November 30, 2006

Brogli, spy stories e cialtroni

“Si può però notare un certo parallelismo tra le due inchieste.” Quali? Beh, è ovvio: quelle di cui tutti parlano e scrivono, vale a dire quelle del Diario e della commissione Mithrokhin. E in cosa consisterebbe il parallelismo? Nel fatto che entrambe avevano tra i loro obiettivi quello di “portare alla luce, a tutti i costi, qualcosa di torbido.” Lo afferma Il Foglio in uno degli editoriali di oggi.

Premetto che non mi intendo di queste cose, per la semplice ragione che gli unici “gialli” ai quali mi sia mai appassionato sono quei film d’azione con inseguimenti folli per le strade di Manhattan o di San Francisco, quelli dobe Bruce Willis si incarica di dare una sistemata a qualche pazzo furioso scapato di galera e intenzionato a mettere sottosopra il pianeta. Dunque tendo a seguire più il mio naso che a seguire con scrupolo i mille fili invisibili delle spy stories, soprattutto quelle dove si esercita il genio italico delle mezze verità e delle mezze bugie, condite da un gusto casereccio per l’improvvisazione e una spiccata tendenza alla cialtroneria. Proprio per questo mi sentirei di condividere pienamente l’impostazione del Foglio. Uso il condizionale perché, in effetti, non voglio assumermi troppe responsabilità.

C’è da dire che il giornale di Giuliano Ferrara, a sua volta, fa un paio di premesse—che stavolta condivido senza condizionale—quanto mai opportune se non addirittura essenziali. Insomma, un approccio al problema che mi sembra importante segnalare. Copio incollo qui di seguito il pezzo, che ha oltretutto il merito di essere molto breve.

Premesso che il teorema di Enrico Deaglio – soggetto di un fortunato dvd e di un libro andati esauriti in edicola e oggetto di numerosi articoli dedicatigli da giornali e televisioni – sui presunti brogli elettorali del centrodestra si è già dimostrato infondato anche solo per elementari ragioni tecniche. Premesso anche che finché non saranno note le carte segretate della commissione parlamentare Mithrokhin non si potrà dire altrettanto di quello del coinvolgimento di esponenti della politica italiana nella rete spionistica dell’ex Unione Sovietica. Si può però notare un certo parallelismo tra le due inchieste. Quella giornalistica del direttore del Diario come quella parlamentare della commissione presieduta dal senatore di Forza Italia Paolo Guzzanti erano animate dalla volontà di portare alla luce, a tutti i costi, qualcosa di torbido. Così Enrico Deaglio si è affidato all’analogia, che non è precisamente un procedimento scientifico, per travasare i sospetti, peraltro smentiti dalla magistratura americana, sui brogli del conteggio elettronico dei voti della Florida sulla procedura cartacea delle elezioni italiane. Guzzanti ha cercato invece fonti nel grande caos dei reduci del Kgb, ed è probabilmente incappato nella ragnatela dei doppi e dei tripli ruoli che si recitano in quel sottobosco, più feroce e meno romantico di quello descritto dai romanzi di John Le Carré. Resta il fatto che la fantapolitica del direttore del Diario e le contorte vicende di un consulente della commissione parlamentare Mitrokhin hanno tenuto e tengono banco nella grande informazione italiana. Tutti sanno che si tratta di merce avariata, ma capace di solleticare qualche appetito sensazionalista, che evidentemente non è un’esclusiva di Deaglio e Guzzanti.

November 28, 2006

Fuga verso la Mole?

Non è il capo della redazione romana di Libero, Fausto Carioti, ma il blogger che risponde alle medesime generalità—e poi qualcuno si lamenta dei giornalisti che bloggano!—a farci omaggio di un’informazione piuttosto interessante: che al manifesto, anche dopo la fuoriuscita di Riccardo Barenghi-Jena (emigrato a La Stampa), c’è ancora qualcuno che talvolta anche delle persone (come dire?) terra-terra riescono a leggere e ad apprezzare. Tenersi forte please, perché si tratta nientemeno che di quell'intellettualone di Valentino Parlato, il quale stavolta l’ha proprio azzeccata riconoscendo che l’Unione altro non è se non “il parassita di Berlusconi” e campa sulla paura che il Cavaliere possa prendersi la rivincita. E che, in buona sostanza,

se Berlusconi non fosse sopravvissuto al suo mancamento l’Unione sarebbe al disastro, il suo collante si sarebbe sciolto e tutti i suoi componenti, grandi e piccoli, non saprebbero più che strada prendere, che cosa proporre, con chi governare e, soprattutto, governare per cosa.

Parole sante, mi pare. Resta però un dubbio: adesso dobbiamo aspettarci che anche Parlato si trasferisca armi e bagagli sotto la Mole Antonelliana?

Cossiga: dimissioni da respingere

Non mi intendo di protocolli di comportamento parlamentare, dunque non saprei se lo “sgarbo” di cui il Presidente emerito Francesco Cossiga ha accusato il ministro dell’Interno sia tale da costituire una motivazione sufficientemente grave per le dimissioni da senatore a vita. A intuito direi di sì, ma non ci posso mettere la mano sul fuoco—e con questo non voglio dire che, al limite, potrebbe trattarsi di una decisione presa per “futili motivi,” ma solo che, rispetto a una prassi consolidata che io ignoro, Cossiga potrebbe aver sopravvalutato (volutamente o no) la reale portata dell’incidente.

Il Presidente emerito, comunque, non è nuovo a questo tipo di annunci. Attenzione, però: gli scettici dovrebbero tener presente che, in precedenza, all’intenzione sono seguiti già due volte i fatti, cioè quando si dimise da ministro dell'Interno, dopo l'assassinio di Aldo Moro, e da Presidente della Repubblica, due mesi prima della naturale scadenza del mandato (nel 2002, invece, si dimise da senatore a vita in polemica con Carlo Azeglio Ciampi, ma le dimissioni furono respinte).

Una cosa è certa: Cossiga non finisce mai di stupire, di spiazzare, di vivacizzare la scena politica con “uscite” che possono apparire paradossali o meramente ironiche, provocatorie e quant'altro, e invece sono con ogni probabilità molto mirate e precise. Il bersaglio, in questo caso, forse è Amato, ma più probabilmente è il Capo della Polizia, o più probabilmente ancora sono entrambi. Ma il Presidente emerito sa anche giocare sublimemente di sponda, quindi può darsi che la palla da biliardo abbia una traiettoria più complessa, che c’entrino, cioè, situazioni e relazioni non ancora del tutto evidenti, o evidenti solo a chi può essere il destinatario “ultimo” del messaggio.

Per il resto, sinceramente, non credo che le dimissioni saranno, per così dire, coronate da successo. Come ha detto laconicamente Giulio Andreotti, “saranno respinte.” Personalmente ne sarei felicissimo, insieme a tutti gli estimatori di Cossiga, tra i quali da sempre mi ritrovo. Ma se così non fosse, dico semplicemente che, a mio parere, il Senato non sarebbe più lo stesso. Ecco perché dissento profondamente da queste parole:


«Non credo proprio che le mie dimissioni saranno una 'bomba' in questo particolare momento politico. Non vedo che influenza possano avere nella vita istituzionale e politica del Paese. Sono stato preso a pesci in faccia da Giuliano Amato. Amato, uomo prudente e molto attento a rapporti di forza ha fatto rispondere ad una mia interpellanza da uno sbirro di De Gennaro, Roberto Sgalla, mai conosciuto. Vuol dire che nella vita politica italiana non conto nulla. La sensazione è di non essere considerato utile al paese.»

Diciamo piuttosto che a qualcuno Cossiga potrebbe dar fastidio. Anzi, possiamo tranquillamente rinunciare al periodo ipotetico. In ogni caso, una cosa ben diversa, e una ragione in più per respingere le dimissioni, magari con tanto di scuse da parte di chi di dovere.


November 27, 2006

Ave Cesare, gli attori ti salutano

Sul Giornale di oggi Paolo Armaroli recensisce il saggio del sociologo Luciano Cavalli che Rubettino ha appena pubblicato: Giulio Cesare, Coriolano e il Teatro della Repubblica. Una lettura politica di Shakespeare. Un ottimo invito alla lettura per un libricino di 176 pagine (16 Euro) che, da quel che capisco, non tarderà a trovare adeguata collocazione nella mia biblioteca.

Interessante scoprire, ad esempio, che

le caratteristiche dei leader carismatici, a ben vedere, non le hanno né Cesare né Coriolano. Fulgidi eroi, sicuro. Ma eroi che, come l’Ettore di Omero, alla fine risultano perdenti soprattutto perché, ironia del destino, intendono fino in fondo essere se stessi.Il Valentino machiavellico è invece Antonio [...].

La conclusione dell’articolo (e del libro), invece, non sembrerebbe esattamente una scoperta ...


Alle corte, il vero leader è al tempo stesso imprenditore, regista e attore. Un uomo di spettacolo. Ma sì, un teatrante.Una conclusione amara? Può darsi. Ma al peggio, si sa, non c’è mai fine. Il grande teatro di una volta, pur imbevuto di lacrime e sangue, adesso ci tocca rimpiangerlo. In questo mondo che ci ha scippato i sogni giovanili e in cambio non ci dà nulla di nulla, tutto rimpicciolisce. Anche il teatro, ormai scaduto a teatrino. E il teatrino della politica dei giorni nostri appassiona unicamente la ristretta schiera dei partitanti, che sovente vivono di politica e non già per la politica. È proprio vero: alle tragedie seguono immancabilmente le farse. In un fiat siamo così passati da Carlo Marx ai fratelli Marx.


A chi importa?

Edward è un “patito” della demografia, ed ha tutte le ragioni per esserlo, a mio avviso. E’ per questo che, oltre ad aver dato vita recentemente ad un blog che si occupa di come vanno le cose qui in Italia dal punto di vista economico, ne ha creato un altro, il cui nome dice tutto: Demography Matters (scrive, per la verità, anche su A Fistful of Euros, ma questa è un’altra storia).

Qualche giorno fa ha chiesto lumi sulla fuga dei cervelli dal nostro Paese, ed io gli ho suggerito un malinconico articolo di Time magazine, non “recentissimo” (dell’aprile dell’anno scorso) ma molto interessante e, temo, ancora attuale. Argomento: la condizione giovanile in Italia. Ne è nato un nuovo post, al quale ho dato un ulteriore minimo contributo con un commento. Il tema del commento—che si riferisce ad un articolo del New York Times non meno penoso, per noi, di quello di Time—è la non-politica per la famiglia portata avanti dai governi italiani che si sono succeduti da tempo immemorabile.

La scorsa estate ho chiacchierato a lungo sull’argomento politiche per la famiglia con una famigliola tedesca conosciuta presso comuni amici italiani. Il confronto Italia-Germania ne è risultato, a dir poco, umiliante (avrei voluto sprofondare). Eppure, a detta di tutte le forze politiche nazionali, anche da noi la demografia importa, la famiglia importa, i figli, poi, sono un bene inestimabile, ecc., ecc. Un po’ come la scuola: tutti, a chiacchiere, la vogliono “rilanciare,” ma poi, quando vanno al governo, se ne infischiano o vanno esattamente nella direzione opposta (ogni riferimento a questa Finanziaria è superfluo).

Mi domando solo se ci sia un limite alla capacità dei nostri governi di scherzare su questioni di tale rilevanza, anche se non riguardano precisamente la massa critica dell’elettorato, ma “soltanto” i nostri figli, nipoti, pronipoti ...

November 23, 2006

Thanksgiving Day

Today is Thanksgiving Day in the United States. As for me, I wanted to give God a special THANK YOU ... for having given us all that Beautiful America! So I found this very valuable tribute:

November 22, 2006

Ma stavolta Diliberto ha ragione

Un aggiornamento al post sulla manifestazione di Roma. Innanzitutto per raccomandare, a chi ancora non l'avesse fatto, di leggere cosa ha scritto Luca Ricolfi su La Stampa ("Chi intossica i ragazzi"). Grazie a Sergio Vivi, che in un commento a quel post mi ha segnalato l'articolo. In secondo luogo consiglio vivamente l'articolo su Libero di Fausto Carioti, divenuto post nel blog del giornalista medesimo (A Conservative Mind). Molto interessanti anche i links ad altre "risorse" (tra le quali il già citato articolo di Ricolfi). Prendete, ad esempio, questa cosa presa da Repubblica:

Su una cosa, però, il segretario dei Comunisti italiani ha ragione: quando, intervistato da Repubblica, sbotta contro i suoi alleati: «Quanto opportunismo nella condanna e quanta ipocrisia nei miei colleghi!».


D'accordissimo con Carioti: stavolta non si può non essere d'accordo con Diliberto. Chi l'avrebbe mai detto?

Eppure, solo il Cavaliere ci può salvare

Berlusconi lascia. Macché, è una bufala. Neanche il tempo di stropicciarmi gli occhi, ieri, dopo aver letto Libero, ed ecco che arriva la smentita. Confesso, però, che io, a Libero, ho creduto subito. E neanche perché il capo della CdL potrebbe, sì, aver detto ciò che gli viene attribuito, ma si trattava di parole in libertà, pronunciate durante un pranzo tra amici, e dunque da non prendere alla lettera, ecc., ecc. No, io ho creduto e credo tuttora che quelle parole non solo il Cavaliere le abbia dette, ma le abbia anche pensate e meditate. E questo per la semplice ragione che il primo annuncio corrisponde più o meno esattamente a ciò che a me sembrerebbe la soluzione più logica, quella più «normale».

Già, la soluzione più normale. Sfortunatamente, però, questo non è un Paese normale: è il ritornello che immancabilmente mi perseguita tutte le volte che provo a tracciare ideali linee rette nei miei vani ragionamenti sulle politica italiana. Cosa c’è di normale in un Paese in cui Diliberto fa il capo d un partito di governo e in una coalizione che, senza i comunisti, rifondati o meno, non potrebbe andare da nessuna parte? Poi, d’accordo, ci sono le contraddizioni in seno al centrodestra, anche se a me, sinceramente, sembrano quasi insignificanti rispetto a quelle della controparte: che cosa sono, per dire, le differenze tra Roberto Maroni e Adolfo Urso rispetto a quelle tra Antonio Polito e Francesco Caruso?

Comunque, qualcuno dovrebbe pur cominciare a lavorare seriamente per far sì che, un po’ alla volta, l’Italia “si normalizzi.” Ecco, questo, a mio avviso, è il punto: se aspettiamo che cominci la sinistra stiamo freschi … In altre parole, e lo dico senza ironia e senza arrière pensées, solo Berlusconi ci può salvare. Come? Penso che lo abbia spiegato abbastanza bene Andrea Romano con l’editoriale pubblicato su La Stampa di oggi. Romano—storico dell'Europa contemporanea, ex Direttore scientifico di Italianieuropei e autore di The Boy. Tony Blair e i destini della sinistra, il più documentato resoconto in lingua italiana della carriera politica del Primo ministro britannico—sarà anche di parte, ma lo è nella maniera giusta, cioè à la Luca Ricolfi, e dunque gli si può dar credito. Ecco la parte centrale dell’articolo:

Per il centrosinistra si aprirebbe una stagione nuova, nella quale diminuirebbe la tentazione di ricorrere a giorni alterni allo spauracchio del berlusconismo che torna. Forse non smetteremmo dall'oggi al domani di ascoltare il lamento sulla pesante eredità lasciata dal passato, sulle ferite ancora da cicatrizzare nella coscienza morale del paese, sull'urgenza di tirare la cinghia per rimediare ai danni provocati dai precedenti inquilini. Ma con il passare delle settimane l'attenzione di tutti andrebbe quasi naturalmente a posarsi sulle cose da fare nel lungo periodo, con sensibile giovamento alla prospettiva di un governo che potrebbe spiegare con maggiore serenità la direzione nella quale si sta muovendo. Perché quel governo avrebbe comunque di fronte a sé un'opposizione agguerrita e rigorosa, ma impegnata a cercare al proprio interno le risorse politiche e personali per voltare pagina. E chissà che a sinistra non si discuterebbe meglio anche di partito democratico e affini, potendo pensare al domani con più tranquillità.

Forse mettendo persino in cantiere un avvicendamento delle proprie classe dirigenti, con la dovuta pacatezza e i necessari onori per chi ha tenuto il timone tanto a lungo, ma associando quel capolavoro di ingegneria così difficile da vendere alle masse con l'arrivo di nuove leve né postcomuniste, né postsocialiste né postdemocristiane.

Ma anche per il centrodestra gli effetti di un avvenimento tanto normale non sarebbero meno salutari. In fondo molte sue personalità di rilievo potrebbero liberare una buona parte della giornata dal compito di rassicurare Berlusconi della propria lealtà, dedicandosi finalmente a discutere di politica.


And this is the way of life


Have you ever noticed a tree standing naked against the sky, how beautiful it is? All its branches are outlined, and in its nakedness there is a poem, there is a song. Every leaf is gone and it is waiting for the spring. When the spring comes it again fills the tree with the music of many leaves, which, in due season ,fall and are blown away. And this is the way of life.

—Krishnamurti

November 19, 2006

Solo quattro imbecilli?

Erano solo quattro imbecilli, ha detto, e già su questo modo disinvolto di minimizzare ci sarebbe molto da dire. Ma il punto non è questo. Il punto è che accanto a loro ha sfilato anche lui.

Estremisti, pazzoidi, spalleggiatori di terroristi e fans dei dittatori ci saranno sempre, è più forte di loro, è un’attrazione fatale per il fascismo e per tutto ciò che gli assomiglia (malgrado la sgargiante vernice rossa dietro cui così spesso si nasconde), un apprezzamento sottinteso, e a volte neppure tanto, per i regimi più sanguinari—per i quali c’è sempre una parola di comprensione, una giustificazione—che spesso sfocia in comportamenti patologici e demenziali.

Questa gente è presente in Francia, in Germania, in Gran Bretagna—basta leggere la sezione dei commenti in alcuni blogs “blairiani” per rendersene conto e vedere fino a che punto può arrivare un odio atavico per la democrazia liberale, un disprezzo totale per le “libertà borghesi” e chi se ne fa paladino. Sono cose che sappiamo, che riconosciamo a fiuto lontano un miglio.

Ma, appunto, il fatto è che accanto a loro c’era anche il segretario di un partito che fa parte della maggioranza politica che esprime il legittimo governo del Paese. Ed è questo che è inaccettabile. Non perché non ce lo aspettassimo: conosciamo bene il punto di vista di Oliviero Diliberto su certe questioni. E neppure perché lo consideriamo granché diverso da quelli che hanno gridato: «L'unico tricolore da guardare è quello disteso sulle vostre bare». Semplicemente, da sabato 18 novembre in poi, non è più accettabile la permanenza di uomini di quel partito nel governo. Ecco perché, se l’Italia—come amava auspicare il nostro ministro degli Esteri—fosse un Paese normale, oggi tutti i giornali, le agenzie e i telegiornali ci avrebbero confortati con una grande notizia. Ma siccome normali non siamo, quella notizia non è arrivata né mai arriverà.

Dalla sinistra, qualcuno, tra cui chi scrive, si è già dimesso a causa di certe contiguità. Purtroppo, dimettersi da cittadini italiani—tentazione automatica in circostaze analoghe e in assenza di "decisioni drastiche" da parte di chi sarebbe moralmente tenuto a prenderle—è un po’ più complicato, anche ammesso che sia giusto (e non credo affatto che lo sia). La morale della favola è che dovremo tenerci Diliberto. Almeno fintantoché la parola non verrà ridata al popolo. Io ho fede nel popolo.

UPDATE: 20 Novembre, ore 9:20
Da non perdere l'editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere di oggi, lunedì 20. Non si parla solo della manifestazione di Roma: ce n'è anche per quella di Milano. E la conclusione del ragionamento è che

le componenti riformiste della maggioranza dovrebbero fare di più, forse molto di più [...]. Anche a costo di scontrarsi con la sinistra estrema.

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November 17, 2006

Quelli che i teo-con ...

E’ apparso ieri sul Giornale l’articolo di Gaetano Quagliariello di cui mi occupo in questo post. Professore di Teoria e storia dei partiti politici e di Storia comparata dei Sistemi Politici Europei presso la Facoltà di Scienze Politiche della Luiss Guido Carli (Roma), nonché presidente della Fondazione Magna Carta e senatore di Forza Italia, Quagliariello ha affrontato un argomento—i teo-con, con particolare riferimento ai risultati delle elezioni di medio termine negli Stati Uniti—che è attualissimo, e tale è destinato a rimanere ancora per un pezzo.

Quagliarello svolge una riflessione piuttosto articolata. Innanzitutto lamenta giustamente che c’è un mucchio di gente che parla e scrive dei teo-con senza avere la più pallida idea di cosa si tratti. E dunque si prende la briga di spiegare che cosa si deve intendere con quel termine. Avendo rilevato io stesso qualche “anomalia” nel modo in cui la questione viene spesso affrontata—il professore fa esplicitamente il nome di Claudio Magris, che anch’io avevo chiamato in causa a tal riguardo—una conferma così autorevole mi conforta non poco.

Della “infelice definizione” di cui sopra, spiega Quagliariello, si è parlato tanto “ma per lo più a vanvera.” Ad esempio


per taluni i teo-con sono i cattolici più conservatori e integralisti; per altri dei disprezzabili «atei devoti» alla Maurras; per altri ancora dei convertiti di fresco che, in quanto neofiti, non accettano che la forza della loro passione possa contaminarsi con il necessario compromesso. Questa confusione di significati ha reso difficile persino polemizzare. Accade che si perda del tempo per rispondere a critiche vanesie frutto d'incontinenza intellettuale (è vero professor Magris?), mentre si lasciano inevase quelle che ai teo-con pongono interrogativi più seri.

Segue una definizione storico-critica del termine che più accurata e approfondita di così non potrebbe essere, se pensiamo che, malgrado l’autorevolezza dello scrivente, stiamo parlando pur sempre di un articolo di giornale. Qui non cito perché sarebbe troppo lungo (e non mi sembra il caso di estrapolare da una sintesi che probabilmente è già tirata al massimo), ma invito caldamente i miei lettori a leggere con attenzione quella parte del testo.

Tra gli “interrogativi più seri” ci sono quelli posti dal cardinale Scola nell'ultimo numero della rivista Oasis. Il patriarca di Venezia, rassume Quagliariello,

si chiede, innanzi tutto, se sia corretto, e sopattutto utile, nel dialogo con il «grande Oriente», accreditare un'identificazione assoluta tra il cristianesimo e la civiltà occidentale. Sulla scorta di tale interrogativo, e alla luce dell'esperienza degli ultimi anni, si domanda poi se l'esportazione della democrazia non sia stata una pretesa intellettualistica e astratta e se, al cospetto di quel fallimento, non ci sia oggi da rivalutare il pacifismo profetico al quale Giovanni Paolo II concesse tanta forza, al momento delle decisioni sulla guerra in Irak.

Per la verità, qui mi sembra necessario fare una precisazione: il pensiero del cardinale, nell’originale, è un po’ diverso. Angelo Scola, cioè, invita a riflettere soprattutto

sul perché in Oriente sia stata resa possibile una confusione così totale tra Cristianesimo e civiltà occidentale. Questa confusione consente a tanti fratelli islamici di denunciare insieme Cristianesimo e Occidente come se fossero la stessa cosa, accomunati nella stessa decadenza; non possiamo limitarci a liquidarla come una critica semplicistica.
[Il corsivo è mio]
E poi così prosegue:

Non credo che i cristiani debbano gettare un velo di negatività su tutta l'esperienza moderna che così fortemente segna l'Occidente, ma certo è importante raccogliere la critica "orientale", assumendo interrogativi coraggiosi circa la pretesa di ridurre la religione a un fatto privato, la pretesa intellettualistica e astratta delle "democrazie da esportare", la pretesa di una insopprimibile libertà di coscienza che però coincide con il "vietato vietare". Insomma, grande è l'attualità della formula conciliare: il
Cristianesimo genera per sua natura culture, ma non si lega a nessuna cultura.


A me sembra, insomma, che il ragionamento del cardinale non sia stato interpretato in maniera del tutto corretta. Questione di accenti, certo, ma accenti che spostano di parecchio il punto focale del discorso. Ma su questo penso che tornerò con un post ad hoc.

Quagliariello prosegue il suo ragionamento agganciando la sconfitta dei repubblicani:

L'eco di questi stessi interrogativi è sembrato risuonare nelle sentenze di condanna - assai spesso più rozze - che in tanti si sono affrettati a pronunziare dopo la sconfitta di Bush nelle recenti elezioni parziali: quei risultati, ancor più che punire una politica, avrebbero segnato il tramonto di un'analisi. Proprio quella che i cosiddetti teo-con, con più coerenza e completezza di altri, avevano proposto dopo l'11 settembre. A me pare, invece, che questa risposta risulti quanto meno affrettata.Scola, infatti, ha ragione quando individua l'errore - innanzi tutto storico - di chi sovrappone Occidente e cristianesimo. Quel che però preoccupa, e dovrebbe vieppiù preoccupare la Chiesa, è che a tale percezione sbagliata nel mondo islamico non corrisponda alcuna realtà effettiva. A Ovest, infatti, il legame tra cristianesimo e democrazia è percepito in modo sempre più rarefatto: soprattutto in Europa.
[Il corsivo è mio]

Qui, mi sembra, il presidente di Magna Carta ha colto nel segno: ma quale identificazione? L’Occidente, malgrado le indubbie «radici cristiane», ha oggi abbastanza poco da spartire con il Cristianesimo. No so se questo debba costituire la principale preoccupazione della Chiesa, ma certamente la cosa, da un punto di vista cristiano-cattolico, è piuttosto grave. Da altri punti di vista, indubbiamente, può rappresentare una “conquista,” ma personalmente, al posto di un ateo, laicista e mangiapreti, ci penserei bene a rallegrarmene. No credo, in altre parole, che occorra essere degli «atei devoti» à la Marcello Pera e Giuliano Ferrara per arrivare a preoccuparsi delle conseguenze, per la polis, della scristianizzazione galoppante. Ma questo (forse) è un altro discorso (o forse no).

Anche la conclusione di Quagliariello mi sembra condivisibile:

E questa è, tra l'altro, la causa del fatto che l'impegno per la diffusione della democrazia sia stata intesa come semplice esportazione di procedure con un insufficiente riguardo per i suoi fondamenti e i suoi principi inalienabili. La pratica, così intesa, oltre che inutile, può rivelarsi dannosa. Essa sta rischiando di legittimare quell'infausto connubio tra democrazia e relativismo già denunziato da Giovanni Paolo II, concedendo la patente della sovranità popolare a dittatori e gruppi terroristici. Il rischio è sotto i nostri occhi: cosa è accaduto in Iran dopo la vittoria di Ahmadinejad? E all'interno dell'Autorità palestinese con la vittoria di Hamas? E cosa accadrebbe in Libano se, come taluni propongono, si accettasse senza scandalo il doppio ruolo degli Hezbollah come forza «di lotta» e di governo?Queste domande, però, se da un canto evidenziano le insufficienze di una politica chiamando in causa anche responsabilità precise sul modo d'interpretare il dopo-guerra iracheno, dall'altro non debbono condurre a rimettere le nostre responsabilità di fronte ai rischi che l'equilibrio mondiale sta correndo. E non dovrebbero indurre a far ciò nemmeno la Chiesa. Al cospetto dell'escalation del fondamentalismo e della violenza terroristica da esso ispirata la speranza resta che i principi di fondo della democrazia divengano sempre più contagiosi, utilizzando anche il veicolo del confronto tra le religioni. Solo in tal modo tra l'altro, fede e ragione potranno tornare a comunicare anche oltre i confini della cristianità mettendo a bando la violenza e il terrore, così come auspicato da Benedetto XVI.

Una strana settimana

Questa è stata una settimana un po’ strana per il sottoscritto: una serie di impegni, nessuno dei quali particolarmente gravoso, ma nell’insieme il risultato è che ho potuto seguire poco avvenimenti, pazzie collettive (se dei governati o dei governanti è in fondo un falso problema …), commenti, e tutto quanto fa spettacolo sui vecchi e nuovi media, e meno ancora mi è riuscito di riferirne qui. Può darsi che qualcosa di ciò che mi aveva colpito maggiormente io riesca a recuperarla, di qui a lunedì, ma non ci scommetterei. Oggi, comunque, riprendo un articolo pubblicato ieri. Il resto si vedrà. A risentirci tra un momento.

November 16, 2006

Dieci anni dopo 'The Clash of Civilizations'

Da uno studioso come Samuel Huntington ci possiamo ben aspettare tesi ottimamente argomentate e, nel contempo, brillanti provocazioni intellettuali, tanto che non di rado le sue idee—soprattutto quando a incrociarle sono i più fedeli cultori del politically correct—possono persino apparire “intollerabili” e suscitare reazioni indignate.

Ma è la forza quasi profetica delle sue analisi ciò che probabilmente caratterizza maggiormente i suoi scritti. Basti pensare che il celeberrimo The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order è stato pubblicato nel lontano 1996 e che, come se non bastasse, l’Autore ne aveva anticipato i contenuti nell’estate del ’93, in un saggio quasi omonimo apparso sulla rivista Foreign Affairs. Non meno provocatorio—e “intollerabile”—è il suo lavoro più recente, Who Are We: The Challenges to America's National Identity (del 2004), nel quale si ipotizza un’America incapace di assorbire l’ondata migratoria ispanica (rimanendo se stessa). Troppo presto, ovviamente, per parlare di un’altra previsione azzeccata.

Ma, provocazioni e profezie a parte, Huntington è capace di sfoderare una modestia che, in un uomo che, dall´11 settembre in avanti, è il geopolitologo più citato al mondo, fa una certa impressione. Mi riferisco alla risposta che ha dato a una domanda—dove sta la contraddizione fra democrazia e Islam?—che, magari, a qualche politologo, nostrano e assai meno attrezzato, avrebbe fornito un’occasione imperdibile per fare sfoggio: «Non ho idea di quale sia la risposta a questa domanda, perché non sono un esperto di Islam …». Il resto della risposta, però, suona così:



«… ma è significativa la relativa lentezza con cui i paesi islamici, in particolare i paesi arabi, si sono mossi verso la democrazia. La loro eredità culturale e le loro ideologie possono essere parzialmente responsabili di questo ritardo. Anche il colonialismo può rappresentare un fattore negativo che spinge a rifiutare quello che viene percepito come un dominio occidentale. Molti di questi paesi sono stati, sino a tempi recenti, società largamente rurali governate da élite di latifondisti. Ritengo che comunque questi paesi si stiano muovendo verso l'urbanizzazione e verso sistemi politici decisamente più pluralistici e che il fenomeno interessi la quasi totalità dei paesi islamici. Questo spinge i paesi islamici ad aumentare i propri legami con società non islamiche. Un aspetto chiave che influenzerà la democratizzazione è la forte migrazione di musulmani in Europa».

Un Huntington alquanto anticonformista, invece, viene fuori da quest’altra risposta riguardo alla Turchia (“ponte ideale tra mondo occidentale e mondo islamico”):



«Francamente, l'enfasi con cui viene trattata questa tesi mi pare eccessiva. La Turchia ha i suoi interessi e, storicamente, ha soggiogato la maggior parte del mondo arabo. Gli arabi hanno dovuto combattere guerre di liberazione per scacciare i turchi dai loro paesi. Certo, si tratta del passato e questo non avrà necessariamente un effetto sul futuro. Ma si tratta di un passato ancora ben presente nella memoria collettiva degli arabi».

Infine, ecco il Samuel Huntington che all’occorrenza mette i puntini sulle «i»:



Domanda: Il suo collega di Harvard Amartya Sen critica le sue tesi sulle civiltà, affermando che «l'identità non è un destino» e che ogni individuo può costruire e ricostruire la propria identità a proprio arbitrio. Sen sostiene che la teoria dello scontro di civiltà suggerisce una «miniaturizzazione degli esseri umani» in identità «esclusive e prive di qualsiasi libero arbitrio» che sono facilmente inquadrabili nella «scacchiera delle civiltà». Qual è la sua prospettiva sui cittadini con identità multiple?
Risposta: «Ritengo che la dichiarazione di Amartya Sen sia totalmente errata. Sono ben al corrente che esistono persone con molteplici identità e non ho mai detto il contrario. Quello che sostengo nel mio libro è che la base dell'associazione e dell'antagonismo tra i paesi è cambiata nel tempo. Nei prossimi decenni, le questioni legate alle identità, termine con cui sottintendo eredità culturali, lingua e religione, avranno un ruolo sempre più centrale nella dialettica politica internazionale. Ho elaborato questa tesi oltre 10 anni fa e molto di quello che ho detto allora è stato confermato dai successivi sviluppi storici.»

Per tutte e tre queste risposte non posso che riconoscere nel Nostro un modello più o meno ineguagliabile di geopolitologo e, in generale, di intellettuale. Anche per questo consiglio vivamente di leggere per intero l’intervista a Islamica Magazine/Global Viewpoint, che La Stampa ha meritoriamente fatto tradurre dall’inglese e ripubblicato nell’edizione di ieri. Si tratta di una rivisitazione, dieci anni dopo, di The Clash of Civilizations.



November 11, 2006

Monte Sant'Angelo

Monte Sant’Angelo, sul Gargano, provincia di Foggia, a 850 metri sul livello del mare. Ci sono stato qualche anno fa e ne conservo un ricordo indelebile. Il contesto naturale è semplicemente stupendo. La città è cresciuta intorno al celebre Santuario di San Michele—sorto tra la fine del V e l’inizio del VI secolo—e conserva miracolosamente un aspetto antico e severo, intriso di spiritualità e di storia, di devozione e di mistero. Se non è cambiata nel frattempo, fate conto che il tempo (il “progresso”), da quelle parti, non abbia provocato i danni che sono visibilissimi in una quantità di luoghi sacri e profani di mezzo mondo.

La “Celeste Basilica” sorge nel luogo indicato, secondo la tradizione, dallo stesso Arcangelo: una grotta. E’ l’unico luogo di culto della cristianità non consacrato da mano umana, in quanto alla consacrazione ha provveduto lo stesso Titolare ... Sono passati di lì papi, re, imperatori e santi. Tra questi ultimi San Francesco, nel 1226. Ma non volle entrare nella Grotta, ritenendosi indegno, e pertanto si fermò sulla soglia, baciò la terra e incise su una pietra il segno di croce in forma di Tau.

Se questo post vi ha incuriosito date una letta alla Guida illustrata—succinta ma molto ben documentata—che ha scritto il Padre Ladislao, della Congregatio Sancti Michaelis Archangeli, cioè la congregazione di religiosi che dal 13 luglio 1996 ha assunto ufficialmente la cura pastorale del Santuario. Altre belle immagini le potete ammirare nel sito del Comune.

Se non siete ancora stati a Monte Sant’Angelo, sappiate che avete perso qualcosa. Che siate credenti o meno. Oggi, festa di San Michele,* volevo giusto farvelo sapere.

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*Questo post è stato pubblicato per la prima volta su windrosehotel.splinder.com il 29 settembre 2005

Todorov: A che cosa apparteniamo

Su la Repubblica del 30 giugno («Diario»), Tzvetan Todorov ha tracciato un profilo dell’«identità europea» che merita di essere letto e meditato. Todorov parte da una celebre definizione del poeta e saggista francese Paul Valéry:


Io chiamo europei, diceva in sostanza Valéry, i popoli che nel corso della loro storia hanno subito re grandi influenze: quelle che possono essere simbolizzate dai nomi di Roma, Gerusalemme e Atene.
Da Roma vengono l’impero con il potere statale organizzato, il diritto e le istituzioni, lo status di cittadino. Da Gerusalemme, o per meglio dire dal cristianesimo, gli europei hanno ereditato la morale soggettiva, l’esame di coscienza, la giustizia universale. Atene, infine, aveva lasciato in eredità il gusto della conoscenza razionale, l’ideale di armonia, l’idea dell’uomo come misura di tutte le cose.
Chiunque possa fregiarsi di questa tripla eredità, concludeva Valéry, può a giusto titolo essere definito europeo.

Todorov spiega così il contributo del cristianesimo:


Il cristianesimo ci ha lasciato in eredità non soltanto le idee di individuo e di universalità, o il gusto della conoscenza del mondo, ma anche, per quanto possa apparire paradossale, l'idea di laicità. È con le frasi del Cristo, «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22, 21), oppure «Il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18, 36), che la necessità di separare terra e cielo, gli affari dello Stato e quelli della Chiesa, compare per la prima volta. Il teologico non conduce al politico, la trascendenza è vissuta in modo individuale.

E quello della Grecia:


La tradizione greca, a sua volta, ci trasmette anche un'idea politica importante, quella di democrazia. La comunità di tutti i cittadini è ormai responsabile del destino politico dello Stato nel suo insieme. Il potere assoluto del tiranno, del re o degli aristocratici, vale a dire di una minoranza, è messo in discussione. La democrazia greca, ovviamente, è imperfetta rispetto alla forma che hanno assunto oggi le nostre esigenze democratiche, perché più della metà della popolazione, all'epoca, ne era esclusa: le donne, gli stranieri, gli schiavi. Ma resta comunque il fatto che quella è stata la prima apparizione del concetto di sovranità popolare.

Ma secondo Todorov ci sono “contributi dell'epoca moderna, che ci sembrano altrettanto essenziali per l'identità culturale del nostro continente,” vale a dire:


Il secolo dei Lumi, che sintetizza e sistematizza il pensiero europeo dei secoli precedenti, occuperebbe in questo caso un posto di primo piano. L'idea di autonomia, messa in risalto da Kant, consiste nell'affermare che ogni essere umano è in grado di conoscere il mondo autonomamente, e di decidere del proprio destino. Proprio come il popolo è sovrano in una democrazia, l'individuo lo può diventare nel proprio ambito personale. Il XVIII secolo vede inoltre l'avvento dell'umanesimo, vale a dire della scelta che consiste nel fare dell'uomo stesso la finalità dell'azione umana. Lo scopo dell'esistenza umana sulla terra non è più cercare la salvezza della propria anima nell'aldilà, ma raggiungere la felicità sulla Terra. Il riconoscimento di una pluralità legittima, che sia quella delle religioni, quella delle culture o quella dei poteri in seno a uno Stato, va ad aggiungersi anch'esso all'eredità che l'Illuminismo ha lasciato all'identità europea: essa incorpora il concetto di pluralismo.

Fin qui, mi pare, quello di Todorov è un utile “ripasso” di ciò che già sappiamo (o dovremmo sapere), in forma di riassunto per sommi capi e con chiara finalità “didascalica.” Ma la sua riflessione tenta di muovere qualche passo in avanti. E a un certo punto lo studioso si domanda se noi, per caso, non stiamo “reiterando il nostro ideale contemporaneo, contentandoci di cercargli delle prefigurazioni storiche.”

In sostanza, scrive Todorov, se da una parte, e senza ombra di dubbio, queste “prefigurazioni” esistono, dall’altra non si può negare che esse non sono le uniche. Ad esempio, se l'idea di uguaglianza fra tutti gli esseri umani è sicuramente un portato della storia europea, anche quella di schiavitù lo è, come lo sono la tolleranza è il suo contrario, cioè il fanatismo e le guerre di religione. E allora? Come uscire dall'impasse in cui ci troviamo? Tanto per cominciare, suggerisce Todorov, occorre

ricordare che l'identità collettiva di cui l'individuo è parte non è mai unica. Gli esseri umani non hanno alcuna difficoltà ad assumere più identità alla volta, e dunque a provare molteplici solidarietà. Questa pluralità è la regola, non l'eccezione. Oltre che, per fare un esempio, "francese", io mi riconosco anche come originario di una certa regione, come uomo o donna, come un adolescente o un pensionato, come un individuo appartenente a un determinato ambiente, che esercita una determinata professione, che professa una determinata religione.

Dunque, c’è ancora spazio per “un'identità spirituale europea?” Sì, secondo lo studioso francese:

L'unità della cultura europea risiede nella sua capacità di gestire le diverse identità regionali, nazionali, religiose, culturali che la costituiscono, e di trarne profitto.

La parola chiave è, naturalmente, «pluralismo». Tra i pensatori del XVIII secolo, è Montesquieu colui che, parlando dello Stato, ha indicato quale fosse il nocciolo del problema. Interpretando “la contrapposizione fondamentale tra Stati moderati e Stati tirannici come quella tra la ripartizione dei poteri tra più soggetti o la loro concentrazione nelle mani di uno solo.”

Mi sembra una buona base per una riflessione che affronti il tema dell’identità europea con sufficiente rispetto per la complessità della materia. In particolare, colpisce il fatto che tra le tre radici segnalate da Valéry e il supplemento di indagine proposto (abbozzato) da Todorov vi sia un legame profondo e indissolubile. Resta solo il dubbio che una lettura estensiva del concetto di «pluralismo» possa sfociare in una sorta di “agnosticismo” in cui si finisca per rassegnarsi alla relativizzazione dello stesso pluralismo, visto che abbiamo a che fare, tra l’altro, con qualche fondamentalismo che nel frattempo ha messo radici in Europa. Ma questa non sembra certamente l’idea che Todorov si è fatto della questione.

[Questo post è stato pubblicato per la prima volta su windrosehotel.splinder.com il 2 luglio 2006]

What's Left? (2)

Oliver Kamm isn’t the only one who has had a preview of Nick Cohen’s new book, What's Left? How the Liberals Lost their Way, due to be published in February. Norm also has had the opportunity to read the book in draft, and here are the two excerpts he has selected to share with his readers:

The anti-war movement disgraced itself not because it was against the war in Iraq, but because it could not oppose the counter-revolution once the war was over. A principled Left that still had life in it and a liberalism that meant what it said might have remained ferociously critical of the American and British governments while offering support to Iraqis who wanted the freedoms they enjoyed. It is a generalisation to say that everyone refused to commit; the best of the old Left in the trade unions and Parliamentary Labour Party supported an anti-fascist struggle regardless of whether they were for or against the war, and American Democrats went to fight in Iraq and returned to fight the Republicans.
But... no one who looked at the liberal-left from the outside could pretend that such principled stands were commonplace.

[…]

If the new left of the 21st century is to be a liberal-left worth having, then it must learn from the best of the old traditions. First, it must understand that we are lucky people who have won life's lottery. An accident of birth has given us freedom and the wealth that comes with it. We don't have an obligation to overturn tyranny by military force. But we have no right to turn our backs on those who want the freedoms we take for granted. We have no good cause to scoff at them and make excuses for the men who would keep the knife pressed to their throats. The best reason for offering them support is that we can. We have the freedom to vote, to lobby, to protest, to write and to speak, and there is no point in having freedom unless you use it to a good purpose.



November 10, 2006

E' ancora l'America di Tocqueville


Sembra un destino, il voto americano mi riconcilia con le penne che ho più detestato e punzecchiato (punzecchiare una penna? Vedi un po' 'sti bloggers cosa si inventano ...). Ieri Vittorio Zucconi, oggi Francesco Merlo, naturalmente su Repubblica, entrambi. Un editoriale memorabile (grazie di cuore a Camillo che ha raccomandato la lettura). Riporto solo la conclusione, ma voi datemi retta (anche a Camillo, ci mancherebbe!), leggetevelo tutto e poi mettetelo da parte.

E restiamo a bocca aperta vedendo che anche Bush, come tutti gli altri, ci impartisce lezioni, nonostante la stanchezza di una nazione in guerra. L'America di Bush è ancora l'America di Tocqueville, e rimane il nostro modello di riferimento. La sola differenza è che oggi siamo noi quegli incredibili americani che furono scoperti e deformati dai pregiudizi. Con una lingua politica che è una babele, con le procedure istituzionali ridotte ad apparati cerimoniali, con una inaderenza cadaverica alla realtà che velocissima ribolle, siamo noi "i decaduti” […]. I selvaggi, l'umanità sguaiata, siamo diventati noi.

November 9, 2006

Grazie America

E dopo la sconfitta elettorale—o thumping (“pestaggio”), come lo ha definito sportivamente Bush—Donald Rumsfeld esce, entra Robert Gates. Senza perdere tempo, detto-fatto. Grazie America, questo è il primo commento che mi viene in mente, e non soltanto perché “Rummy” di errori, anche madornali e inqualificabili, ne ha commessi tanti, troppi per essere il responsabile della macchina da guerra più potente del mondo. No, non solo, non principalmente, per questo. Grazie America soprattutto per mostrarci che cos’è una democrazia vera, e cosa significa l’espressione «sovranità popolare».

E’ questa immediatezza che impressiona, questa mancanza di fronzoli e giri di parole, questa capacità di tirare una linea sul passato—anche se, come un osservatore attento come Massimo Teodori ha ammonito sul Giornale di oggi, sarebbe un errore “aspettarsi rivoluzioni”—e di ricominciare quando il popolo ha parlato. E del resto chi non ricorda l’incipit della Costituzione di quel grande Paese? “We the People of the United States, in Order to form a more perfect Union, establish Justice, insure domestic Tranquility …”

Fatto sta che, a mio avviso a riprova della forza di questo contagio democratico che dagli States giunge potente fino a noi, il resoconto più interessante che mi è capitato di leggere sugli avvenimenti d’oltreoceano, e nel contempo l’elogio più bello (non solo perché inaspettato) a George W. Bush, è dovuto alla penna di Vittorio Zucconi, cioè di uno che non ha mai risparmiato nulla all’America, pur amandola, e soprattutto a Bush figlio, che del resto il Nostro ha sempre cordialmente e coerentemente detestato.



È stato comunque ammirevole, il presidente Bush, a offrirsi ai giornalisti in diretta tv la mattina dopo la Little Big Horn repubblicana. Ha avuto coraggio e senso sportivo di fronte alla disfatta, perché Bush è americano, cresciuto nel culto della volontà popolare, non importa quanto risicato sia il margine, e ha vissuto in prima persona gli alti e bassi delle fortuna paterne, esaltato e poi sconfitto, nel 1991. "Sono stato varie volte in questo rodeo", ha sorriso con tono riflessivo e ironico, e se il toro della volontà popolare questa volta lo ha sbalzato brutalmente, il politico Bush sa sempre reagire meglio del Bush statista.
Le parole che ha detto, le offerte di collaborare con un Congresso perduto ormai anche al Senato oltre che alla Camera, le promesse di "finire il lavoro in Iraq", naturalmente senza mai specificare che cosa significhi finire il lavoro né quando, sono le formule di rito che un Capo dello Stato e del governo deve dire quando sente mancargli la terra sotto i piedi. Altri grandi presidenti, come Reagan negli anni 80 e Clinton negli anni 90 dovettero imparare a governare senza poter contare su un Parlamento addomesticato e Wall Street ha applaudito facendo salire i corsi, perché la condizione del potere diviso, tra esecutivo e legislativo di colore opposto, è la normalità, non l'eccezione nella storia americana. È esattamente ciò che i prudenti, malfidenti padri della patria avevano voluto, costruendo quel marchingegno di elezioni in tempi e anni scalati e di competenze distinte che ha sorretto la più grande democrazia del mondo attraverso due secoli di guerre e un discreto numero di pessimi presidenti.
[I corsivi sono miei]

(Attenzione: ha detto proprio “altri grandi presidenti...”)


Nel suo tono pensoso e a tratti spiritoso, che ora finalmente può affiorare dietro l'armatura della retorica bellicista e vanagloriosa che proprio Rumsfeld rappresentava, Bush ha lasciato intravedere i segnali di quel pragmatismo e di quella rinuncia ideologica che gli elettori, votando contro di lui in maniera incontestabile, gli hanno finalmente imposto. Quando un reporter gli ha chiesto se finalmente avesse letto tanti libri quanto il suo "cervello", il suo Machiavelli elettorale, Karl Rove, Bush ha risposto scoccando un'occhiata assassina a Rove, seduto in prima fila: "No, perché io, a differenza di altri, ero troppo impegnato nella campagna elettorale".
[…]
Martedì non ha vinto la sinistra, né perduto la destra. Ha vinto l'America moderata e pragmatica, quella che accetta, si emoziona, si mobilita, ma poi misura, pesa e licenzia in tronco.

Poi Zucconi fa le sue considerazioni più “di parte,” e si può essere d’accordo con lui oppure no, ma questo articolo penso che vada conservato e ricordato. Non dico Grazie Zucconi, ma solo perché non mi pare il caso di esagerare. Grazie America, per stavolta, può bastare.


November 8, 2006

Don't shoot the wolves

Do you remember Bruno the bear, the brown bear whose story made headlines last summer? After having been happily and safely resident in Italy for years, Bruno made the mistake of straying across the border into Bavaria, where it was shot by a hunter, despite its status as a species theoretically protected across the EU.

Well, we are facing a repeat of the fate that befell Bruno the bear, but this time it’s up to the wolves. As a matter of fact, despite theoretical protection under EU law, wolves continue to be targeted in France and Switzerland (where the most recent kill took place, at the end of last month). “In Italy the wolves must be protected,” said Italy's Environment Minister, “In France and Switzerland on the other hand they are massacred. […] We don't accept a repetition of the Bruno saga.”

As Alberto Meriggi, a researcher at the University of Pavia and an expert on the distribution of wolves in the northern Appenines, told la Repubblica newspaper, “Our decision to apply the law protecting wolves without exception has allowed the Appenine wolf to return vigorously throughout the peninsula. […] Today once again the Italian wolf is in resurgence. We must be careful not to allow the destruction of decades of work.” [Read the rest]

Well, I am equally bound to say that we should be very careful. Besides, who is afraid—as St. Francis of Assisi would have said—of Brother Wolf?


Una parola su Saddam

Sulla pena di morte a Saddam Hussein ho provato a cavarmela con l’aiuto di Jena, che in effetti mi sembrava rappresentare piuttosto bene lo stato dell’arte sulla controversa materia. Potere dell’apologo, della metafora, dell’exemplum, della favola e di tutto ciò che ci può stare, in luogo di una disamina serrata e incalzante, riccamente argomentata, ecc. Ma anche un modo per dribblare luoghi comuni e dibattiti pretenziosi, per sfuggire alla sensazione sgradevole di aver perso l’ennesima occasione per stare in silenzio.

E’ così, lo confesso, penso che il blogger che non conosce il valore del silenzio—e non sappia raccogliere le occasioni per applicarne la lezione—non meriti di essere letto. Così come il blogger che, quando vi si imbatte, non sa riconoscere un’argomentazione che sta una spanna su tutte le altre e non coglie al volo l’opportunità di sottrarla all’oblio cui la folla degli altri discorsi condanna inevitabilmente quei pochi che non si possono e non si devono perdere.

E allora ecco questa mirabile riflessione di Sergio Soave letta sul Foglio di oggi, non su Avvenire, come al solito. Copiata e incollata qui di seguito.

Perché chi dice nessuno tocchi Saddam non la dice tutta (giusta)


Al direttore - La contrarietà all’esecuzione della condanna a morte di Saddam Hussein può avere una sola ragione rispettabile, l’obiezione di coscienza alla pena di morte. Ha le carte in regola per invocarla soltanto chi si è opposto sempre e comunque al patibolo, compresi quelli di Norimberga, compreso quello di Piazzale Loreto. Invece in questi giorni ne sono state accampate tante altre “ragioni”, di ordine politico, giuridico, storico o morale, che a me paiono speciose e infondate.

Sul piano politico si sostiene che l’esecuzione della sentenza peggiorerebbe le prospettive di pacificazione dell’Iraq, accrescendo invece le probabilità di una guerra civile tra i sunniti, offesi dalla condanna del loro leader, e gli sciiti e i curdi, che invece ne gioiscono. Il problema è esattamente l’opposto: finché i sunniti penseranno alla possibilità di una restaurazione saddamita, la pacificazione, che non può che essere il risultato del riconoscimento della sconfitta del baathismo, resterà ardua e incerta. Quando Luigi Longo decise di far fucilare Benito Mussolini ragionò esattamente in questo modo, cinico se si vuole, ma realistico. Il capo dei partigiani comunisti non voleva neppure che si celebrasse un processo al capo del fascismo sconfitto, perché temeva che questo gli avrebbe fornito una tribuna pericolosa. Questo ci riporta alla scelta che fu compiuta dall’America di fare il possibile per catturare Saddam vivo in modo da poterlo processare. Gli americani pensavano l’esatto contrario di Longo, che un rais ucciso con le armi in pugno sarebbe diventato un martire, mentre un processo pubblico condotto da una corte irachena avrebbe messo in luce i suoi orrendi crimini. Può darsi che in questo l’Amministrazione americana abbia peccato di idealismo, non di cinismo.

Nella cultura islamica la punizione attraverso il patibolo è la norma, radicata nella cultura e nella religione. In quasi tutti i paesi islamici vige la pena di morte, che è stata abolita in Turchia soltanto per le pressioni europee. E’ un po’ sorprendente che i sostenitori del multiculturalismo, che rifiutano di sottomettere a criteri che nascono dalla difesa dei diritti universali dell’uomo aspetti delle società islamiche come la sottomissione della donna, l’imposizione del velo e soprattutto l’idea della guerra santa, in questa occasione dimentichino che l’obiezione radicale alla pena di morte è un principio che si è affermato, peraltro assai recentemente, soltanto in una parte della società occidentale, e che quindi la sua imposizione a un paese come l’Iraq avrebbe il carattere di un evidente colonialismo culturale.


Dal punto di vista giuridico è stata avanzata l’annosa questione del dubbio diritto dei vincitori di processare gli sconfitti. Bisogna sapere che se si accetta questa tesi si garantisce l’impunità a tutti i dittatori, per sanguinaria e disumana che sia stata la loro condotta. La distinzione che viene fatta tra un tribunale internazionale, che avrebbe il diritto di processare i rei di violazione dei diritti umani, e un tribunale nazionale che invece risentirebbe degli odi di parte è un’altra espressione di, più o meno inconsapevole, razzismo. Perché Oscar Luigi Scalfaro aveva il diritto, come giudice di un tribunale italiano, di comminare la pena di morte ai gerarchi fascisti che si erano macchiati di delitti nel corso della guerra civile, mentre ai giudici iracheni questo sarebbe inibito?


November 7, 2006

What's Left?

British journalist Nick Cohen’s new book, What's Left? How the Liberals Lost their Way, will be published by 4th Estate in February, 2007, but Oliver Kamm has had a preview, and he says it's excellent, “and you should pre-order it now.” As the synopsis by Amazon.co.uk says, the book dissects the agonies, idiocies and compromises of mainstream liberal thought, or, as Oliver Kamm puts it, the scandal of “how segments of the Left, in their willingness to discern progressive qualities in the most reactionary causes, went over to the other side of the political divide.”

Besides, this book reminds me of a very interesting seminar held in Rome on May 31, 2006, to discuss the reasons why the Left has forgotten its own principles. The speakers were Paul Berman, Christopher Hitchens, John Lloyd, Piero Fassino (general secretary of the Democrats of the Left), and Adriano Sofri (former leader of the far Left Lotta Continua). An account of the seminar was given by a special correspondent for normblog—final comment included.

Nick Cohen—a columnist for the Observer and New Statesman—comes from the Left, and when, at the age of 13, he found out that his kind and thoughtful English teacher voted Conservative, he nearly fell off his chair: 'To be good, you had to be on the Left.' Today—as the abstract suggests—he's no less confused:


When he looks around him, in the aftermath of the invasion of Iraq, he sees a community of Left-leaning liberals standing on their heads. Why is it that apologies for a militant Islam that stands for everything the liberal-Left is against come from a section of the Left? After the American and British wars in Bosnia and Kosovo against Slobodan Milosevic's ethnic cleansers, why were men and women of the Left denying the existence of Serb concentration camps? Why is Palestine a cause for the liberal-Left, but not, for instance, China, the Sudan, Zimbabwe or North Korea? Why can't those who say they support the Palestinian cause tell you what type of Palestine they would like to see? After the 9/11 attacks on New York and Washington why were you as likely to read that a sinister conspiracy of Jews controlled American or British foreign policy in a liberal literary journal as in a neo-Nazi rag? It's easy to know what the Left is fighting against - the evils of Bush and corporations - but what and, more to the point, who are they fighting for? As he tours the follies of the Left, Nick Cohen asks us to reconsider what it means to be liberal in this confused and topsy-turvy time. With the angry satire of Swift, he reclaims the values of democracy and solidarity that united the movement against fascism, and asks: What's Left?

Hat tip: Harry’s Place


November 6, 2006

Quel che ho scritto ho scritto

Mettiamola così:

No no, non posso dirlo, non ce la faccio, sì lo so che se uno ci crede deve crederci sempre, non può distinguere caso per caso, è un principio, un valore assoluto, il valore della vita, ma io non ci riesco, è inutile, non mi viene, è più forte di me, basta, non insistere, tanto non lo scriverò mai che non si deve condannare a morte Saddam. Oddio, l'ho scritto.
Jena

November 5, 2006

Comunicazione di servizio

Un po’ alla volta—lentamente perché il tempo a disposizione è sempre troppo poco—sto aggiornando gli elenchi dei links di questo blog. Raramente vado a curiosare nei blogs utilizzando le liste qui accanto (preferisco usare i “preferiti” del browser o il mio aggregatore di feeds), per cui scopro qua e là un link obsoleto (ma si rimedia subito), un blog cancellato, uno abbandonato (qui, invece, la cosa è irreparabile).

La blogosfera è mobile, gente che va e gente che viene, dunque nessuna sorpresa se qualcuno si stanca di tenere un blog e decide di sparire dalla circolazione, anche se a me certe perdite dispiacciono. Ma in questi casi, anche per un senso di lealtà nei confronti dei visitatori, penso che la cosa giusta da fare sia cancellare il link. Infatti, perché un blogroll abbia senso bisogna che sia aggiornato e corrispondente alla realtà. Ma quella corrispondenza alla realtà va intesa, credo, anche nel senso di un minimo di «sintonia» che deve esserci tra chi crea il collegamento e chi viene collegato. Non parlo tanto di reciprocità—che se c’è è meglio, ma non è obbligatoria—quanto proprio di un idem sentire, sia pur limitato a certi aspetti della vita, non certo su tutto, che sarebbe oltretutto impossibile oltre che non auspicabile!

Insomma, sto sistemando un po’ le cose. Non solo per togliere, anche per aggiungere. A proposito: grazie ai bloggers che hanno di recente messo un link a WRH. Datemi solo il tempo, di solito contraccambio, a meno che non mi accorga di avere a che fare con sostenitori di terroristi e tagliatori di teste, o con simpatizzanti di dittatori e tiranni di qualsiasi colore e provenienza, trafficanti di armi, di droga e (il che è lo stesso) di imperdonabili menzogne storiche, ideologiche e culturali. Ma state tranquilli, a occhio e croce non è il caso vostro ...

Venezia? "Tu ne stupisci ..."

Personalmente, sul piano intellettuale, ho grande stima del sindaco filosofo di Venezia, Massimo Cacciari. Sul piano politico penso che abbia avuto parecchie buone ispirazioni e che, comunque, se lui fosse “rappresentativo” della sinistra italiana, non sarebbe certo una disgrazia, tutt’altro. Dal punto di vista amministrativo non saprei, non vivendo a Venezia e non essendo incline a basarmi sul sentito dire per farmi delle opinioni. Premesso questo, come tanti, sono perplesso sulla propensione manifestata dal sindaco a fermare i lavori del Mose per valutare soluzioni diverse.

Sul Gazzettino di oggi c’è una lettera del governatore del Veneto, che polemizza duramente con Cacciari, ma si lascia andare anche a reminiscenze letterarie di tutto rispetto, come questa citazione petrarchesca:


«Tu ne stupisci, e chiedi come ciò sia possibile nel grande e davvero incomparabile splendore di questa vastissima città.»

La lettera si conclude con un’altra citazione, stavolta più prosaica, ma non per questo meno degna di attenzione: l'ultimo numero del Giornale dell'Arte. Eccola qua:


Mose o non Mose? Questa è la polemica che da vent'anni ha messo quasi in stallo la politica per la salvaguardia di Venezia. Gli scienziati, però, si sono quasi tutti schierati per un sistema di dighe mobili; lo sappiamo perché nel 2003 nell'Università di Cambridge ci fu un convegno di tre giorni, frutto di due anni di studio, finanziati dal Venice in Peril Fund, che esaminò tutte le ricerche condotte dal 1966 sull'alluvione di Venezia, le sue cause e le possibili cure. Un convegno serio, dunque, a cui parteciparono 130 scienziati tra Italia, Paesi Bassi, San Pietroburgo, Boston, Londra, New Orleans e altrove. Nessuno di loro pensava che Venezia potesse essere protetta senza le dighe.


Ora, visto che dopo tutto non si tratta di scegliere tra Giancarlo Galan e Massimo Cacciari, ma tra due “filosofie amministrative,” io non ho alcuna difficoltà ad accogliere quella che vorrebbe far proseguire i lavori, che poi è anche l’idea di dello storico Gherardo Ortalli e dell’economista bocconiano Francesco Giavazzi. Raccomanderei, a tal riguardo, la lettura dell’editoriale pubblicato sul Corriere di ieri, a firma di Giavazzi appunto, il quale cita abbondantemente Ortalli per stigmatizzare l’orientamento del sindaco Cacciari. Ecco un passaggio dell’editoriale che mi sento di sottoscrivere parola per parola:


Massimo Cacciari è troppo intelligente per non capire ciò che aveva intuito già trent’anni fa Bruno Visentini: il problema di Venezia è politico, non di ingegneria idraulica; quello che manca alla città non sono le opzioni tecniche per salvarla dal mare bensì la capacità di decidere. Il giorno dell’alluvione a Venezia vivevano 130 mila persone, oggi sono meno della metà: ma non eleggono loro il sindaco perché i cittadini di Mestre (la terraferma del Comune) sono tre volte più numerosi. Costoro hanno interessi diversi dalla salvaguardia della città: Venezia affondi pure, purché prima di affondare faccia affluire alle casse del Comune ancora un po’ di denaro pubblico. Per questo motivo Visentini propose un referendum per dividere Mestre da Venezia, ma la separazione non ha evidentemente alcuna possibilità di passare. Una democrazia bloccata. Fra trenta, quarant’anni è matematicamente certo che a Venezia non abiterà più nessuno: rimarranno solo i turisti e i venditori che dalla terraferma giungono in città con il loro ciarpame per raccogliere un po’ della rendita prodotta dal turismo a buon mercato.

Ma il j’accuse dell’editorialista del Corriere non si limita alle questioni di ingegneria idraulica, che poi non sono neanche quelle fondamentali, come si è visto. Ci sono, ad esempio, dei problemini che uno magari non ci pensa, e invece sono serissimi, vale a dire—con rispetto parlando—il guano dei piccioni, le pantegane e la spazzatura. Infine c’è anche la pars construens del ragionamento: una proposta-provocazione del britannico The Observer, che chiama in causa nientemeno che la Walt Disney Corporation, e un’idea niente male un tantino “più europea.” Al posto del sindaco filosofo ci farei un pensierino. E in ogni caso mi associo all'appello di Giavazzi:


Non più un soldo pubblico senza un progetto. Perché se il progetto è solo il turismo a buon mercato allora basta la Walt Disney Corporation. Il parco di Orlando non riceve neppure un dollaro dal governo, anzi fa lauti profitti.


November 4, 2006

La Sacra di San Michele



La Sacra di San Michele, in Val di Susa, è il terzo luogo micaelico che ho visitato (lo scorso weekend), dopo il celebratissimo Mont-Saint-Michel e il non meno suggestivo Monte Sant’Angelo—di cui ho già riferito nel vecchio blog, poco più di un anno fa.

Tutti e tre questi luoghi hanno in comune un carattere che definirei ascensionale e selvaggio: c’è sempre da salire, da “arrampicarsi,” in posti piuttosto impervi e, almeno in origine, fuori dal mondo. Addirittura la Sacra è stata edificata letteralmente sul cucuzzolo di una montagna (il monte Pirchiriano), cioè proprio tutt’intorno a uno spuntone di roccia, appunto la vetta, che è visibile in fondo alla chiesa. Per raggiungere la base dell’antico complesso abbaziale benedettino bisogna salire, per arrivare alla chiesa pure. Michele evidentemente non ama le cose facili.

Oggi i benedettini (cluniacensi) non ci sono più. Ci sono i Padri Rosminiani (due), dal 1836, cioè da quando Re Carlo Alberto ottenne che Papa Gregorio XVI chiamasse Antonio Rosmini e la sua congregazione religiosa a prendersi cura del luogo dopo più di due secoli di abbandono.

Non mi cimento in resoconti di tipo storico-culturale, anche perché il tutto è già spiegato benissimo nel sito Web della Sacra. Mi soffermo solo su un particolare curioso: l’irrisione dei monaci da parte di un testone che campeggia su uno degli ingressi del monastero. Una smorfia più infantile che oscena (cliccare sulla foto qui accanto per ingrandirla), ottenuta dall’allargamento della bocca ad opera di due manacce.

Se noi fossimo ancora in grado di decifrare il linguaggio segreto del simbolismo medioevale, probabilmente apprenderemmo su noi stessi qualcosa che non siamo più capaci di “leggere” e interpretare. Ma, siccome siamo diventati spaventosamente ignoranti in questa affascinante materia, dobbiamo accontentarci di incerte e zoppicanti congetture: un monito travestito da sberleffo? Un tentativo di riconciliarci con noi stessi e con le nostre debolezze? Chi può dirlo? Certo, l’effetto è sconcertante.

Per il resto, l’esperienza di questa “ascensione” ha qualcosa di unico e irripetibile. A poche decine di chilometri da Torino c’è quest’isola di meditazione, un luogo miracolosamente ancora semi-selvaggio che interpella memorie ataviche e suggerisce relazioni misteriose tra l’uomo e il creato, tra l’anima individuale e l’infinito.

A dare una mano ai due Padri Rosminiani c’è un’associazione di «Volontari della Sacra». Uno di questi volontari, un attempato signore con un lieve accento straniero (è danese), ha svolto con competenza e in maniera molto simpatica la funzione di “guida turistica.” Ha anche inneggiato alla lingua italiana ("un canto") ed esortato i turisti italiani a non maltrattarla troppo. Ovviamente, parole sante. In tema con il luogo.