January 31, 2007

Domande vitali

Sul global warming ferve il dibattito su TocqueVille. Se ne occupano, in particolare, due post. Su entrambi sono intervenuto (vabbè, dicendo più o meno le stesse cose), perché la questione, sia osservata dal punto di vista del "pensiero unico," sia da quell'altro, mi sembra meriti un'attenzione che, purtroppo, non può che essere inversamente proporzionale all'ignoranza (in materia) in cui i comuni mortali si trascinano malinconicamente ...


January 30, 2007

Volenterosi: sfida ai poli

Confermando le aspettative, il primo meeting del club dei Volenterosi, vale a dire il raggruppamento di personalità di entrambi gli schieramenti che si è formato a ottobre dell’anno scorso, è stato accolto con un certo interesse dai media. Oltre ai numerosi resoconti, in particolare quelli piuttosto dettagliati del Giornale e del Foglio (consultabile in formato pdf), si segnala l’ottimo (a mio avviso) editoriale di Dario Di Vico sulla prima del Corriere della Sera.

Un approccio decisamente favorevole, se non entusiastico, quello del Corriere, pur con una (doverosa) premessa: Ok, la cosa “rappresenta nel mare della politica italiana soltanto una goccia,” ma “va detto con altrettanta franchezza che la politica e l’economia italiana hanno bisogno dei Volenterosi.” Seguono argomentazioni a sostegno che sintetizzerei così: a) ci sono stati “illustri precedenti di forze minori” che, hanno saputo rivitalizzare la politica “contaminando” le formazioni più rappresentative e contribuendo a determinare importanti processi politici; b) grazie ai Volenterosi il confronto dentro e tra i Poli “torna a giocarsi al centro come tutti i manuali di scienza politica insegnano che succede nel mondo;” c) viene riaffermata “l’importanza dello spazio politico lib-dem," luogo dove si intrecciano gli interessi delle classi medie e “temi come la riforma del welfare, un fisco meno esoso e la rivisitazione di modelli stato-centrici.”

Mi sembrano considerazioni equilibrate e condivisibili. Poi, ovviamente, ci sono aspetti concreti e immediati che non si possono trascurare. Ad esempio, come si rileva nel resoconto del Foglio, quello che è mancato è la “base.” Ma è Daniele Capezzone a chiarire, proprio al Foglio che «non ci si deve chiedere quante divisioni (intese come unità di fanteria) hanno i Volenterosi, bisogna guardare alle idee». Ineccepibile, direi. Però è ancora Capezzone, nell’intervento più politico, che riprende l’argomento “bellico” per rilanciare e strappare all’uditorio l’applauso più convinto:

«Serve un evento fisico e di fortissima carica simbolica, una nuova marcia dei 40mila. Tocca a noi Volenterosi farcene carico. E presto».

Per il momento, comunque, un dato fondamentale è che, come ha detto il ministro Linda Lanzillotta, il convegno «ha riunito alcuni dei migliori cervelli della cultura riformista». Quello che succederà nel prossimo futuro, probabilmente, sarà affidato alla capacità di «comunicare» dei Volenterosi. Lo ha suggerito il professor Alesina parlando in videoconferenza da Harvard. E lo ha ribadito—come riferisce Il Riformista—il professor Giavazzi:


«Bisogna spiegare bene che le liberalizzazioni vanno a vantaggio dei più deboli, dei poveri e dei più giovani. Che quando si fa la riforma del commercio e diminuiscono i prezzi nei supermercati, si aiutano le famiglie più povere. E che rendere più efficiente l'università aiuta i giovani ed è una cosa di sinistra […] bisogna spiegare che le liberalizzazioni sono di sinistra».

A questo punto, direi, si sta profilando anche un preciso compito dei bloggers

Rinvio all’articolo del Giornale per qualche utile (e forse sorprendente) informazione sulla composizione dell’uditorio (circa 450 persone, quasi tutte in piedi) e alla testimonianza di un blogger che a Milano c’è andato ed è già ritornato, in tempo per postare le sue impressioni “a caldo.” Altri resoconti ed editoriali sul meeting: Avvenire (editoriale di Sergio Soave), Il Mattino, Il Tempo, Il Sole-24 Ore (editoriale di Stefano Folli).

January 29, 2007

Ieri, oggi e domani (riformisti e no)

Oggi Nicola Rossi si è segnalato per una “lettera al Direttore,” sul Corriere, e per la sua presenza, da grande protagonista, al convegno dei Volenterosi. Concettualmente interessante l’appello lanciato dalle colonne del quotidiano milanese: liberalizziamo, almeno un po', anche il nostro mercato politico (alludendo ad una sana concorrenza tra ministri in materia di liberalizzazioni). L’avesse detto qualcun altro, ci sarebbe di che invocare il silenzio stampa, ma se lo dice lui, che è un tipo piuttosto coerente, si apprezza e basta. In ogni caso vale la pena di dare una letta.

Domani sentiremo e leggeremo cosa si è detto al convegno dei Volenterosi. Rossi ha anticipato che non si vuol fare «né un partito né un movimento, ma essere espressione di un problema». E questo mi sembra molto onesto intellettualmente. C’è un problema, infatti, eccome se c’è. Ce l’ha il centrodestra, ma ce l’ha soprattutto—diciamolo per la milionesima volta—il centrosinistra.

In attesa dei resoconti stampa, ci si può accontentare di ciò che, a caldo, racconta l’Unità.it:


È la sagra del «volemose bene». Destra e sinistra insieme per «una politica che non sia fatta di risse e di chiusure» […] sembra il tavolo degli outsider. Capezzone imbavagliato dai Radicali, Tabacci troppo spesso in disaccordo con il leader Casini, La Malfa, Pomicino e De Michelis, orfani del tempo che fu, Savino Pezzotta dimessosi dalla Cisl per diventare presidente del Consiglio Italiano per i Rifugiati, Polito che vuol ricordare la sua anima riformista. E così via.

Quasi quasi, si direbbe, a leggere lo storico foglio della sinistra il problema non è quello di cui vogliono essere espressione i Volenterosi: il problema sono i Volenterosi, ovvero una “collocazione” almeno dignitosa per personaggi che sono orfani di qualcosa o di qualcuno.

A questo punto potrei anche concludere. Anzi, diciamo che qui finisce il post e che ciò che segue è un’appendice piuttosto “bizzarra”—per usare un’espressione cara a Massimo D’Alema—e al limite poco pertinente. Praticamente, l’ho aggiunta solo perché, mettendo ordine tra vecchi libri e scartoffie varie, per puro caso m’è capitata tra le mani, aperta alla pagina “giusta,” una vecchia rivista (Ragionamenti, n. 54, nov./dic. 1996). A pagina 12, appunto, per documentare un capitolo importante della storia delle diatribe interne alla sinistra italiana, si riportava cosa c’era scritto, alla voce Riformismo, nell’Almanacco del Pci del 1971 (pag. 104). Una passata di scanner, mi son detto, non costa nulla, e poi, via, è sempre bello ricordare come eravamo.

RIFORMISMO
L’involuzione della socialdemocrazia europea negli anni che precedettero e seguirono la l guerra mondiale, portò a profonde spaccature nel movimento operaio; la revisione della teoria marxista sullo stato e sulla natura di classe condusse i capi della socialdemocrazia europea a una politica di collaborazione con i partiti politici della borghesia e con le forze capitalistiche.
Riformismo fu chiamata quindi la politica che perseguiva la introduzione di riforme democratiche nell’apparato e nel modo di funzionamento dello Stato borghese, la quale si tramutò sempre nella smobilitazione della forza del movimento operaio, nel cedimento e nella compromissione pressoché totale di fronte ai piani imperialisti della borghesia. Il termine riformismo nacque e si diffuse quindi nella polemica condotta da quei nuclei rivoluzionari che, pur militando nella socialdemocrazia, si preparavano a fonda re i futuri partiti comunisti: Lenin contro Martynov e Kautsky, Rosa Luxemburg contro Bernstein, Gramsci e Togliatti contro Turati e Treves.
Il riformismo fonda la propria azione sulla concezione evoluzionistica della società capitalistica e nega il carattere di classe dello Stato, di cui invece afferma la neutralità rispetto alla lotta di classe. Concependo gli obiettivi della lotta di massa come semplici obiettivi economici (economicismo) persegue a livello politico una linea di collaborazione con i partiti e le forze economiche del capitalismo, le quali a loro volta utilizzano il riformismo per dividere il movimento operaio.
Il fallimento storico del riformismo e della politica socialdemocratica è chiaro oggi non solo per la perdita quasi totale di una qualsiasi forma di controllo, da parte dei riformisti, sul proletariato e sulle masse popolari, ma anche per l’abbandono esplicito della stessa illusione di una trasformazione del capitalismo, scosso in profondità da gravi contraddizioni, in un capitalismo equilibrato, senza contrasti di classi, fondato sul paternalismo padronale.
Sulla base di questa acquisizione storica, nel nostro Paese, i comunisti hanno sconfitto in questo dopoguerra ogni tentativo di affermare una egemonia riformista sul movimento operaio, chiamando le masse popolari alla lotta, sui grandi obiettivi di riforma e di potere, strettamente legati alla lotta antimperialista e alla costruzione di un nuovo internazionalismo.
[I grassetti sono miei]



January 26, 2007

Antisionismo

Niente da aggiungere, niente da togliere a questo editoriale del Foglio di oggi:


Il modo più concreto per ricordare nella condanna i crimini incarnati in feroci sistemi politici e le tragedie del passato è denunciare le nuove forme presenti del male. Per questa ragione, le parole scelte per il Giorno della Memoria dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, affondano la presa sul cuore della belva, che ruggisce da Teheran e dai mille rivoli del maremoto jihadista, ma s’accuccia anche nei retropensieri degli odiatori di sé occidentali.

Dice Napolitano che bisogna combattere “ogni rigurgito di antisemitismo. Anche quando esso si travesta da antisionismo”. L’affermazione ha il giusto sapore del disvelamento di un’ipocrisia. Perché, come ha ricordato il presidente, “antisionismo significa negazione della fonte ispiratrice dello stato ebraico” e delle “ragioni della nascita, ieri, e della sicurezza, oggi” dello stato d’Israele. Il primo passo di ogni sterminio è la negazione della casa e Israele è nato come, ed è, la casa degli ebrei.

“E che cos’è l’antisionismo? E’ negare al popolo ebraico un diritto fondamentale che rivendichiamo giustamente per la gente dell’Africa e accordiamo senza riserve alle altre nazioni del globo. E’ una discriminazione nei confronti degli ebrei per il fatto che sono ebrei, amico mio. In poche parole, è antisemitismo… Lascia che le mie parole echeggino nel profondo della tua anima: quando qualcuno attacca il sionismo, intende gli ebrei, puoi starne certo”. Lo diceva Martin Luther King, ha fatto bene a ricordarlo Napolitano.

Se solo i teocon imparassero a sorridere ...

Siamo al “tramonto della prospettiva teocon come proposta politica?” Sì, secondo Pierluigi Mennitti, che ne ha scritto sul suo walking class in maniera, a mio avviso, molto assennata ed equilibrata. Dello stesso parere è Calamity Jane, una blogger che, tuttavia, ama definire Il Foglio “l’Unico Quotidiano Che Leggo”—en passant, stanno messi mica tanto bene Giuliano Ferrara & C. se questo è il risultato! O forse consiste proprio in questo l’eccellenza di un giornale, che possa consentirsi il dissenso (su questioni essenziali) di lettori affezionati senza che ciò comporti l’interruzione di un rapporto fiduciario o addirittura esclusivo, come in questo caso? Chissà, io comunque lo sospetto fortemente, e la cosa, oltretutto, mi suona maledettamente bene.

Checché se ne dica tra laicisti assatanati e atei devoti, il futuro del nostro paese non si giocherà sui temi etico-religiosi, e gli elettori - che si mostrano già stanchi dei proclami dall'una e dall'altra parte - lo hanno compreso.

Concordo abbastanza. Anche se, oltre ai laicisti assatanati e agli atei devoti, mi sembrerebbe giusto ricordare i non pochi devoti-devoti, cioè i credenti che sono del medesimo avviso. Questa precisazione, vorrei aggiungere, non è pura pignoleria. Qui c’è un dato sostanziale, perché se uno volesse applicare un po’ spregiudicatamente—e in qualche modo a rovescio—al caso specifico il cinismo staliniano del “quante divisioni ha il Papa?” potrebbe a buon dirittodomandare retoricamente: “Quanti sono gli atei devoti e i laicisti (assatanati e non)? E quanti sono i credenti?”

Dunque, può essere condivisibile, piuttosto, la convinzione che il futuro del nostro paese non si giocherà principalmente sui temi etico-religiosi, anche mettendo in conto che coloro che si professano e sono effettivamente buoni cristiani non costituiscono di certo un monolite e che tra loro ci possono essere differenze anche significative (ma meno di quanto le polemiche “di schieramento” potrebbero far pensare, a mio modestissimo avviso) nell’approccio alle questioni più scottanti in materia di etica, bioetica, costume, ecc. Questi temi, in altre parole, avranno un peso non indifferente, ma non monopolizzeranno il dibattito. Enormi questioni economiche, sociali, geo-politiche o strettamente politiche, pur intrecciate ai temi religiosi, etici, culturali e identitari, saranno con ogni probabilità al centro delle nostre preoccupazioni.

Anche per quel che riguarda il tramonto dei teocon credo si possa concordare fino a un certo punto. Tempo fa ho espresso forti dubbi sulla esportabilità in Europa e in Italia di “filosofie” e atteggiamenti mentali che negli Stati Uniti hanno radici molto solide. Quello della Cattedrale e il Cubo è uno schema affascinante, ma solo con qualche acrobazia mentale può essere riferito allo stato effettivo delle società che pure hanno prodotto i due archetipi, quelli, appunto, che George Weigel ha elevato—per tanti aspetti genialmente—a paradigma di una sfida epocale da cui l’Europa uscirà rigenerata o in piena decadenza.

Nello stesso tempo, però, credo ci sia bisogno di chi ha voglia di approfondire e di intensificare una ricerca seria e rigorosa—condotta, cioè, senza arrière pensées e, aggiungerei, con animo benevolo—sull’«identità» e sulle «radici» dell’Europa e dell’Italia. Ha detto molto bene Pierluigi Menniti: non servono a niente l’ossessione identitaria e “l'idealizzazione di un passato idealizzato.” Perché

[l]a modernità non è il male, e un conservatorismo illuminato sarebbe quello che prova a coniugare il progressismo con quel tanto di tradizione necessaria, per non perdere le radici, per non smarrire il senso di un percorso.
[…]
Il mondo va avanti e il problema è quello di gestire i problemi e le sfide puntando sulla gradualità dei processi, ma con ottimismo, senza dipingere il futuro a tinte fosche per giocare sulle paure della gente. La politica della paura non conduce da nessuna parte.

Sono concetti, questi, che condivido senza riserve, espressi per giunta con una chiarezza che a me sembra direttamente proporzionale alla «semplicità» dell’assunto. I nostri antenati, del resto (a proposito di radici!), non dicevano forse Simplex sigillum veri?

January 24, 2007

Ecco a voi il ‘perdente radicale’

Chi è il «perdente radicale»? Diciamo che mentre un perdente qualunque è uno che può accettare il proprio destino e abbandonare il campo, il perdente radicale è uno che si isola, diventa invisibile, tiene a freno la propria delusione, risparmia le forze e aspetta pazientemente che arrivi la sua ora. Giunto il momento, però, egli non si accontenta di chiedere risarcimenti o di prendersi una rivincita, perché il suo vero obiettivo “non è la vittoria ma lo sterminio.” Ricorda qualcuno? Sì, secondo Hans Magnus Enzensberger: Adolf Hitler e, più recentemente, Osama bin Laden e, giù per li rami, un Mohammed Atta qualsiasi.

Enzensberger, per chi vuole documentarsi, ci ha scritto un libro, anzi, un articolo—apparso su Der Spiegel il 7 novembre 2005—che poi è diventato un libro. A dire il vero, al tempo dell’uscita della traduzione in inglese di quell’articolo avevo già scritto qualcosa su WRH. Dunque, l’occasione (o la scusa) per tornare sull’argomento mi è fornita dalla pubblicazione in lingua italiana (segnalata da un generoso editoriale del Foglio di ieri), per i tipi di Einaudi, di un libricino di 100 pagine che molto opportunamente, a mio avviso, ricicla quell’articolo. L’idea di farne un libro, però, è giustamente venuta prima ai compatrioti del noto studioso, ed ecco Schreckens Männer. Versuch über den radikalen Verlierer, Suhrkamp, 2006 (Uomini del terrore. Saggio sul perdente radicale). Proprio l’uscita di Schreckens Männer, tra l’altro, aveva suggerito all’Indipendente di ripubblicare in traduzione italiana un’intervista concessa dall’autore a Die Zeit nell’ottobre 2006. Lettura interessante.

Per tornare al contenuto del libro, va detto che Enzensberger non si è occupato soltanto del perdente radicale come singola persona, al contrario egli è partito da questa figura per approdare all’individuazione di un’intera cultura che si rifà al modello, quella di coloro i quali hanno fatto propria l’“ideologia dell’islamismo,” che è tanto potente quanto pervasiva, e “rappresenta un mezzo ideale per la mobilitazione dei perdenti radicali nella misura in cui riesce ad amalgamare istanze religiose, politiche e sociali.” Non a caso il terrorista islamico, tra tutti i suoi omologhi sparsi per il mondo, è l'unico che agisce su scala globale.

Ad ogni buo conto, il progetto del perdente radicale, come ben si vede in Iraq e in Afghanistan, è piuttosto ambizioso: organizzare il suicidio di un’intera civiltà e promuovere una diffusione illimitata, tra le masse islamiche, di quel “culto della morte” che purtroppo abbiamo tutti imparato a conoscere. Anche se, va detto, secondo Enzemberger le probabilità di riuscire in questo intento sono “trascurabili:” gli attacchi dei terroristi islamici stanno diventando una quotidianità, come gli incidenti stradali, vale a dire qualcosa cui si finisce per fare l’abitudine e con cui bisogna imparare comunque a convivere, anziché eventi in grado di operare, appunto su vastissima scala, una profonda trasformazione delle coscienze.

Il Nostro, ad ogni modo, mette in guardia l’Occidente, soprattutto quella parte di esso (leggi la sinistra massimalista e pacifista) che è più restia a cogliere, in tutta la sua drammaticità, la minaccia rappresentata dal perdente radicale. E lo fa, come giustamente rileva l’editorialista del Foglio, “con un evidente disinteresse per i distinguo politicamente corretti.” Ai primi di dicembre dello scorso anno, Enzensberger si era espresso in questi termini su la Repubblica:

È scomodo pensare che esistano nel mondo conflitti così gravi: c'è la banalità dei benpensanti che non vogliono vedere i conflitti reali e sono convinti che con il dialogo e un po' di tolleranza si può risolvere tutto. Si gioca troppo con la tolleranza. Chi tollera tutto, sbaglia.

January 23, 2007

Martini, Sofri e gli accordi sull'aldiquà

Il post arriva un po’ in ritardo, ma che non mi sia riuscito di provvedere prima non è una buona ragione per rinunciare a segnalare due cose (in una) a cui tengo molto, vale a dire il commento di Adriano Sofri (la Repubblica di ieri) all’intervento di Carlo Maria Martini sul caso Welby (Il Sole-24 Ore di domenica scorsa). Personalmente mi ritrovo abbastanza sia nella riflessione del cardinale sia nella “lettura” che ne propone il commentatore. Interessante anche il riferimento alla recente legge francese, che secondo Martini avrebbe trovato “un equilibrio se non perfetto, almeno capace di realizzare un sufficiente consenso in una società pluralista.” Eccone un passaggio cruciale, cioè l’articolo 6:

Quando una persona, in fase avanzata o terminale di una patologia grave e incurabile, decide di limitare o di sospendere qualsiasi trattamento, il medico ne rispetta la volontà dopo averla informata delle conseguenze della sua scelta... Il medico tutela la dignità del moribondo e assicura la qualità della sua fine di vita somministrando le cure … [stabilite in altri articoli]

Ottima la chiusa di Adriano Sofri: prima esprime vivo apprezzamento per l’approccio del cardinale a questa delicatissima materia (“edificante lettura […] bello poter usare per una volta sul serio l'aggettivo edificante”), poi dice di non sapere

che cosa pensi il cardinale, che qui non ne parla, dell'argomento per cui la vita non è nostra, ma di Dio. Spero che pensi che Dio, anche questo Dio proprietario, preferisca rendere le sue creature responsabili della propria vita, piuttosto che affidarle allo Stato, o alla Chiesa, o a qualche altra concessionaria.

Poi conclude così:

Il resoconto del bell’articolo di Martini sarebbe mutilo se non citassi il periodo che lo chiude, e che nel suo caso non è un orpello retorico. "E soltanto guardando più in alto e più oltre che e possibile valutare l'insieme della nostra esistenza e di giudicarla alla luce non di criteri puramente terreni, bensì sotto il mistero della misericordia di Dio e della promessa della vita eterna”. Si può dunque essere d'accordo sull'aldiquà anche se non si guardi allo stesso modo più oltre.

Sì, credo anch’io che si possa concordare sull'aldiquà … a prescindere da tutto il resto. Qualche giorno fa mi capitava per l’appunto di fare la stessa considerazione su tutta un’altra storia, ma sempre con lo stesso “interlocutore.”

January 22, 2007

Le Goff: medioevo al femminile

Non mi sogno minimamente di riassumere la riflessione di Jacques Le Goff—esponente di rilievo del gruppo delle “Annales” e sicuramente uno dei massimi medievisti viventi—sulla condizione della donna nell’età di mezzo pubblicata ieri su Avvenire. Dico solo che si tratta di un testo che va ben oltre i limiti della “divulgazione giornalistica,” e che proprio per questo rende un servizio prezioso a chi vuol mettersi nella condizione di capire qualcosa al di là dei luoghi comuni e dei pre-giudizi. Certamente, l’intenzione è quella di ribaltare, da un punto di vista strettamente storico, falsificazioni e distorsioni di prospettiva.

Colpisce, in particolare, che per Le Goff “non vi sia stata peggiore condizione femminile di quella della donna in Europa nel XIX secolo.” E quanto al tempo presente, onde non lasciarsi fuorviare dalle “illusioni,” il grande storico francese si limita a constatare come, in Occidente, oggi non vi siano certamente più donne Primo ministro di quante, nel Medioevo, fossero regine o reggenti. Insomma, tenetevi forte e allacciate le cinture: Le Goff vi stupirà (soprattutto se ancora non avete letto niente di suo).

January 18, 2007

Compagni, l'11 settembre non ci fu alcun complotto ...

Alexander Cockburn, è un esponente di rilievo della sinistra radicale made in USA (è irlandese, ma dal 1973 vive negli States). Le Monde Diplomatique è un periodico mensile di informazione ed opinione. E’ francese, ma è disponibile anche in altre 26 edizioni, tra le quali quella italiana, che esce come supplemento (il 15 o 16 di ogni mese) del “quotidiano comunista” il manifesto.

Che cosa ci si può ragionevolmente aspettare quando si verifica la circostanza di trovare, appunto su Le Monde Diplomatique, ultimo numero, una riflessione di Cockburn sull’11 settembre, e per giunta circoscritta alla celeberrima “teoria del complotto?”

Qualche lettore di questo blog, magari, sta già per “cambiare canale,” se non l’ha già fatto, ma sarebbe un errore imperdonabile, dal momento che l’articolo smonta pezzo per pezzo l’ipotesi di cui sopra—a partire dalla "Bibbia" dei cultori del genere letterario in questione, vale a dire 11 settembre, la nuova Pearl Harbor, di David Ray Griffin—definendo il tutto “stupidaggini” portate al “parossismo,” “assurdità” e persino (la logica conseguenza di) “un assunto razzista” (“gli arabi non avrebbero mai potuto portare a termine un attentato simile”), collegato ad una mal riposta “fiducia assoluta nell'efficienza americana.” Di fatto, cioè, i fautori delle tesi complottistiche dimostrano di credere che i dispositivi militari americani siano veramente in grado di operare “come dicono gli addetti stampa del Pentagono e i rappresentanti di commercio delle industrie d'armamenti.”

Ma questi—si domanda Cockburn—avranno mai letto un libro di storia militare? Figuriamoci, infatti,

[s]e lo avessero fatto, avrebbero appreso che anche le operazioni pianificate con la più grande cura - a maggior ragione quando si tratta di anticipare una risposta a una minaccia senza precedenti storici - falliscono per ragioni legate alla stupidità, o alla vigliaccheria, o alla corruzione, o a qualche altro difetto della natura umana. Per non parlare dell'imprevedibilità del clima.

E dopo una lunga e miuziosa disamina della vexata quaestio, con opportuni richiami a quegli avvenimenti della storia americana recente che sono stati presi di mira dai complottisti, l’affondo decisivo:

Osama bin Laden ha rivendicato gli attentati? È pagato dalla Cia, ci dicono. E così di seguito... In fondo, qual è lo scopo di tutto ciò? Provare che Bush e Cheney son capaci di tutto? Ma essi non hanno mai portato la prova del livello di competenza richiesto per riuscire in un'operazione così sofisticata. All'indomani della vittoria delle truppe americane in Iraq, non sono neanche stati capaci di far trasportare sul posto qualche cassa con la scritta «Adm» che sta per «armi di distruzione di massa». Eppure, gli sarebbe bastato mostrarla a una stampa incantata perché la fotografia facesse il giro del mondo - e che la «prova» della giustezza della guerra fosse stabilita.

E la conclusione:

La teoria del complotto nasce […] dalla disperazione e dall'infantilismo politico.

Che altro dire, se non che merita di esser letto, meditato e affisso su tutti i muri (reali e virtuali)?

January 17, 2007

Obama's choice




Barack Hussein Obama is the fifth African American Senator in U.S. history and the only African American presently serving in the U.S. Senate. The son of Barack Hussein Obama, Sr. of Alego, a village in Nyanza Province, Kenya, and Ann Dunham of Wichita, Kansas, he grew up in his mother's white American middle class family. Obama and his wife, Michelle, live on Chicago ’s South Side, where they—and their two daughters, Malia, 8 and Sasha—attend Trinity United Church of Christ.

According to recent opinion polls he is the second most popular choice among Democratic voters for their party's nomination in the 2008 U.S. presidential election, behind Hillary Clinton, and just yesterday he took his first step toward launching a Presidential campaign by announcing an “exploratory committee.”

Gene, at Harry’s Place, has asked a good question (he also linked to this well-krafted video, which could be of some help to those who might want to try and answer this question):

can a man of mixed race […] with only two years in the Senate […] whose middle name is Hussein and whose last name rhymes with Osama, be elected President of
the United States?

January 15, 2007

Dopo Erba. L'apocalisse (forse) puo' attendere

La strage di Erba è uno di quegli eventi che, anche se preferiresti non averne mai sentito parlare, ti costringono a interrogarti. Giustamente i media hanno affidato a commentatori autorevoli e perspicaci il compito di aiutare ciascuno di noi a maturare un’opinione non troppo superficiale ed estemporanea in proposito (un obiettivo modesto, I suppose …). Tra i commenti che mi è capitato di leggere in questi giorni ce ne sono tre che, per un motivo o per l’altro, mi hanno particolarmente colpito—oltretutto sono piuttosto rappresentativi, soprattutto i primi due, delle opinioni che circolano—e che mi sembrano una buona base di partenza per abbozzare qualche riflessione personale.

Il primo è quello di Vittorino Andreoli. Questi è unanimemente riconosciuto come un luminare, un fior di psichiatra. Per cui, se il professore ha detto quello che ha detto sulla strage di Erba, non c’è che prenderne atto e meditare. A fortori, direi, se il suo approccio alla vicenda suona un tantino apocalittico: vuol dire che c’è poco da minimizzare.

L’uomo del nostro tempo, dice Andreoli, è un problema serio. Si tratta di capire perché delle persone che vivono secondo schemi accettabili possano accumulare una serie di frustrazioni tali da indurle a compiere gesti che sono fuori da qualsiasi comprensione, fuori anche dalla follia. E la risposta è che l’uomo del nostro tempo è senza principi, senza sensi di colpa, senza quei freni inibitori che danno un senso alla nostra vita. La vera follia, per il professore, è questa.

Un ragionamento chiarissimo, per nulla “accademico,” addirittura disarmante nella sua semplicità. Il che, direi, fa onore ad un professore che avrebbe potuto benissimo esprimersi in maniera, per dire, più sofisticata. Sospetto fortemente che molti buoni cattolici siano d’accordo con Andreoli. Eppure, a mio modestissimo parere, c’è molta sociologia ma poca teologia nel ragionamento del grande psichiatra. Il che, è ovvio, se non è certamente un limite sotto il profilo “scientifico,” altrettanto certamente non è un titolo di merito dal punto di vista di chi si aspetta risposte che soddisfino la domanda di senso che contraddistingue l’atteggiamento del credente in faccia ad eventi particolarmente tragici e, a maggior ragione, di fronte a siffatte, “diaboliche” e perverse, fenomenologie del male.

Un approccio alquanto diverso, ma piuttosto diffuso soprattutto tra persone che si sentono “di sinistra,” è quello che il veneziano Gianfranco Bettin (consigliere regionale per i Verdi, nonché studioso a lungo impegnato nel campo della ricerca e degli studi politico-sociali) ha proposto sul manifesto del 12 gennaio. La chiave di lettura che egli suggerisce è l’«intolleranza». E’ quasi poetica la sua prosa:

Uno strano frutto cresce spes­so quassù, a nord, in provin­ce che sono tra le più ricche del mondo ma anche fra le più spaesate e a volte spaventate dai cambiamenti che pure contribuiscono potentemente a provocare. Non pende dai pioppi, come lo Strange Fruit di Billie Holiday, ma ugualmente semina «sangue su foglie e radici». Il sangue di Youssef, che ha vissuto soltanto due an­ni tre mesi e due giorni, quello di sua madre Raffaella e di sua nonna Paola, quello dei vicini accorsi in loro aiuto. Questo sangue viene da un frutto che, in questo caso, ha un nome solo e ap­propriato. Guardando alla scena del cri­mine, si potrebbe anche chiamarlo odio. Ma sarebbe un po' sviante. Non perché non ci sia odio in quello che Olindo Romano e Angela Rosa Bazzi hanno confessato di aver fatto. Ma è ve­nuto dopo. L'odio è il frutto maturo. La linfa che l'ha gonfiato fino a farlo esplodere ha invece il nome di intolleranza.

Anche qui, mi sembra, si va abbastanza sul sicuro e sul semplice. Difficile contestare che i coniugi assassini fossero persone estremamente intolleranti. Il punto è che, forse, ricondurre il tutto all’intolleranza è un tantino “ideologico,” o se si preferisce un po’ “minimalista.”

Il terzo approccio è quello proposto da Adriano Sofri su la Repubblica, sempre del 12 gennaio. Difficile sintetizzare il ragionamento. Del resto chi ha una certa dimestichezza con lo stile dell’ex capo di Lotta continua sa che il suo argomentare segue percorsi piuttosto complessi, a volte persino troppo—almeno a mio avviso—per le pagine di un quotidiano, ma sa anche quanto quella complessità rifletta la non facile decifrabilità di ciò di cui si sta discutendo. Per questo Sofri non mi delude mai, neanche quando sono costretto a interrompere la lettura e a tornare indietro per cercare di capire di cosa diavolo stia parlando, e neanche quando, alla fine, non mi trovo d’accordo con lui.

Cito qua e là dal suo articolo (ma raccomando la lettura integrale!):

La lezione è semplice, benché siamo riluttanti a riconoscerla: non c'è grandezza nel male. Ho trascor­so anni accanto a un assassino di vicini di casa—si tratta infat­ti di una piccola ma robusta ca­tegoria. Aveva sempre gli occhi rossi, piagnucolava, compiangeva «la sua disgrazia» — cosi la chiamava.
Non c'è grandezza nemme­no quando il campo di bat­taglia si allarga dal piane­rottolo a un continente. Bisogna riconoscere l'ovvietà, senza perdere il raccapriccio.
[…]
Gli occupanti nazisti permettono alle autorità locali non ebraiche di dar la caccia ai concittadini ebrei. Gli abitanti so­no circa 2500, fra loro gli ebrei sono 1600. Alla fine della giornata sono stati sterminati, ad eccezione di sette scampati. Sono stati trucidati a colpi di randelli, asce, attrezzi da lavoro, bastoni: come nel condo­minio di Erba. Come nel condominio di Erba, c'è stato un gran rogo finale: centinaia di ebrei sono stati ammucchiati in un granaio e bru­ciati vivi, nel tripudio della brava gente.
[…]
Poiché non vuole ras­segnarsi alla propria ignobiltà, l'a­nimale umano si attarda a figurar­si una magnanimità, una grandio­sità magari torva, degli assassini privati, e almeno di quelli pubblici, sulla larga scala. Banalità del male va bene, ma la coppia di Erba è troppo: maniaci dell'ordine e del­l'orario, addirittura netturbino lui, donna delle pulizie lei, troppa gra­zia. Qualcosa che avesse a che fare con gli extracomunitari, o almeno con il carcere, o almeno con l'in­dulto, si poteva starci, a malincuo­re, o perfino con un certo compiacimento. Ma così! Troppo ordina­rio, troppo volgare. Eppure, per questioni di ballatoio, il mondo si scanna.
[…]
Le cittadi­ne toscane sono così belle di case torri perché una famiglia doveva arroccarsi e difendersene dalla vi­cina. Nel centro di Siena vi mostre­ranno due palazzetti attigui, ma separati da una fessura di un dito, come due bellimbusti che si fron­teggino sfidandosi a morte: «Prova a toccarmi».
[…]
C'è nel male, e forse anche nell'infelicità, una forza che ab­bassa e degrada e rende turpemente somigliante. La famiglia guarisce e uccide. Negli anni '60 una idea libertaria denunciava «la famiglia che uccide»: che uccide i suoi membri, cioè. Oggi, nono­stante il rumore di fondo ininter­rotto sui valori della famiglia, ab­biamo una nozione assai lucida e certificata della famiglia che ucci­de, che fa la guardia ai panni spor­chi delle violenze sui bambini e sulle donne, della stessa finora in­dicibile ribellione angosciata delle madri. E tuttavia possiamo guar­darci dalla doppia ideologia, della sacra famiglia e dell'antifamiglia, e misurarci con l'esperienza, le sofferenze, le felicità. I due sciagu­rati di Erba sono una famiglia, hanno pagato la solidità del loro naufragio comune diventando una famiglia che uccide fuori di sé, contro il resto del mondo.

A me sembra una riflessione ineccepibile, la meno “unilaterale” e, in ogni caso, la più profondamente “cristiana” tra quelle che ho letto. Ci ritrovo l’eco dolente e tragico di quel mysterium iniquitatis di cui la Chiesa ha sempre narrato. Un “laico” disincanto che, al pari del suo omologo “confessionale” non implica, di per sé, la rinuncia alla buona battaglia che il Giusto deve essere disposto a combattere—sempre, non soltanto quando il Princeps huius mundi lancerà l’assalto finale—contro l’iniquo, ma semmai una consapevolezza tanto più rispettabile quanto meno consente di cullarsi in comode illusioni.

Certo, il bagaglio culturale di Adriano Sofri non include lo scontro redentivo fra il mysterium iniquitatis e il mysterium pietatis, cioè la vittoria finale del Bene. Ma questo non toglie nulla all’efficacia della rappresentazione, anche dal punto di vista di coloro i quali, al contrario i Sofri, la fede ce l’hanno. Quanto a questi ultimi, indubbiamente, che vi sia un "mistero di iniquità" che è dentro al "mistero della pietà”—che affonda le radici nell’obbedienza di Cristo (cfr. Rom 5,12 ss)—è ciò che dovrebbe consigliare, tra l’altro, una certa diffidenza per i toni tragici e apocalittici di chi vede fin troppo nitidamente il male del nostro tempo, ma si sforza di ignorarne il bene, che forse sta silenziosamente crescendo. Perché, come si sa, la grazia sovrabbonda dove abbonda il peccato. Poi, è chiaro, se proprio Armagheddon deve essere, i profeti d sventura stiano pur tranquilli: ci attrezziamo, anzi, siamo praticamente già attrezzati—o di riffa o di raffa—da circa duemila anni …

January 10, 2007

The radical loser

Hans Magnus Enzensberger—one of modern Germany's most interesting and celebrated writers—looks at the kind of ideological trigger required to ignite the “radical loser”—whether amok killer, murderer or terrorist—and make him explode. In an article which originally appeared in German in Der Spiegel on November 7, 2005 and now available in English translation.

The loser may accept his fate and resign himself; the victim may demand satisfaction; the defeated may begin preparing for the next round. But the radical loser isolates himself, becomes invisible, guards his delusion, saves his energy, and waits for his hour to come.
[…]

The project of the radical loser, as currently seen in Iraq and Afghanistan, consists of organizing the suicide of an entire civilisation. But the likelihood of their succeeding in an unlimited generalization of their death cult is negligible. Their attacks represent a permanent background risk, like ordinary everyday deaths by accident on the streets, to which we have become accustomed.

In a global society that constantly produces new losers, this is
something we will have to live with.
[Read the rest]


[This post was first published at windrosehotel.splinder.com on December 12, 2005]

Riformisti, ovvero 'the way we were'

Se fosse un compito agevole dire qualcosa di riformista sul riformismo mancato dell’attuale sinistra, giuro che non mi sottrarrei a quello che, con ogni probabilità, è un dovere morale, oltre che civico e politico. E invece—almeno a mio avviso—agevole non è, neanche un po’, anzi, direi che è una fatica improba … come sfondare una porta aperta, come far piovere sul bagnato. Sì, voglio semplicemente dire che, forse paradossalmente, quando muovere un’obiezione è troppo facile, mettersi d’impegno a formularla per bene, con scrupolo, ha il sapore della noia, anzi (soprattutto nella fattispecie!) del tedio, cioè, dizionario alla mano, “sensazione tormentosa di stanchezza interiore.”

Nonostante questo, ed anzi proprio per questo, onore al merito di Nicola Rossi, il quale, non essendo, per avventura, un osservatore qualsiasi, e nemmeno un commentatore—dilettante come un blogger o di professione come un columnist—, ma un professore che per giunta è anche un politico, non si è sottratto e ha detto e scritto, da par suo, ciò che era appunto doveroso dire e scrivere.

Per me, come dicevo, è un po’ diverso, ma conosco un trucco che forse mi permetterebbe di salvarmi in corner, e che mi è suggerito dalla celeberrima proposizione del Tractatus di Wittgenstein, corretta, però, se non ricordo male, da Umberto Eco nel Nome della Rosa: “Di ciò di cui non si può parlare occorre narrare.” Ecco, appunto: se proprio dovessi dire qualcosa, racconterei. Ma penso che sarebbe un esercizio tedioso, a sua volta, per i poveri lettori di questo blog … E allora? Beh, propongo un compromesso: che dire se mi limito solo all’incipit, o poco più, di quella narrazione? [Mi sto arrampicando sugli specchi, lo so, ma che vogliamo farci, ognuno ha i suoi limiti …]

Va bene, ieri Maurizio Sacconi—che ho conosciuto abbastanza bene ai tempi del Psi, essendo tra l’altro un concittadino—concludeva così una sua riflessione sul Giornale:

D'altronde Nicola Rossi sa che una sinistra riformista invero è esistita e - non a caso - è stata contrastata e con la violenza cancellata proprio dalla sinistra che oggi lo delude.

Già, una sinistra riformista c’era, appunto. Era la mia sinistra, contrastata accanitamente, odiata (è la verità) e infine "terminata" dall’altra sinistra, anche da quella parte di essa (odio escluso, forse) che oggi si proclama riformista, ma, appunto, come ha spiegato Nicola Rossi, non c’è più alcuna speranza che lo diventi per davvero. Sono ricordi che non si possono cancellare, lo dico senza rancore, lo giuro, come semplice constatazione. Ricordi vivissimi: conversazioni e scontri tra amici, conoscenti, colleghi di lavoro e, naturalmente, avversari politici. Ci voleva una certa testardaggine, allora, ad essere socialisti, cioè craxiani, cioè riformisti. Qualcuno, certo, lo era per calcolo, come sempre accade in politica, e per costoro non c’erano problemi, nel senso che non se ne facevano, ma per chi ci credeva era dura. Era dura all’università, ai tempi in cui «riformista» e «socialdemocratico», lo sanno anche i bambini, erano espressioni equiparabili ad insulti, era dura sul lavoro. Ma la convinzione di essere nel giusto—poi avallata dai mea culpa dei più onesti tra gli avversari di ieri, come Massimo D’Alema e Piero Fassino—era tale che si passava sopra a tutto. Si resisteva.

Ora Nicola Rossi è arrivato al dunque, e, dico la verità, pur senza esserne particolarmente sorpreso, mi dispiace un po’. Per un certo periodo sono stato tra coloro che hanno ritenuto possibile, oltre che, naturalmente, auspicabile (per la sinistra, per l'Italia, per tutto), un percorso che facesse transitare la vecchia sinistra ex comunista da posizioni genericamente massimalistiche, almeno in buona parte, o da uno stato confusionale che definire di ambiguità cronica non sarebbe esagerato, a un’attitudine mentale autenticamente riformista. Ho detto attitudine mentale non a caso, perché, per quel che ho capito io, di questo si tratta, non tanto o non solo di “programmi,” che del resto di quella attitude of mind sono soltanto una logica conseguenza, per quanto inevitabile e necessaria.

Mi dispiace perché, essendo io stesso arrivato (dolorosamente) alla medesima conclusione, speravo, per senso civico, che gente come il Professore ce la facesse a tenere duro. Ma, ovviamente, prendo atto e capisco. Dirò di più: comprendo e ammiro sinceramente. Perché se per me è stato abbastanza “naturale”—questione di memorie, come dicevo—tagliare i ponti, per uno come Rossi deve essere stato terribile e deve aver richiesto un coraggio leonino. Eppure, come appunto ricordava Sacconi, “Nicola Rossi sa che una sinistra riformista invero è esistita,” e quel che segue. Dunque, se ne può fare una ragione, come, per altre vie, se ne sono fatti una ragione tutti gli ex socialisti che sono andati con Forza Italia. Una scelta, quest’ultima, che, d’accordo, qualcuno può aver fatto per tornaconto—anche se lo stesso penso che valga per chi ha fatto la scelta opposta—, ma che, in generale, a meno che non si sia preda di una visione becera e manichea della lotta politica, non può che far riflettere.

Di una cosa sono ragionevolmente certo: a tutti noi “vecchi riformisti,” a noi blairiani prima di Tony Blair, penso produca una strana sensazione (che definire “orgoglio” sarebbe riduttivo) pensare a “come eravamo,” e una certa, struggente, nostalgia immaginare come avrebbe potuto essere. Ma il mondo va avanti. Oggi essere riformisti non implica una scelta di campo, semmai, se posso esprimermi così, è il campo che deve scegliere tra riformisti e no …

January 8, 2007

'Ma voi non siete credibili'

Un editoriale di Nicola Rossi sul Corriere di oggi offre alcune risposte ad altrettante questioni poste in questi giorni da autorevoli “esternatori,” famosi editorialisti, ecc. (ad esempio il Presidente Napolitano, il patriara di Repubblica Scalfari e il Professor Michele Salvati). Ma soprattutto pone un tema di fondo, quello della credibilità della classe politica, per arrivare a una conclusione piuttosto amara ...

Allentatosi il vincolo della ideologia, la politica è oggi più di tante altre cose, credibilità. Credibilità della classe politica nel suo insieme e credibilità dei singoli che fanno politica. E una politica credibile è quella che crede in quello che dice ed in quello che fa, o che cerca di fare. E' tutto qui il dibattito sul riformismo che andiamo facendo da qualche tempo o, meglio, da qualche anno. Non riguarda solo i risultati - che pure sono piuttosto magri - ma la convinzione che dovrebbe animare i protagonisti di quel dibattito. Cosa pensereste di un grande manager che oggi indica nel mercato cinese una opportunità da non mancare e promette, di lì a qualche tempo, di sbarcarci in forze e poi, qualche tempo dopo, vi dice che sì, poi, in fondo, il mercato cinese non è così importante? E cosa pensereste di un leader politico che a novembre annuncia urbi et orbi che per marzo il paese avrà messo un punto fermo sui temi della riforma previdenziale e poi a gennaio conclude che, in fondo, la cosa non è poi così urgente?

Non pensereste quello che pensano molti italiani? E, gentilmente, non si tiri fuori l'argomento francamente un po' deboluccio relativo alle difficoltà entro le quali quotidianamente si muove la politica. Alla fatica - che c'è, lo sappiamo - della costruzione politica. Alla incertezza degli esiti: sappiamo anche questo, si può vincere e si può perdere. Il punto è un altro: da una classe politica si chiede - avrei voluto scrivere, si pretende - che spenda il proprio tempo a pensare come evitare o superare quelle difficoltà. La politica - mi si perdoni la franchezza - non è pagata per raccontare ai cittadini gli ostacoli che incontra giorno dopo giorno ma per superarli. Se ne è capace. E se non ne è, per lasciare ad altri la possibilità di provarci. Le difficoltà in cui si dibatte, giorno dopo giorno, l'odierna azione di governo sono il frutto malato di cinque anni di opposizione in cui - anche grazie a qualche editoriale domenicale non sempre illuminato - non un solo giorno è stato speso per costruire la cultura e le condizioni che sarebbero servite a governare e non è lecito, oggi, usare quelle difficoltà come un'attenuante. (E l'argomento vale, mutatis mutandis, per il governo della passata legislatura.) Si è seminato male e quindi si raccoglie poco. E si è seminato male perché non si credeva fino in fondo in quel che si diceva di voler fare. Una politica credibile è una politica che rischia e che si assume responsabilità. Che si espone al pericolo di perdere perché solo così si vince.

[...]

Se il Partito democratico fallirà - mi rivolgo ancora a Michele Salvati - non sarà a ragione di subdole ed infide iniziative trasversali (e, sia detto per inciso, è più subdolo ed infido discutere con Bruno Tabacci di pensioni o trattare sulla legge elettorale con Roberto Calderoli?), ma sarà a causa della mancanza di coraggio di chi pensa che il rischio sia pane quotidiano per le famiglie e per le imprese ma non per la politica.

Per completezza riporto una (buona) notizia che si leggeva su La Stampa di ieri (grazie a Nicola per l'informazione), e cioè che a fine mese, il 29 gennaio, a Milano, il tavolo dei "volenterosi" si riunirà

per la prima, vera, grande, e per tutti gli aggettivi del caso, riunione nazionale. Si snocciolano le prestigiose adesioni: Alberto Alesina, Enrico Cisnetto, Giuliano Da Empoli, Franco Debenedetti, Maurizio Ferrera, Francesco Giavazzi, Pietro Ichino, Fiorella Kostoris, Alberto Mingardi, Savino Pezzotta, Antonio Polito, Gustavo Piga. Però non si è ancora capito: per fare che cosa? Illustra Capezzone: «Un partito? No. Una lista? No. Un cantiere aperto? No. A noi interessano i contenuti, non il contenitore. Per usare termini in voga, ci interessa il software, non l’hardware».


January 1, 2007

Happy New Year!

Happy New Year and all the best to everyone in 2007!


The object of a new year is not that we should have a new year. It is that we should have a new soul.

--G.K. Chesterton

Buon Anno a tutti! In particolare alla blogosfera, e in dettaglio ai lettori di WRH. Possa l’Anno Nuovo portare Gioia e Serenità, ma anche la capacità di riconoscere la Gioia e la Serenità quando incrociano la nostra vita, ché altrimenti potrebbero essere scambiate per indesiderabili intrusi e limiti alla nostra libertà, o meglio alla nostra megalomania ...

In una parola: accontentiamoci di poco, se quel “poco” è sufficiente a riempire la vita con ciò che conta veramente. E naturalmente questo è l'augurio che faccio anche a me stesso. Buon 2007!!!