August 19, 2006

Le coordinate del riformismo

Proverei ad andare un po’ oltre l’ambito entro il quale si sta svolgendo il dibattito sul riformismo, che mi sembra un po’ troppo incentrato sull’immediatezza del politicamente possibile, qui ed ora. Non voglio negare che sia necessario porsi un problema immediato, scadenze ravvicinate, obiettivi concreti (anche elettorali), tuttavia, non essendo personalmente necessitato a prendere decisioni (non sono impegnato nella “politica attiva”) ed essendo piuttosto interessato agli aspetti più culturali (di cultura politica) della questione, mi consento di prendere il discorso più alla lontana.

Dunque, comincerei osservando che su una cosa i propugnatori del nuovo partito riformista si ritrovano generalmente d’accordo : «la storia del riformismo italiano è storia che mette insieme, collega, allea ed a volte intreccia tre filoni fondamentali: il filone socialista, in tutte le sue famiglie, il filone laico-democratico (a cui, più che ad altri, ha finito più spesso per collegarsi il movimento ambientalista) ed il filone cattolico-popolare. Sono tre storie che fanno parte di una stessa storia; ciascuna ha avuto maggiore o minore spazio, ha avuto maggiori o minori devianze, ma sono esse i pilastri del nostro futuro. L’unione dei quattro partiti che formano la sinistra dell’Ulivo è dunque una pregiudiziale per far politica e anche per compiere poi passi ulteriori verso una crescente integrazione della nostra coalizione».

Lo scriveva Giuliano Amato ("Serve ancora una sinistra?") nel luglio 2001, e, appunto, non ho motivi per credere che questa impostazione sia superata, anche alla luce dei più recenti sviluppi.
C’è però un’altra questione che mi pare si tenda generalmente a sottovalutare : quella di trovare un minimo di intesa sulle coordinate culturali e filosofiche del nuovo soggetto politico. Questione che, ancor più che gli aspetti politici e programmatici, già di per sé difficili da portare a sintesi, può a mio avviso costituire un ostacolo formidabile al processo di confluenza da parte di “identità” che sono sì intrecciate tra loro, ma anche, oggettivamente, piuttosto lontane sotto il profilo culturale e filosofico.

Più o meno tutti, almeno in qualche misura, desideriamo superare le diatribe e le divisioni del passato. Questo è certo. E tuttavia occorre accertarsi se tutti siano anche disposti a fare un passo avanti rispetto non solo agli aspetti più contingenti e meno “disinteressati” di quelle divisioni, ma anche rispetto a ciò che di più nobile—e comunque di non strumentale—quelle diatribe pur sempre sottendevano, cioè l’idea generale di società e di stato. Con ciò che ne conseguiva, molto concretamente, per la vita quotidiana del cittadino.

Sollevare la questione è forse mettere immediatamente in crisi l’ipotesi di lavoro? Personalmente non credo, anzi, credo sia vero esattamente il contrario. Ma certo ci vuole molto coraggio e molta determinazione.

Per uscire dal vago, direi che una domanda “banalissima” come “che cosa si intende veramente per riformismo?” può essere con successo elusa o aggirata a livello di propaganda, un po’ meno in termini di “programmi”, molto meno in termini culturali, ancor meno (cioè quasi per niente) dal punto di vista delle ricadute sulla vita quotidiana, sia del singolo sia della società e dello stato.
Cosa vuol dire, tanto per fare un esempio, una frase fatta (oltre che una necessità pratica) come “abbandoniamo gli ideologismi”? Significa forse—a volerla mettere in termini filosofici—andar oltre il mondo della filosofia storicistica successivo ad Hegel, come un sostenitore del «Pragmatismo americano» quale Richard Rorty auspica? Significa chiamare a testimoni, come fa appunto Rorty, tanto un liberal del calibro di Dewey quanto un Heidegger che ripudia la filosofia “als strenge Wissenschaft”, come disciplina argomentativa, ecc.? Significa avvertire la necessità di una ridefinizione del liberalismo di sinistra come impegno a far sì che tutta la cultura possa essere poeticizzata invece che illuministicamente (l’Aufklaerung!) razionalizzata o scientificizzata—e con tanti saluti ad Habermas?

Mi rendo perfettamente conto che forse una parte consistente della cultura di sinistra in Italia ignora che è sicuramente lecito vedere nel “pragmatismo”, di Dewey in particolare, un equivalente americano della tradizione riformista europea, o se si preferisce un cocktail di socialdemocrazia e liberalismo di sinistra. Certo non lo ignora una studiosa come Nadia Urbinati, che ha scritto un bellissimo saggio—Individualismo democratico. Emerson, Dewey e la cultura politica americana—che aiuta sicuramente a capire come e in quale misura una migliore conoscenza della “cultura politica” americana, e delle sue radici emersoniane e deweyane appunto, potrebbe tornarci utile, fatti i dovuti distinguo, anche in un momento come questo.

Quello che vorrei auspicare è che si discutesse anche su questioni come queste. Attenzione: non per fare dell’accademia, ma proprio per non caderci dentro senza accorgersene. Rischio non immaginario, come forse qualcuno potrebbe pensare.

[Questo post è stato pubblicato per la prima volta su windrosehotel.ilcannocchiale.it il 21 settembre 2003]

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