October 31, 2007

A Song For You

Willie Nelson, as I showed in a previous post, has always been a great admirer of Ray Charles. This is why, in his 70th birthday party at New York City's famed Beacon Theatre on April 9, 2003 (released on DVD as “Willie Nelson and Friends: Live & Kickin'”), he gave the world the opportunity to enjoy one of Charles’ last great performances.

“A Song for You”—a slow, pained plea for forgiveness from an estranged lover, as Wikipedia puts it—is a 1970 pop classic song written and originally performed by Leon Russell, one of the most gifted pop songwriters and session musicians of the 1960's and 1970's.

In the video, from the above mentioned DVD, Willie and Leon take a verse of the song and let Ray finish it up, as only The Genius could (he also performed the song in his 1993 album “My World”). During Charles’ performance, as shown in the video, Willie was moved to tears, and I can easily understand why. How about you?


October 29, 2007

Clementina, guardati dal prete!

Dopo la denuncia di “pressioni e intimidazioni,” nonché di “tentativi di delegittimazione e di discredito posti in essere nei miei confronti da parte di soggetti istituzionali,” a Clementina Forleo non rimane che una protesta un po’ estrema: rinunciare alla scorta dei carabinieri. E’ appunto ciò ha fatto sabato mattina, a Pescara, subito dopo aver ritirato il premio «Paolo Borsellino» («perché—pare abbia detto la gip milanese—i vertici dell'Arma non fanno luce su quanto ho denunciato?»).

Ce n’è, comunque, anche per i giornali:

«Quando sui giornali di tiratura nazionale, giornali qualificati, appaiono senza controllo, con la salvaguardia, per carità, del diritto di stampa, notizie false e tendenziose e di discredito di persone che stanno solo facendo il proprio lavoro, senza colore, e’ vergognoso».

«Vogliono dare di me l'immagine di un fiume in piena, di una pazza, una che sta perdendo l'equilibrio».

In questo contesto fanno impressione le parole di Luciano Violante (riportate da L’Unità):

«Mi sono schierato a favore della responsabilità civile dei giudici proprio perché ritengo sbagliato che i giudici si pongano come controparte del potere politico», inizia a dire Violante esprimendo poi «solidarietà umana» alla Forleo che si trova «evidentemente in un momento di difficoltà». Ma non risparmia le critiche, il presidente della commissione Affari costituzionali, sia nei confronti della gip di Milano sia nei confronti del pm Luigi De Magistris per aver partecipato alla trasmissione Annozero.
«Un magistrato non deve utilizzare i mezzi d'informazione per cercare consenso o farsi pubblicità», aggiunge. Anche su De Magistris Violante si augura che il Csm sbrogli la questione presto - dovrebbe pronunciarsi lunedì ndr - e sostiene che anche se l'avocazione dell'inchiesta "Why Not" da parte della procura di Catanzaro «è criticabile», «bisognerebbe leggere il decreto per stabilire chi ha ragione, chi ha fatto la ritorsione», inteso tra Mastella e De Magistris. Secondo Violante bisogna che la magistratura sa messa al sicuro da ingerenze del sistema politico ma non irresponsabile, ovvero - ha spiegato - che cerca consenso invece che nell'applicazione della legge sui mass media, perchè questo tipo di magistratura a suo giudizio è «pericolosa».

Pericolosa, certo. Per qualcuno, almeno, la Forleo è pericolosa. E queste parole, tristemente, lo confermano. Anche se sappiamo bene che cavalcare la tigre del giustizialismo non è più di moda tra coloro i quali, in una stagione ormai lontana, di quella pratica acrobatica avevano fatto una specie di religione. Dunque non è il caso di stracciarsi le vesti.

E tuttavia, di grazia, ci si consenta di dire che appunto fanno impressione il tono severo e il linguaggio sferzante di uno di quei “preti spretati.” Eppure anche questo non deve sorprendere: nelle chiese questo è un deja vu. Violante come quel Milingo, per dire, che era un magnifico scaccia-demoni e poi se non diventa profeta del libero amore poco ci manca. Uno si sente un po’ disorientato, d’accordo, ma poi tira dritto. La sindrome del prete spretato ha colpito ancora. E lo stesso vale per tutti quei giornalisti, direttori ed opinionisti che, al pari di Violante, hanno cambiato idea.

Per quanto possa sembrare imbarazzante, però, questa storia ha un risvolto che, nel suo piccolo, non è meno bizzarro, vale a dire l’incredibile voltafaccia dello scrivente: in odore di eresia un tempo, ed oggi ... quasi crociato! Per Clementina Forleo.

Cosa penso di lei l’ho già detto di recente, quindi non mi sembra il caso di ripetersi (comunque, qui confermo tutto, parola per parola, a scanso di equivoci). Quello che volevo aggiungere, piuttosto, è una certezza: non ce la faranno, con lei. Non perché è solida come una roccia e impassibile come una sfinge (sto pensando a un ex Procuratore della Repubblica di Milano di cui ora mi sfugge il nome …), no, niente di tutto questo. Non ce la faranno semplicemente perché ha dalla sua la fredda ragione. Se poi volessimo aggiungere un tocco di romanticismo, ci metterei perfino quelle lacrime impreviste, quella commozione non soffocata, riflessi di una giovane donna che, oltre a una bella testa, ha anche un cuore.

Ad ogni buon conto, però, mi unisco anch'io—ma per opposte ragioni e con sincero affetto—a chi suggerisce alla coraggiosa gip milanese di aver cura di se stessa, perché effettivamente, come il grande Luigi Magni fa dire ad uno dei sui eroi romaneschi, «er prete è vendicativo» ...

October 27, 2007

Birmania, Tibet

Mentre, grazie ad Asia News, arrivano in Occidente le foto dell’orrore, che qui non ci sentiamo di riprodurre, un valido tributo alla causa birmana viene oggi dal Foglio, con un bellissimo articolo a firma di Carlo Buldrini, pubblicista e scrittore molto addentro ai problemi di quella parte del mondo. Dal 1971 al 2000, infatti, Buldrini ha vissuto in India, dove tra l'altro è stato addetto reggente dell’Istituto Italiano di Cultura (New Delhi). E' inoltre l'autore di In India e dintorni e Lontano dal Tibet, quest'ultimo pubblicato dapprima in India—e subito divenutovi un best seller—con il titolo A Long Way from Tibet.

Sebbene nell'articolo si parli soprattutto del Tibet, emerge ciònondimeno in maniera charissima che le due storie non sono altro che le due facce della stessa medaglia. Buona lettura.


Lhasa. Il monastero di Drepung dista otto chilometri dal centro di Lhasa. Per raggiungerlo bisogna percorrere Beijing Xilu, il tratto occidentale della strada che attraversa l’intera capitale del Tibet. Il monastero è composto da sette grandi edifici: la sala delle assemblee, quattro collegi dei monaci e, un po’ separato dalle altre costruzioni, il Palazzo di Ganden. Il palazzo venne costruito dal secondo Dalai Lama e fu la residenza anche dei suoi due successori. Quando il quinto Dalai Lama costruì il Potala, il Palazzo di Ganden divenne la sede del governo tibetano.

Drepung era il più grande monastero del Tibet. Vi risiedevano più di diecimila monaci. Durante la Rivoluzione culturale gli edifici del monastero vennero usati come stalle e magazzini. Molti monaci vennero imprigionati. Altri furono costretti a lasciare l’ordine religioso dei Geluk e finirono a lavorare nelle Comuni popolari. Ancora oggi molti edifici minori del monastero, quelli addossati alla montagna, giacciono in rovina.

Nei primi anni Ottanta, dopo la “liberalizzazione” di Deng Xiaoping, il monastero ha iniziato a ripopolarsi. Oggi vi risiedono più di mille monaci. Le autorità cinesi li guardano con sospetto. Sanno che è in questo monastero che nascono le rivolte. Era già successo nel 1987.

Lunedì 21 settembre 1987 a Washington D.C., negli Stati Uniti, il Dalai Lama aveva parlato di fronte alla Commissione per i diritti dell’uomo del Congresso americano. Per la prima volta aveva esposto il suo piano di pace in cinque punti per il Tibet: trasformazione dell’intero Tibet in una zona di pace; abbandono da parte cinese della politica di trasferimento della popolazione; rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà democratiche per il popolo tibetano; ripristino e tutela dell’ambiente naturale; inizio di seri negoziati sul futuro del Tibet.

La sera del 25 settembre, a Lhasa, il telegiornale aveva mandato in onda 60 secondi di immagini della visita del Dalai Lama negli Stati Uniti. Il commento che le accompagnava fu durissimo. Il Dalai Lama venne accusato di essere un “criminale che vuole dividere la madrepatria”. Ma la propaganda cinese ebbe l’effetto contrario. Molti abitanti di Lhasa si recarono nel monastero di Drepung per fare offerte in denaro ai monaci e chiedere di pregare per il Dalai Lama. Fu a quel punto che alcuni giovani monaci del monastero decisero che le preghiere non bastavano più. Il 27 settembre, ventuno di loro, percorsero il Barkhor di Lhasa con una bandiera tibetana in mano e al grido di “Bod rangzen, Tibet indipendente”. La repressione della People’s Armed Police (Pap) fu violenta.

Il 1° ottobre 1987 e il 5 marzo dell’anno successivo le proteste riesplosero. Il segretario del Partito comunista della Regione autonoma del Tibet proclamò allora la legge marziale. Il segretario del partito era quell’Hu Jintao che ricopre oggi la carica di presidente della Repubblica popolare cinese.

1987-2007: vent’anni dopo. Il copione sembra ripetersi. Il 17 ottobre di quest’anno, a Washington D.C., il Dalai Lama riceve dalle mani del presidente, George W. Bush, la Medaglia d’oro del Congresso americano, la più alta onorificenza civile concessa dagli Stati Uniti. A Lhasa, in Tibet, i monaci di Drepung sono in festa. Dipingono con la calce bianca la facciata del Palazzo di Ganden, la residenza dei primi Dalai Lama. Sulla piccola strada asfaltata che conduce all’edificio disegnano gli otto simboli del buon auspicio: il prezioso parasole, l’insegna della vittoria, la conchiglia bianca, i due pesci d’oro, il vaso del grande tesoro, il nodo dell’eternità, la ruota con gli otto raggi e il fiore del loto. Simbolicamente preparano il ritorno del Dalai Lama nel suo antico palazzo.

Molti laici si uniscono ai festeggiamenti. Recitano preghiere ed eseguono il rituale del “Sangsol” che consiste nel bruciare incenso e gettare in aria manciate di “tsampa”, la farina d’orzo tostato. E’ allora che tremila uomini del Public Security Bureau (Psb) e della Pap circondano il monastero. Molti monaci vengono picchiati. Corre voce che uno di loro sia morto.

Ma i festeggiamenti per la consegna della medaglia d’oro al Dalai Lama non si limitano alla sola Lhasa. Anche i tibetani delle lontane province del Qinghai (la regione tibetana di Amdo) e del Gansu eseguono il rituale del Sangsol e fanno esplodere mortaretti in segno di giubilo. Anche su di loro si abbatte la repressione cinese, secondo lo stesso copione di quella birmana: ieri la polizia a Rangoon è tornata a circondare i templi buddisti, centri della protesta del mese scorso.

In Tibet, come in Birmania, è nei monasteri – secondo Human Rights Watch ieri erano ancora assediati – che prendono forma le rivolte. Nelle buie stanze degli edifici religiosi è più facile riunirsi e organizzarsi. Quando poi i monaci vengono allo scoperto, si limitano a gesti simbolici. In Birmania, pochi giorni prima della rivolta dell’8 agosto 1988, colorarono di rosso gli occhi delle statue del Buddha. Durante la rivolta che ne seguì morirono più di 3.000 persone, di cui 600 monaci. Quest’anno, i “bhikku” hanno sfilato per le strade di Rangoon con le ciotole ricoperte di lacca nera e lucida, capovolte. Mostravano così di voler rifiutare l’“elemosina macchiata” dei generali e delle loro famiglie.

In Tibet, nel monastero di Drepung, è bastato ridipingere di bianco la facciata di un edificio per scatenare la repressione degli uomini in divisa cinesi. Ma il fuoco continua a covare sotto la cenere. Ha detto il Dalai Lama: “La nostra potrà essere una strada lunga e difficile, ma io credo che alla fine la verità dovrà trionfare”.

October 26, 2007

Draghi? Meglio di Grillo

Che gli stipendi italiani siano «più bassi che negli altri principali paesi dell'Unione europea», come ha rilevato il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, dovrebbe indurre qualche seria riflessione (soprattutto da parte di chi capisce di economia, ma non solo, evidentemente). In dettaglio, secondo dati Eurostat relativi a industria e servizi privati, nel 2001-02, «la retribuzione media oraria era, a parità di potere d'acquisto, di 11 euro in Italia, tra il 30 e il 40 per cento inferiore ai valori di Francia, Germania e Regno Unito».

Il fatto, poi, che le differenze salariali, rispetto agli altri Paesi, «tendano ad annullarsi per i lavoratori più anziani» potrebbe sollevare l’animo di questi ultimi, purché beninteso non si siano preoccupati di mettere al mondo dei figli.

Che, infine, «il differenziale» sia «minore nelle occupazioni manuali e meno qualificate», potrebbe gettare nel panico chi, all’istruzione dei figli, ha cercato o sta cercando, a costo di qualche sacrificio, di non far mancare niente.

Poi c’è chi si meraviglia che i giovani—preferibilmente precari e acculturati—abbiano trovato in Beppe Grillo il loro Vate. Fortunatamente, questo Paese riesce a produrre non solo comici e bloggers dotati di buon intuito e carisma personale. Ogni tanto viene fuori anche un governatore della Banca d’Italia che ha il coraggio di dire cose anche più sgradevoli (e altrettanto sacrosante).

October 25, 2007

Belonging

The more one reflects on it, the more one is convinced, I believe, that the passage from constraint to freedom is accomplished in belonging. This, however, opens up a vast field for meditation. How indeed shall we judge the modern anarchical notion of freedom which implies precisely the fact of not belonging to anybody or anything? Analysis discloses that what is here presented as a plenitude may be after all only a void. We should closely examine, however, the historical relation between this anarchical individualism and a socialism which at first sight seems to be opposed to it in every respect, since they have not only developed concurrently, but have even at times encroached on one another; as though, by a clearly marked dialectic, the unity without content of a self which belongs to nobody gave birth to the false plenitude of a social idolatry to fill or absorb it.
Gabriel Marcel (1940)

Hat tip: A Step At A Time

October 23, 2007

Walter sugli scudi, per un giorno

A volte non solo la storia è magistra, anche la cronaca può esserlo, anzi, a volte si impara più da questa che da quella, perché è più fresca e “sanguigna,” ovviamente, e dunque meno libresca e quel che ne consegue. Un insegnamento fondamentale, credo, è che l’equanime—inteso come categoria dello spirito—sia meglio del fazioso, e che un prudente distacco sia sempre preferibile a qualsiasi altro approccio alle questioni, anche quando ci porta a dar ragione ai nostri avversari, o quanto meno a render loro l’onore delle armi quando se lo meritano.

E’ appunto questo che la cronaca ci ha insegnato (ricordato) proprio oggi. Due approcci, due stili diversissimi, uno stesso oggetto di indagine: nell’ordine, Carlo Panella, un “anonimo” editorialista del Foglio e la lettera di Walter Veltroni al Corriere della Sera (di sabato scorso). Tra parentesi, qualche minuto fa, a Otto e mezzo, Giuliano Ferrara ha apostrofato Belpietro, Mentana e Guzzanti, chiamati a discutere sul destino del governo Prodi—quando non si sa di cosa parlare si casca sempre su argomenti rigorosamente pallosi—con un inopinato «vogliamo per una volta far finta di essere pensosi del bene comune?», che, diciamo, può aver fatto trasalire il cinque percento dell’uditorio, e comunque ci stava proprio, perché ar popolo, in fondo, il concetto non dispiace. Vabbè, e con questo? Niente, era solo per suggerire una chiave di lettura del post, ma senza alcuna pretesa.

Allora, per andare al dunque, leggete cosa hanno scritto, più o meno in contemporanea, Panella e l’anomnimo (vedi qua sotto), quindi, volendo, ripensate all’estemporaneo motto ferraresco, infine fate le vostre valutazioni. La mia è questa: l’anonimo ha ragione, perché ciò che serve al Paese è un centrosinistra veltroniano—vincente o perdente importa relativamente—, e che il sindaco di Roma vi stia antipatico, che non vi fidiate di lui, che fino a ieri foste scettici e disgustati, e che non siate capaci di dimenticare che lui è quello che diceva di non essere mai stato comunista (ogni volta che ci ripenso, per dire, mi viene il sangue agli occhi), non può far velo al fatto che, per una volta, Uòlter ha espresso concetti giusti. Poi si vedrà quando, più avanti, tornerà sull'argomento, e più ancora quando dovrà mettere in pratica, ma intanto quel che è detto è detto. Quanto a Panella, lui, mi è sempre sembrato un ultra, e dopotutto, sia detto senza malanimo, anche allo stadio non credo di avere niente da spartire con la categoria.

Dal Foglio di oggi:

Che godimento leggere Walter Veltroni quando inchioda sulle pagine del Corriere della Sera i problemi della politica estera prossima ventura. Che bello vedere un leader progressista in evasione ragionata dalle piccole beghe nazionali e che nella lettera si prende addirittura la briga di citare il Pakistan – paesucolo da 160 milioni di persone con armamento nucleare annesso che peserà sul nostro futuro persino più di Ceppaloni. E fosse soltanto il Pakistan. E’ un discorso generale. Bombardieri strategici russi. Delhi. Taiwan. Polonia. Trattato di non proliferazione. Medio oriente. Mediterraneo pacificato. Gruppi terroristi. Scudo antimissile. Il tutto senza la fronte corrucciata di chi a sinistra risponde a domande difficili e noiose soltanto perché è rimasto prigioniero del suo incarico o del rango istituzionale, ma con la penna veloce di chi sente l’urgenza non rimandabile delle cose da dire. Si tratta di un evento irripetibile? No, le stesse cose Veltroni le ha già scritte dieci giorni fa sulla Stampa. Che l’idea di un Iran nucleare è inaccettabile, che è una minaccia pericolosissima per Israele, che le immagini viste su Internet dei balordi che fanno il saluto nazista ad Auschwitz sono il segno che il mondo “non è mai al riparo dai suoi stessi orrori”, che su tutta la questione si gioca la credibilità della comunità internazionale e delle sue istituzioni. A questo va aggiunto che il senatore Goffredo Bettini, suo braccio destro, ha osato pronunciare quello che tutti pensano e nessuno dice, ovvero che siamo bravi a far la voce grossa con le nazioni che non contano nulla, ma che se la Cina è il supporto fondamentale della dittatura birmana, per tacere delle violazioni dei diritti umani su scala industriale di cui si macchia in patria, allora bisognerebbe riconsiderare sul serio l’idea cortese e ipocrita di partecipare alle Olimpiadi di Pechino del 2008. Il tutto, sia Veltroni sia Bettini, in altri luoghi sarebbe considerato semplicemente lo svolgimento onesto e senza sbavature del compitino da parte della leadership avventizia indicata da una metà politica del paese. Davanti al governo espresso da quella stessa metà politica, l’effetto è invece esplosivo. Nulla arriva sull’Iran e sul suo programma atomico che sia diverso dal: “Ci vuole dialogo, serve comprensione” di Massimo D’Alema e del premier Prodi. Qualsiasi cosa accada, “ci vuole dialogo, serve comprensione”. Leggessero Veltroni, almeno.

October 20, 2007

What an enlightened Left we have

I must confess that, in the present days, almost the only way I can write about the vicissitudes of the Italian Left is to do so in English (and this is likely why my posts on that subject aren’t as many as they should ...). I guess this is a tedium-related problem, due to a sort of saturation effect—too many disappointments, frustrations, rages. It’s a hard life being a reformist in Italy, or even having been so for years, as I can testify from personal experience.

Yet, when I write in English it seems to me as if I were speaking of something else, or of someone else's country. But this time it’s even more easy to write my post, because what I would have liked to say about Italy’s new Democratic Party—that is the result of the merger of the ex-communist Left Democrats with Democracy and Freedom (Margherita), made up mainly of former Christian Democrats—and its first leader, the 52-year-old mayor of Rome Walter Veltroni, has been written already, by The Economist this week:

For the formidable task of pulling together Italy's heterogeneous centre-left, Walter Veltroni is an excellent choice. But what his country really needs in its next prime minister is somebody bold enough to open its fusty economy to greater competition. Little in Mr Veltroni's record suggests that he is the man for that job.
[Read the rest]

Ah, I was forgetting to say that, thanks to a draft-law proposed by the centre-left government on October 12 (if approved by the Parliament), this blog, alike 99% of Italy’s blogosphere, is likely to be closed down soon. In fact, the draft-law, aimed “to put a stopper in the mouth of the Internet,” as famous blogger and comedian Beppe Grillo puts it, obliges anyone who has a website or a blog
> to record it with a register of the Communications Authority,
> to get a publishing company
> and to have a journalist who is on the register of professionals as the responsible director (see Beppe Grillo’s blog for further information).

What a great team we have. What an enlightened Left.

October 18, 2007

Oh, America!

Niente di più ovvio: il mensile americano Atlantic Monthly chiede a romanzieri, politici e artisti di raccontare l'“idea americana?” Bene, Il Foglio ripropone in traduzione italiana la risposta di Tom Wolfe. E ha fatto benissimo, perché l’esercitazione storico-letteraria è magnificamente riuscita sotto molti punti di vista: è divertente, icastica e colorita come ci si può aspettare dallo scrittore che ha inventato l’espressione “radical chic,” e dunque non è per niente “accademica” pur sfornando informazioni preziose e non esattamente alla portata di tutti.

Wolfe racconta una storia americana che ha la sua parte di bizzarria, quella del “metodo Pell-Mell,” che sta a indicare una confusione e un disordine pazzeschi, ma da cui si sprigiona un’energia e una creatività che hanno fatto l’America.

Sarà pure un affresco che parla di gente alla carica “come galline con il collo tagliato,” ma questo è il metodo che in Oklahoma, nel 1889, ha dato per la prima volta nella storia l’opportunità a dei poveracci di diventare proprietari terrieri, così, «gratis et amore», come il Manzoni fa dire a quell’altro disperato—ma pieno di buona volontà, forza d’animo e giuste ambizioni—di Renzo Tramaglino,

metodo gloriosamente Pell-Mell! Chi primo arriva meglio alloggia!160 acri per ogni appezzamento, ed erano tuoi, gratis! Al tempo della prima corsa alla terra dell'Oklahoma, nel 1889, ci fu davvero un Pell-Mell, nel senso più letterale del termine, una corsa confusa, disordinata e a precipizio. La gente si allineava sul confine del territorio e, al colpo di una pistola, si metteva a correre verso una parte di terreno libero. Gli europei la consideravano un'altra follia di… questi americani… che sperperavano un immenso patrimonio nazionale in questo modo infantile per una massa casuale di signor nessuno. Non riuscivano a immaginare la possibilità che, al contrario, si sarebbe potuto dimostrare un modo notevolmente stabile di sistemare il West, di trasformare i coloni in proprietari che avevano molto da guadagnare rendendo produttiva la terra… o che avrebbe potuto portare, come sostiene lo storico inglese Paul Johnson, “all'immenso beneficio di un libero mercato della terra, cosa che non era mai successa prima, nel mondo intero”.

E chi ha inventato questa cosa? Uno di quei “selvaggi” che facevano inorridire l’intero corpo diplomatico europeo di stanza a Washington? Macché, è stato il proprietario di una quantità di terre praticamente indecente, e per di più coltissimo—latino, francese e greco come niente—e sofisticato, urbano e cosmopolita—già ambasciatore in Francia, alla corte di Luigi XVI!—tanto che nessuno, proprio nessuno poteva liquidarlo come uno di… “quei selvaggi.” Capito di chi stiamo parlando? Ma sì, è lui, il forgiatore dell’America, delle libertà americane, della democrazia americana (“garantita a prova di stupido”): il vecchio Thomas Jefferson in persona.

A fare per primo le spese della geniale invenzione furono nientemeno che l’ambasciatore di Sua Maestà Britannica e la sua signora, praticamente lasciati … con il sedere per terra nel corso di ricevimenti ufficiali dove vigeva la regola aurea del “chi primo arriva meglio alloggia.” Perché in America non c’era (non c’è) aristocrazia che tiene—oggi diremmo che non c’è spazio per alcuna “casta”—e che ognuno si conquisti il posto con il "metodo gloriosamente Pell-Mell."

C’è altro? Ma sì, c’è molto altro, perciò leggiamo, leggiamo e apprendiamo. Poi, se vi viene da sospirare, sospirate, ma non intristitevi: questa è anche la nostra America, la patria ideale che nessuno potrà mai toglierci.

Ma Il Foglio è sempre Il Foglio

Aveva ragione Alan che stamattina segnalava sul suo blog il paginone centrale (qui e qui) del Foglio di oggi. Infatti, a parte un Cicero pro domo sua comprensibilissimo (un pezzo che si fa leggere volentieri sui successi del “surge” iracheno del generale Petraeus, riprodotto anche su Sciopenàuer), c’è una cosa interessante di Christian Rocca sul patriottismo di Hollywood, che sarà pure de sinistra ma business is business, e su questo non ci piove, quindi diamoci dentro (anche qui il blog riproduce). Ma non è tutto: c’è una storia curiosa raccontata da Tom Wolfe sull’Atlantic Monthly, una storia americana. Impedibile. Ma magari ne faccio un post ad hoc. Sempre che le circostanze me lo consentano—giovani, pensateci bene prima di metter su famiglia, non aggiungo altro! Ehi, sto scherzando, perciò, cari lettori papisti, non me ne vogliate …

October 17, 2007

I Questuanti? Un alibi che zoppica

Tempo di recuperi. Recuperi di files sparsi sul desktop e abbandonati per sopraggiunti impegni. Giuro che ieri volevo assolutamente scrivere qualcosa sul Partito democratico. Avevo accatastato tre o quattro cose, in parte lette di gran carriera, in parte ancora da esaminare (ma certe firme sono di per sé una garanzia), quando la mia visita quotidiana al sito del Foglio mi ha inesorabilmente distolto dal pagare il mio tributo alle primarie di domenica. Poi ha dovuto cedere al “destino della necessità”—ah, come farei senza le mie citazioni (questa, assolutamente superba, è di Severino) in certi casi disperati!—anche la scoperta che ha annichilito il Pd. Ma oggi, a notte avanzata, posso finalmente riafferrare l’attimo fuggito.

Dunque, è iniziata ieri la pubblicazione di una specie di dossier in tre puntate, a firma di Stefano Di Michele, su una “casta” di cui Stella e Rizzo non si sono minimamente preoccupati di render conto nel loro libro: i Questuanti, cioè quegli elettori che vanno a rompere le scatole ai loro onorevoli per chiedere … praticamente di tutto. Valeva o non valeva la pena di scansare il tema del momento per occuparsi ancora una volta di una casta, e per giunta inedita? Secondo me sì. Di Michele, comunque, rende conto soltanto delle richieste più strampalate, che poi sono semplicemente volgari tentativi di ottenere raccomandazioni, ma di un tipo particolarmente bizzarro e “ai confini della realtà.”

Una lettura sicuramente esilarante che raccomanderei vivamente a tutti, ma soprattutto a coloro i quali, non avendo mai fatto politica attiva, non hanno idea di quel che succede intorno agli esponenti politici di qualche rilievo, né sono al corrente di certe cattive abitudini di troppi elettori (di quelle degli eletti, naturalmente, tutti sanno già quel che c’è da sapere). Per facilitare le cose a chi fosse interessato, ho riprodotto integralmente la prima puntata dell’inchiesta qui (per le prossime, magari, vedete di arrangiarvi un po’ da soli).

Buona lettura, insomma. Ma prima di congedarmi vorrei dire due o tre cose. Dunque, molto divertente, il tutto, non c’è dubbio. E soprattutto molto vero, purtroppo, ed anche un tantino umiliante (come italiano, dico). Però, sinceramente, questo tipo di “operazione culturale”—lo è, ne sono sicuro—lo trovo abbastanza patetico e, forse, anche un po’ cinico.

Se si pensa di neutralizzare il “grillismo” in questo modo si commette un grave errore. Siamo d’accordo che certe cose succedono frequentemente, che la cosiddetta “classe politica” non è peggiore di buona parte (almeno) di coloro che se la sono scelta votandola, ma additando le malefatte degli elettori non si rende un servizio alla politica, ma solo ai politici, che certamente non se lo meritano (e non ne hanno neppure bisogno, tanto nessuno è in grado di metterli complessivamente in seria difficoltà). Perché, se non credo abbia senso aspettarsi (o sognare) che i rappresentanti siano migliori dei rappresentati—un ragionamento à la Eugenio Scalari, che sottende, a mio modestissimo avviso, una certa insofferenza per il metodo democratico tout court—non penso neppure che sia un’operazione legittima riabilitare gli uni mettendo alla berlina gli altri. Alla fin fine, i rappresentanti sono pagati dai rappresentati, non viceversa (ehm, almeno non ufficialmente), e certamente la retribuzione non è finalizzata a garantire, malgoverno, incapacità, malversazioni e altre nefandezze. Non c’è soltanto un problema di rappresentanza, per così dire, “antropologica,” con cui fare i conti, c’è anche una rappresentanza politica, e mi pare che quest’ultima sia quella che dovrebbe interessarci di più.

Facciamo un esempio estremo. Immaginiamo una società composta esclusivamente da gente corrotta e incapace: chi può pensare che gli elettori sarebbero così sciocchi da voler essere rappresentati e dunque governati da manigoldi che li derubassero e li mandassero in rovina? Ma questi ultimi, si potrebbe obiettare, rispecchierebbero quella certa società! Certo, ma questo li preserverebbe forse dalla giusta ira degli elettori, i quali li hanno votati e li pagano non certo per farsi imbrogliare e condurre alla bancarotta?

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AGGIORNAMENTO 1. La seconda puntata dell'inchiesta è sul Foglio di oggi, 18 ottobre 2007.
AGGIORNAMENTO 2. La terza puntata è sul Foglio del 20 ottobre.

October 15, 2007

Sciopenàuer trasloca

Sciopenàuer, il blog di Alan Patarga, ha lasciato Splinder per approdare a Blogspot. Alan è un giornalista. Attualmente scrive sul Foglio (a proposito: congratulazioni!), ma quando ho fatto la sua conoscenza, qualche anno fa, era al Corriere Canadese. Credo di essere stato tra i primi a linkarlo, segno che ogni tanto ne indovino una. E se oggi sono tra i primi a segnalare anche il cambio di casa, oserei dire che nel frattempo non ho perso colpi. In bocca al lupo, Sciopenàuer!

Date a Wittgenstein quel che è di Wittgenstein

Caso Stenico. Non ho visto il programma televisivo (“Exit,” su La7) da cui tutto è partito, ne so soltanto quanto è stato riferito dai giornali, e, su quella base, la questione mi è sembrata abbastanza chiara: l’alto prelato è risultato, per esprimersi in termini politically correct (o almeno ci provo), “non in linea” con quanto il Catechismo della Chiesa Cattolica prevede, e a fortori, oserei dire, con la condotta che si presume debba venire seguita da persone che ricoprono funzioni importanti all’interno della Chiesa, dalle quali, appunto, si può legittimamente pretendere che agiscano in conformità con i principi e le regole di comportamento che valgono per i “semplici” fedeli.

Ora, si badi bene, un non-cattolico può essere o meno d’accordo con quei principi e quelle regole, sono affari suoi e della visione del mondo che ha (oppure non ha) o della setta, congrega o consorteria cui appartiene. Ma se uno è «cattolico»—che non è esattamente lo stesso che dire, genericamente, «cristiano»—non può, o se si preferisce non dovrebbe, gestirsi come se non lo fosse. Quindi il prelato è in torto marcio, mentre chi eventualmente glielo facesse notare—e gli chiedesse conto del suo agire—sarebbe nel giusto.

La novità di oggi, in materia, è che su la Repubblica si legge un’intervista in cui il cardinale Herranz, giurista e presidente della Commissione disciplinare del Vaticano, esprime con parole che mi sono sembrate misurate e prudenti il suo punto di vista (che poi è quello ufficiale del Vaticano) sulla vicenda. In particolare il cardinale fa presente “che è la Santa Sede la prima ad essere interessata a fare pulizia al suo interno. Sempre se le colpe saranno provate in un adeguato processo.”

Onestamente, a me sembra che il cardinale abbia perfettamente ragione, e questo al di là dell’espressione “fare pulizia,” che è piuttosto forte, ma che è tollerata e anzi quasi d’obbligo quando si discute, ad esempio, di abusi politici e amministrativi, in quanto rende bene l’idea che certi comportamenti non sono accettabili e vanno censurati con fermezza. Per cui proprio non riesco a capire perché, su un blog che ha tanti meriti, e che meritatamente è letto da tanti utenti della blogosfera, si leggano sentenze come questa (e con un titolo piuttosto altisonante e categorico):

Se Dio esistesse, non sarebbe il vostro
A me l'intervista (su Repubblica) al cardinale Herranz sui preti gay, a base di espressioni come "fare pulizia", fa un po' schifo.

Ora, a me sorgono spontanee tre obiezioni:
a) l’intervista non è “a base di espressioni” come “fare pulizia,” in quanto contiene un ragionamento un po’ più articolato (come si evince leggendo il testo, che è riprodotto qui);
b) nel titolo c’è un’evidente incongruità: uno potrebbe risparmiarsi di emettere sentenze su come e cosa dovrebbe essere, a suo modesto avviso, Colui all’esistenza del quale non crede: molto meglio quando Luca Sofri dice la sua su come e cosa dovrebbe essere il segretario del Pd (solo un pochino meno persuasivo sarebbe quando, a lui che è di sinistra, venisse in mente di provare a fare la stessa cosa sul versante CdL);
c) se a qualcuno “fa un po' schifo” l’intervista del cardinale, a qualcun altro potrebbe fare lo stesso effetto un post di 2-righe-2 in cui vengono “sistemati” un cardinale e, sia pure alla lontana e un po' alla buona, nientemeno che Domineddio.

October 14, 2007

Al Gore, bushiano ante litteram

Del premio Nobel per la Pace Al Gore si potrà dire tutto il bene o il male possibile, a seconda di come si giudica il suo impegno ambientalista e il “metodo di lavoro” seguito per portarlo avanti. Perché tutto è opinabile, in materia di ambiente come in qualsiasi altro ambito di indagine e dibattito. Tutto tranne i fatti, naturalmente.

In politica estera, e specificatamente sulla questione Iraq e Saddam Hussein, aver preso con chiarezza una posizione e averla sostenuta per anni e con determinazione son fatti, fatti che possono piacere o meno, ma che non sono opinabili in quanto tali. La posizione di Al Gore, appunto, fu sempre chiara e coerente. E fu una delle più severe e inflessibili verso il regime di Saddam, di cui si auspicava la caduta, fino alla teorizzazione di soluzioni “forti” e senza troppi compromessi.

Lo ha documentato—in maniera a mio avviso esauriente e persuasiva—Christian Rocca sul Foglio di ieri: un colpo basso degno del miglior giornalismo di parte. Che poi quella sia la parte alla quale qui ci si sente più vicini è un particolare trascurabile. Il Nobel per la Pace, per vie traverse, è andato a un bushiano ante litteram.

October 10, 2007

Left & criticism

During the last general election campaign in Italy, I tried to explain to foreign readers how often the mainstream media in their own Countries—and some “international” blogs, too!—grossly misunderstand even the most basic political issues which we are facing today. One of them is “The Freedom of the Press.”

Well, even though I have never been a supporter of former Prime Minister Silvio Berlusconi, one thing I strongly disagreed with was, at the time, the conviction that Il Cavaliere represented a threat to press freedom (and to freedom tout court). If this is so, I argued, his opponents are not exactly lighting up the sky with their brilliance as fighters for the cause and guardians of the independence of the Country’s media. In other words, “if Athens cries Sparta does not laugh,” and if you want to tell the truth, you should report the entire truth, namely also the intolerance to criticism and the freedom of press of the Left itself.

Read this to get a better idea of what I’m talking about:

In an interview with Riccardo Barenghi, the left-leaning Italian journalist Michele Santoro, who comperes a controversial programme on a public TV channel, says that he thinks "Prodi and Berlusconi are the same when it comes to the media. The only difference between them is that in his time Berlusconi had my show stopped. ... I am now back on air and this time it is Prodi who cannot tolerate freedom of information. ... He attacked my show, describing it as 'non-professionnal', while admitting that he had not seen it. I think that such an attitude is very serious coming from the prime minister. ... We are up to our necks in what I call the sickness of the democratic system. Politicians on the right and on the left cannot come to terms with the idea of a free media that acts as a counterweight to political power."
[Read the full interview in Italian on La Stampa newspaper]


As for the intolerance to criticism by the Prime Minister and his government, see how Mr Prodi himself and the Minister of Social Solidarity Paolo Ferrero, reacted to the remarks by EU Economic and Monetary Affairs commissioner Joaquin Almunia about the lack of progress by certain euro zone countries, particularly Italy and France, in consolidating their public finances during the current upturn. Mr Prodi, very annoyed, said "They should let us govern," while Mr Ferrero, more prone to anger, argued that Mr Almunia

"talks too much and off the point, and should he stop speaking like a columnist or as if he were concerned in the matter of domestic affairs of other Countries [sic!], he would cause no harm."


Unfortunately for them, today Mario Draghi, governor of the Bank of Italy, addressing parliament's joint budget committee, has added his voice to that of European Union, saying that “progress on reducing net debt in the two year period of 2007 and 2008 seems slow” and that much, much more should be made.

October 8, 2007

Se le tasse siano da considerarsi una cosa bellissima

La storia di Tommaso Padoa-Schioppa che dice le-tass-sono-una-cosa-bellissima ecc., ecc., ha suscitato un vespaio paragonabile a quello sui «bamboccioni», ed oggi molti giornali l’hanno giustamente ripresa riportando le immancabili dichiarazioni dei politici dell’uno e dell’altro schieramento. Penso, però, che sia più interessante per tutti il commento di una persona normale che, è vero, guarda alle cose italiane un po’ più da lontano rispetto ai suoi concittadini, ma forse proprio per questo coglie il nocciolo della questione …

October 7, 2007

Nuovi blogs (2)

A proposito di nuovi blogs, anzi, in questo caso di blogs nuovi (per me), grazie a un link piazzato in un simpatico blog che ho appena scoperto e che mi linka (grazie, ho appena provveduto a contraccambiare), ho potuto fare la conoscenza di quello del vaticanista Luigi Accattoli (Corriere della Sera). Gradevolissimo il taglio aneddotico e informale, nel senso di volutamente non specialistico. Lo linko ipso facto e non mancherò di visitarlo con regolarità. E se qualcuno in vena di fare le pulci ai blogs altrui—magari con un certo talento, come in questo caso—trova che un po’ mi contraddico rispetto al post precedente, mi limito a recitargli il seguente pensierino di una grande anima del passato:


Una stupida coerenza è l'ossessione di piccole menti, adorata da piccoli uomini politici e filosofi e teologi. Con la coerenza una grande anima non ha, semplicemente, nulla a che fare. Tanto varrebbe che si occupasse della sua ombra sul muro. Dite quello che pensate ora con parole dure, e dite domani quello che il domani penserà con parole altrettanto dure, per quanto ciò possa essere in contraddizione con qualunque cosa abbiate detto oggi.
[Ralph Waldo Emerson, Fiducia in se stessi]

October 6, 2007

Nuovi blogs

Premessa numero uno: non amo i blogs dei giornalisti, tranne rare eccezioni—e trattasi per lo più di gente che scrive per testate di provincia, sgobboni della blogosfera che ci credono abbastanza e non presumono troppo di sé.

Premessa numero due: non amando il genere, i blogs dei giornalisti li leggo sì e no, e spesso non so neanche quali sono e dove sono (sì, sì, lo so che le due proposizioni sembrano in contraddizione tra di loro, ma non lo sono, fidatevi).

Camillo è una storia diversa. Intanto è un pioniere della blogosfera, anche se, fino a ieri, era un blog per modo di dire (niente commenti, niente permalinks e così via, una roba straziante, tecnicamente parlando), in secondo luogo è una buona fonte per sapere cosa si scrive, si pensa e si fa in America—e senza prendersi la briga di trascorrere mezze giornate al pc per arrangiarsi da soli. Inoltre, benché effettivamente poco provvisto di modestia, l’autore riesce talvolta a ironizzare su se stesso, il che, oltre a rendere quasi superflua l’ironia altrui, depone a favore del suo equilibrio mentale. E hai detto niente, di questi tempi, spazzati da ondate di follia collettiva e percorsi dai predicatori dell’anti-politica e persino dell’anti-informazione, in nome della guerra santa alle «caste», ovunque si celino e comunque si camuffino!

Oltre a tutto il resto, Camillo ci tiene regolarmente informati, appunto, sui blogs dei giornalisti, ché quando ne nasce uno, lui non manca di segnalarcelo tempestivamente. Ad esempio, ora perfino il sottoscritto è al corrente che Travaglio Marco ha un altro blog (“manettaro”), anzi due. Vado a vedere e scopro che ce n’erano già altri tre, tutti sul Cannocchiale, chissà perché. Ma non basta, sempre grazie all’instancabile filantropo scopro che pure Furio Colombo ne ha fatto uno, e così Gad Lerner. Uno dice, embé? Io rispondo che è sempre meglio essere à la page: sapere è potere, dopotutto, poi nel caso non ci vado più, ma intanto … li ho visti!

Da qualche ora Camillo è un blog tutto nuovo, che sarebbe il motivo di questo post. Neanche il paragone con la versione precedente: dare un’occhiata per crederci, quei pochi, nella moltitudine dei visitatori quotidiani, che ancora non avessero provveduto. Poi padronissimi di non metterci più piede. La qualcosa, se degli States non ve ne può importare di meno, non sarebbe una tragedia, ma neppure, dico io, una liberazione—e da cosa, dopotutto?

October 3, 2007

Birmania: sanzioni, ma non solo

Ma le sanzioni servono a qualcosa? E’ un interrogativo ricorrente. Se ne discute ogni qualvolta nel mondo accade quello che non dovrebbe mai accadere e in tutti quei casi in cui il dialogo, anche ai massimi livelli internazionali, si è rivelato sterile, quando il lavorio diplomatico, le proteste ufficiali o addirittura le minacce hanno fallito miseramente. Ovvio che il tema sia di strettissima attualità nel caso Birmania. Ma di sanzioni da parte dell’Onu, nella fattispecie, non se ne parla nemmeno, visto il veto di Pechino, l’altolà di Mosca nei confronti di chi pretenderebbe “interferire negli affari interni” di quel Paese, e le orecchie da mercante di New Delhi, che per il gas birmano, neanche in questo momento, rinuncia a fare affari con i massacratori di monaci. Una pagina vergognosa, se posso dirlo, pur con tutto l’affetto per un Paese e un popolo fantastici, o quanto meno assai poco gandhiana, come si legge su DNA - Daily News & Analysis, un quotidiano che si stampa da quelle parti:

On a day when the United Nations along with India is celebrating Mahatma’s Gandhi’s life and his ideologies of truth and non-violence, the government’s refusal to condemn the use of force against demonstrations by peaceful Buddhist monks in neighbouring Burma is ironic.
If Gandhi were alive would he not have spoken out? But the Congress-led coalition in New Delhi, has so far continued to walk a tight rope on the suppression of democracy in its neighbourhood. New Delhi is fighting shy of using its clout with the generals to broker a deal between the generals and the national league for democracy led by Aung San Suu Kyi.
[Leggi il resto]

Restano, è vero, gli Stati Uniti e l’Unione europea, che del resto qualche misura l’hanno già presa in passato: da dieci anni—come ricorda Andrea Lavazza nell’editoriale che si legge su Avvenire di oggi—la Ue ha vietato il commercio di ar­mi, sospesi gli aiuti e revocato lo status di partner com­merciale privilegiato (Lavazza dice anche che sono stati congelati i beni di quei galantuomini dei generali, ma su questo ho qualche dubbio), mentre Washington, dal canto suo, ha bloccato nuovi investimenti e, in parte, le im­portazioni dalla Birmania. A cosa è servito? Evidentemente a nulla.

E allora? Beh, innanzitutto, come sostiene Bernard Henry-Lévy sul Corriere di oggi, sullo strumento “sanzioni” bisogna fare qualche doverosa distinzione e magari smetterla con il ritornello delle «sanzioni-che-non-servono- a-niente-e-che-in-realtà-danneggiano-soltanto- coloro-che-vogliamo-aiutare». Diciamolo: ha qualche ragione Henry-Lévy quando fa notare che è troppo facile, e pure un po’ da “paraculi,” cavarsela in questo modo (“si intuisce troppo bene la scaltrezza di chi, comunque, non vuole fare niente, soprattutto non vuole tentare niente e ancor meno vuole complicarsi la vita”). Ma, a parte questo, l’argomento che a rimetterci, dalle sanzioni, non sono i capi, bensì il popolo, almeno nel caso birmano, è “particolarmente fuori luogo,” e questo per alcuni dati di fatto difficilmente contestabili:

il 75 per cento della popolazione birmana vive di sola agricoltura in un regime quasi autarchico; buona parte di questo 75 per cento vive nascosta nelle foreste per sfuggire a una repressione di cui abbiamo appena intravisto la costante e assoluta brutalità; i monaci stessi, letteralmente bhikku, mendicanti, vivono in una condizione di frugalità che è l'essenza del loro essere; il resto dell'economia, quella di un certo peso, è stata accaparrata da una cricca di ufficiali assassini che la controllano direttamente; insomma, siamo di fronte a un caso esemplare in cui, al contrario, se le sanzioni fossero applicate, andrebbero dritte al bersaglio, senza rischio di sbagliarlo, e indebolirebbero immancabilmente la gang del generale Than Shwe.

A me sembra che il ragionamento non faccia una grinza. Anche perché è bilanciato da considerazioni altrettanto realistiche e persuasive, ma di segno opposto: non ci si può nascondere un’altra elementare verità, e cioè che le sanzioni sono inefficaci quando una parte del mondo le applica e l'altra ne approfitta sfacciatamente, e questo è precisamente ciò che sta succedendo in Birmania, mentre il successo è assicurato quando, come nel caso del Sud Africa, si crea un fronte unito contro l’infamia. E dunque? Condannati nonostante tutto al pessimismo? No, dall’impasse si può uscire, ma a patto di assumersi, contestualmente alle sanzioni, qualche rischio supplementare, tipo intraprendere “un braccio di ferro diplomatico con gli amici indiani,” o fare inequivocabilmente capire ai cinesi

quanto sia difficile concepire che le Olimpiadi abbiano luogo nella capitale di un Paese che incoraggia un regime il cui sport nazionale sembra sia diventato quello di prendere al lazo, picchiare, deportare, torturare e, alla fine, assassinare uomini che hanno, come unica arma, una ciotola di lacca nera rovesciata.

Fin qui si spinge Henry-Lévy, che non arriva, tuttavia, a teorizzare l’opportunità di un boicottaggio delle Olimpiadi del 2008. Probabilmente, al pari dell’editorialista di Avvenire, pensa a qualcosa di “intermedio,” come

minacciare un black out informativo totale sull’evento da parte dei mass media occidentali, un oscu­ramento (finanziato dai governi, visti i diritti già pagati) che vanifichi il ritorno di imma­gine sperato da Pechino e funga anche da contrappasso alle censure cui è oggi sotto­posta la crisi birmana.

Ma non poniamo limiti alla fantasia di antiche e consolidate diplomazie. L’importante è crederci, fermamente, il resto verrà da sé (e comunque non mi sembra niente male l’ideuzza del quotidiano della Cei …).

October 1, 2007

Sarko affonda la politica estera italiana

Il Panebianco che graffia e fa male è tornato. Se non sbaglio era un po’ di tempo che non lo si vedeva in azione. Stavolta il bersaglio è la politica estera del governo italiano, e l’obiettivo mi pare sia stato centrato e affondato con un colpo solo. Con la vittoria di Sarkozy è venuta meno la sponda francese, essenziale per D’Alema e Prodi, che vi puntavano le loro carte per non incorrere nei veti delle componenti massimalistiche del loro governo, ed ora l’Italia rischia l’isolamento internazionale. L’era delle ambiguità, comunque, è finita. Il caso Iran sarà la cartina di tornasole di questa nuova realtà, con un Bernard Kouchner che ha preso definitivamente atto che il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, bloccato dai veti russi e cinesi, non serve più a niente, e dunque propone che sia l'Europa a imporre proprie sanzioni agli iraniani. Insomma,

che farà l'Italia se sulle sanzioni la Francia otterrà l'assenso della Germania e di altri Paesi europei? Sceglierà di dissociarsi? Difficile crederlo. Anche dal punto di vista simbolico, continuare a nascondersi dietro l'ombra dell'Onu (impotente a causa delle posizioni russe e cinesi) rifiutando di partecipare a una azione concertata europea sarebbe assai difficile. Il dilemma può essere così riassunto: aderire a una iniziativa tutta «occidentale » (americana e europea) contro l'Iran al di fuori dell'Onu sarebbe impossibile per il governo Prodi a causa dei suoi equilibri interni di coalizione. Ma non aderire sarebbe altrettanto impossibile a causa dell'insostenibile isolamento italiano che ciò provocherebbe. Comunque vada, il tempo degli equilibrismi e delle ambiguità della politica estera italiana sembra ormai scaduto.