A Luca Sofri certe polemiche non sfuggono, ed è un bene per noi distratti, che così possiamo prendere posizione e dar libero sfogo agli spiriti animali. Oggi come oggi, delle due segnalate, una è interessante, l’altra un po' meno. La prima ha come protagonisti Filippo Facci e alcuni parlamentari che devono aver molto tempo libero, e per oggetto la Rai. Ha ragione Facci, e ci mancherebbe, malgrado le scelte lessicali, che però fan parte dello Zeitgeist. La seconda ha per oggetto Enzo Biagi e come protagonisti Vittorio Feltri e un blog dell’Espresso. In questo caso ha ragione soprattutto Biagi (per le ragioni che ho esposto sinteticamente in un commento al post).

November 7, 2007

Giuliani wins Robertson's endorsement


“It is my pleasure to announce my support for America's Mayor, Rudy Giuliani, a proven leader who is not afraid of what lies ahead and who will cast a hopeful vision for all Americans.”

Those are the words with which prominent Christian leader and social conservative Pat Robertson announced his support for Republican presidential candidate Rudy Giuliani. This could obviously have a big impact on the presidential campaign by helping Giuliani to reassure Republican voters who have been wary of his support for abortion rights.

Rudy, said Robertson in a statement issued by the Giuliani campaign,

“took a city that was in decline and considered ungovernable and reduced its violent crime, revitalized its core, dramatically lowered its taxes, cut through a welter of bureaucratic regulations, and did so in the spirit of bipartisanship which is so urgently needed in Washington today.”

See here for more excerpts from Robertson's endorsement.

Penne magistrali

Su Enzo Biagi ho provato a dire qualcosa nel post precedente in inglese (con il Google translator English to Italian, però, a volte si perde relativamente poco, non come con l’operazione inversa, che rasenta il grottesco), quindi non mi ripeto, e oltretutto non avrebbe neppure senso cimentarsi dopo aver letto il ricordo di Vittorio Feltri su Libero. Non lasciatevelo scappare—neppure se, per caso, dello scomparso non avevate un’altissima opinione, anzi.

November 6, 2007

A Farewell to an Italian journalist

Enzo Biagi“He left us an extraordinary lesson in journalism,” Stefano Folli, an editorialist for Il Sole-24 Ore newspaper, said on Sky TG24 TV. In fact, it cannot be denied in any way that Enzo Biagi, who died Tuesday in a Milan hospital at 87, was a master. As Folli puts it, he spoke “an extraordinarily simple language.” Perhaps, I'd say, Biagi was first and foremost one of the few Italian journalists who had the courage and talent to speak and write that way. And that is why even those who rarely agreed with him on political issues—myself included—couldn’t help to be fascinated by his style of writing.

In addition, Biagi was a terrific hard worker. As Corriere della Sera newspaper editor Paolo Mieli told the Italian news agency Apcom, “he used to tell me: 'If there's some assignment that some lazy journalist doesn't want, call me and I'll go.'” Laziness was actually unknown to him since he had alternated articles for many daily newspapers and magazines with TV work and writing a huge amount of books, mostly popular works—and several of them best-sellers in Italy. It was not by chance that famous satirist Sergio Saviane, referring to his prolificity and versatility, used to call him “Fenomeno Biagi.” But Saviane, who was himself a master, though of ambiguity, wasn’t entitled to appreciate Biagi’s legendary straightforward writing style.

Today, Italy mourns a “Witness of the Twentieth Century,” as many daily newspapers have chosen to title. But the statement doesn’t give the whole picture. If I had to pick a sentence that sums up Biagi's life I would like this quote by Biagi himself, recalled by his fellow colleague Gian Antonio Stella in the Corriere della Sera, to be it:

I would have been a journalist even without pay—thank goodness my publishers have never realized it.

November 4, 2007

La parola ad Ahmed

Il silenzio è una tentazione formidabile, credo, ma anche un lusso, eufemisticamente parlando, che non possiamo permetterci. Come i colpi di coda di uno Stato agonizzante, purché gli eventi non si svolgano a cinque o seicento chilometri dai palazzi romani, ma proprio sotto le finestre dei medesimi. Il che, ci mancherebbe, è inaccettabile. Vincere quella maledetta tentazione, insomma, diventa un obbligo, e il non aver voglia di parlare un dettaglio trascurabile.

Grazie al cielo, stamane, a toglierci dall’imbarazzo c’era Lorenzo Mondo, che su La Stampa, a sua volta, si è fatto sollevare dall’obbligo di dire la sua affidando l’ingrato compito a qualcun altro: Ahmed, un cameriere tunisino che da anni vive e lavora in Italia.

«Qui mi trovo abbastanza bene, rispetto le leggi del mio nuovo Paese e sono in genere rispettato. Ma c’è una cosa che non capisco. È la vostra tolleranza nei confronti di chi si comporta male, in particolare gli stranieri che abusano dell’ospitalità. Per i delinquenti - siano nordafricani, nigeriani o romeni - dovrebbe esserci la prigione o l’espulsione, senza attenuanti».
[…]
«In Italia ci sono governi che non valgono niente, chiudono gli occhi e basta. Da noi, in Tunisia, anche i soli atti di teppismo vengono repressi con severità. È l’impunità ad attirare qui tante persone che non hanno né la possibilità né la voglia di lavorare. Così si alimenta la diffidenza e la chiusura nei confronti degli immigrati onesti».
[…]
«Sembra una cosa piccola ma non lo è. Ogni mattina, uscendo di casa, getto lo sguardo sul giardinetto vicino, dove mio figlio potrebbe prendere aria, giocare con altri bambini. Quello spazio è invaso dal degrado: panchine spezzate o divelte, cespugli con siringhe infette, un tappeto di bottiglie in frantumi. Sono le tracce dei loschi traffici, delle risse e degli schiamazzi notturni. Come è possibile vedere ogni giorno un simile spettacolo? Far crescere un figlio in questa sporcizia?»

Tutto giusto, tutto vero, ma a me ha colpito soprattutto quel sembra una cosa piccola ma non lo è. In effetti non lo è. Noi tutti siamo le vittime di questo inganno, ma non tutti nello stesso grado—e questo vale per i cittadini come per i governi—ne portiamo la responsabilità. Dall’amministrazione dello Stato a quella della giustizia e dell’ordine pubblico, si è lasciato che, un giorno dopo l’altro, omissione dopo omissione, la nostra terra diventasse un tappeto di bottiglie in frantumi.