February 13, 2008

Non possumus

Fa bene o fa male Giuliano Ferrara a voler presentare una lista pro-life e quindi a candidarsi al Senato? Ha fatto bene o ha fatto male Silvio Berlusconi a consigliare al suo consigliere (ieri, a Porta a porta) di lasciar perdere? Sono due domande solo apparentemente ordinarie, giacché sotto le mentite spoglie della cronaca politica quotidiana, sottendono problematiche maledettamente serie, come spero di riuscire a dimostrare prima della conclusione del post. Sono domande, cioè, alle quali si può tentare di rispondere seriamente solo dopo una riflessione sufficientemente approfondita e di ampio respiro. Quindi, per esempio, niente dietrologie: ce ne sono già che metà bastano in circolazione.

Una buona base di partenza per una discussione appropriata potrebbe essere il ragionamento svolto da Pierluigi Battista sul Corriere di oggi. Ferrara e Pannella, sostiene Battista, andrebbero aiutati dai due partiti maggiori a raccogliere le firme necessarie a per poter presentare le rispettive liste. Il Pdl, cioè, dovrebbe dare una mano al direttore del Foglio, mentre il Pd dovrebbe fare la stessa cosa con Pannella. Perché? Perché quei due, che “si battono sui valori e sui principi” e sono i campioni di due opposte sensibilità sulle questioni che chiamano in causa le scienze biomediche e l’etica pubblica, terrebbero acceso “il libero conflitto delle idee” e “renderebbero la prossima contesa più ricca, più colta, meno asfittica.” Di questo, appunto, ci sarebbe bisogno, nel momento in cui i grandi partiti “finalmente si aggregano sui programmi secondo un ferreo schema bipolare.”

E si badi bene, argomenta giustamente il vicedirettore del Corriere, che

le liste di Pannella e Ferrara sono una cosa ben diversa dai micropartitini che proliferano dietro un capo, un territorio da controllare, una clientela da soddisfare, una marginale rendita di posizione che diventa fatalmente cruciale nell'instabilità frammentata in cui è appena affondata una legislatura.


Il ragionamento è indubbiamente interessante. Opportuna la distinzione tra partitini e formazioni “piccole per dimensioni e struttura,” ma che “conservano il talento di promuovere grandi idee e battaglie civili.” E giusta la preoccupazione di tenere alto il livello della campagna elettorale sulle questioni che investono la vita, la morte, le bioscienze, la bioetica. Battista, però, basa il proprio discorso su un presupposto che potrebbe benissimo essere respinto: che le due liste siano effettivamente in grado di elevare il dibattito, nel senso che non ci sia il rischio, piuttosto, di indirizzarlo su un binario sbagliato: quello, ovviamente, della strumentalizzazione a fini elettorali di questioni che vanno ben oltre la dimensione politico-partitica. E’ vero che si rischierebbe di incorrere nello stesso gravissimo errore anche senza le liste di Pannella e Ferrara. Ma è altrettanto vero che le liste non riducono il rischio, semmai lo accrescono, dal momento che i promotori sono tutt’altro che super partes dal punto di vista della propria collocazione politica.

E allora? Come si può venir fuori da questo impasse? Semplicemente, credo, non se ne viene fuori. E questo per una ragione altrettanto semplice: perché i partiti e la stessa cultura politica italiana non sono affatto attrezzati per affrontare simili questioni con la dovuta serietà e sobrietà. Non mi metto a spiegare io come e perché, poiché l’ha già fatto egregiamente Ernesto Galli della Loggia in un editoriale pubblicato sul Corriere della Sera di ieri. Per dare un’idea, ecco cosa pensa Galli della Loggia dell’atteggiamento che sulle questioni di cui sopra ha la classe politica italiana, e questo, appunto, in forza della sua stessa cultura politica (o, come sarebbe meglio dire, “incultura”):

Riportare sempre tutto, anche fenomeni palesemente e radicalmente nuovi (che dimostrano di essere tali, tra l'altro, proprio tendendo a ridisegnare secondo linee inedite gli schieramenti del passato), riportare sempre tutto, dicevo, come ama fare la maggior parte della cultura italiana, nell'ambito tradizionale delle dicotomie Stato-Chiesa, laico-clericale, conservatore-progressista, mostra solo quanto quella cultura sembri interessata più che alla realtà, più che a comprendere la novità dei tempi, a mantenere ad ogni costo saldo e credibile l'antico universo dei suoi valori e dei suoi riferimenti.
[…]
Com'è possibile, mi chiedo, non accorgersi che l'intera impalcatura ideologica otto-novecentesca — di cui le dicotomie italiane di cui sopra sono parte — sta oggi diventando un reperto archeologico? Non accorgersi che sotto l'incalzare di due grandi rivoluzioni — e cioè dell'effettivo allargamento per la prima volta dell'economia industriale- capitalistica a tutto il mondo, e dell'estensione della tecnoscienza alla sfera più intima del bios — tutta la nostra vita sociale, a cominciare dalla politica, con le sue confortevoli certezze culturali e i suoi valori, deve essere ripensata e ridefinita?


Pigrizia intellettuale, conformismo, incultura. Come si può sperare che la questione dell’aborto venga trattata senza scadere nei toni della propaganda politica e dell’intolleranza?

Galli della Loggia, tuttavia, non fa di tutta l’erba un fascio. Qualcuno, in Italia, ha capito qual è la posta in gioco, e ha attivato tutte le proprie energie intellettuali e morali in questa sfida epocale: la Chiesa. Ed ecco spiegata la suggestiva immagine dell' «ondata neoguelfa», adoperata da Aldo Schiavone in un articolo di qualche giorno fa su la Repubblica. Secondo quest’ultimo,

nell'Italia di oggi, a causa del degrado della vita politica e dell'etica pubblica, starebbe andando ancora una volta in scena «un'antica tentazione» della nostra storia politica e intellettuale, vale a dire «la rinuncia allo Stato», percepito come qualcosa di fragile che «non ce la può fare», e la sua sostituzione con una sorta di «protettorato super partes» attribuito al Papa: fino al punto di fare del magistero della Chiesa «il custode più alto della stessa unità morale della nazione».


Galli della Loggia, evidentemente, non la pensa così, perché la denuncia di Schiavone guarda al presente con gli occhi del passato, ma non se la prende più di tanto. In fondo Schivane, pur dando una spiegazione inesatta del fenomeno, e attribuendogli una connotazione negativa, che se ne renda conto o meno ha registrato un dato di fatto: la Chiesa è diventata l’unica “agenzia” che, almeno in Italia, si sforza di rappresentare il bisogno di dare risposte adeguate alle sfide del nostro tempo. Questo spiega Giuliano Ferrara, Marcello Pera e gli altri “atei devoti.” E questo spiega altresì come tanti cattolici che avevano fatto della propria “laicità” culturale e politica una questione di principio, oggi si sentano traditi da quella cultura laica che avevano imparato non solo a rispettare profondamente, ma ad amare e a sentire “propria.”

Morale: lista o non lista, che Ferrara vada solo o sia dentro o collaterale a qualcosa, importa relativamente poco. Quel che conta è che ha capito ciò che altri non sospettano neppure. Quasi altrettanto si può dire per quanto concerne le appartenenze politiche dei credenti: se uno deve assolutamente scegliere tra le “pretese” di Dio e quelle, così spesso contrapposte, della propria (ex)parte politica (che non è lo stesso che dire "lo Stato"), finisce per prendere l’unica decisione sensata … E poi lasciamo pure che lo chiamino neoguelfismo o come pare a loro. La cosa interessa ancor meno del dilemma liste o non liste.