March 24, 2008

La notte del Tibet


La notte del Tibet è cominciata. Sì, le ore più drammatiche sono proprio queste. L’articolo scritto da Carlo Buldrini per Il Secolo XIX di venerdì scorso (21 marzo) spiega perché. E per quale ragione il problema se boicottare o meno le Olimpiadi di Pechino è mal posto. Le responsabilità dell’Occidente, in ogni caso, sono pesantissime. Lettura, ovviamente, raccomandata.

Il Tibet sta scomparendo dalle prime pagine dei giornali. I corrispondenti da Pechino fanno adesso da megafono alla voce del regime. Titolava La Repubblica del 19 marzo: «Pechino: “Sul Tibet tante bugie”. Il premier [Wen Jiabao]: “Prove contro il leader buddista”. Testimoni: a Lhasa è caccia al cinese». Eppure, per i tibetani, sono proprio queste le ore più drammatiche. Sul Tibet è calata la notte. I turisti - anche quelli cinesi - sono stati rispediti a casa. L’accesso ai giornalisti è vietato. Le comunicazioni sono state interrotte. Per conoscere cosa stia esattamente accadendo nel Paese delle nevi dovremo forse attendere anni. Sarà solo quando i nuovi detenuti politici tibetani, scontata la pena, riusciranno a fuggire in India che si conoscerà nei dettagli quanto è accaduto in questi giorni. Qualcosa, tuttavia, lo si può intuire. Perché i precedenti non mancano.

A McLeod Ganj (Dharamsala) c’è un’associazione di ex prigionieri politici tibetani. Si chiama “Gu-Chu-Sum” e nel nome ricorda le tre sommosse di Lhasa del settembre e ottobre 1987 e marzo 1988. Gli ex detenuti hanno raccontato cosa fece seguito alle rivolte di quei giorni. I dimostranti venivano identificati grazie alle immagini registrate dalle telecamere e alle fotografie scattate dalla polizia cinese. Gli arresti avvenivano di notte. In carcere i prigionieri furono fatti azzannare dai cani, picchiati, sottoposti a scariche elettriche, legati con le corde alle travi del soffitto e tenuti sospesi per ore. I capi vennero giustiziati. Ma le rivolte dell’87 e dell’88 furono limitate alla zona del Barkor, nella città vecchia di Lhasa. Quest’anno, invece, non si è trattato di una rivolta ma di una vera e propria insurrezione. Monaci e laici sono scesi in strada in tutto quello che una volta era il “Tibet etnico”: da Lhasa alle lontane regioni del Kham e dell’Amdo incorpate oggi nelle province cinesi del Qinghai, Gansu, Sichuan e Yunnan. L’insurrezione di quest’anno ha ancora una volta messo in discussione l’occupazione militare del Tibet da parte dell’Esercito popolare di liberazione cinese. La repressione sarà feroce. Spietata. Inviati delle Nazioni Unite dovrebbero monitorare quanto sta avvenendo in queste ore nelle carceri di Gurtsa, Sangyib e Drapchi a Lhasa e in quelle del resto del paese.


La “tregua olimpica” è stata così irrimediabilmente spezzata. Le prossime Olimpiadi potevano invece offrire un’opportunità straordinaria per cercare di risolvere la questione tibetana. Nel 2001, nel momento dell’assegnazione dei giochi a Pechino, l’Occidente, se avesse avuto un minimo interesse per le sorti del Tibet, avrebbe dovuto porre un’unica condizione alla propria partecipazione ai giochi: il ritorno del Dalai Lama in Tibet. Sarebbe stata una richiesta possibile. Nelle “Direttive finali per la stesura della costituzione tibetana” approvate nel febbraio 1992 dal governo tibetano in esilio è scritto che: «il Dalai Lama non eserciterà nessun ruolo politico nel futuro governo del Tibet». E lo stesso Dalai Lama ha più volte dichiarato di voler essere, d’ora in avanti, «un semplice monaco buddista». C’era tutto il tempo per trattare. Il governo cinese avrebbe potuto invitare il Dalai Lama all’inaugurazione delle Olimpiadi di Pechino e avrebbe potuto poi permettergli di tornare a Lhasa: per una settimana, o per un mese, o per sempre. Sarebbe stato un gesto di pace. Un gesto lungimirante. Ma nessuna dittatura ha mai dato prova di intelligenza politica.


Adesso in molti, invece del Tibet, sembrano esclusivamente preoccupati di salvare le Olimpiadi. In Occidente ferve il dibattito se boicottare o meno i giochi. Il problema è mal posto. Non sono i governi a dover decidere. La decisione spetta alla coscienza di ogni singolo atleta. E ogni atleta deve sapere che, indipendentemente dalla sua performance sportiva, queste Olimpiadi verranno ricordate dalla storia per il massacro del Tibet. L’atleta che va a Pechino deve sapere che le mani del funzionario del partito comunista cinese che gli consegneranno l’eventuale medaglia saranno macchiate di sangue.

Carlo Buldrini