March 17, 2008

Ma le mura del Dharma non possono essere distrutte

La Ruota del Dharma
Con un altro articolo scritto per il Secolo XIX, Carlo Buldrini racconta come sono andate le cose in Tibet nei giorni scorsi e fa il punto della drammatica situazione attuale. Le previsioni, purtroppo, non sono rosee, ma l’Autore ricorda un antico proverbio tibetano: «Le mura esterne di pietra possono crollare, le mura interne del Dharma non possono essere distrutte». Questo per dire che la scadenza dell’ultimatum di Pechino potrà segnare soltanto una conclusione provvisoria del contenzioso, non certo la fine di quella che per i tibetani (e non solo, a questo punto) è «the battle of right against might».

Una colonna di duecento camion militari si sta dirigendo verso Lhasa. I convogli sono color verde oliva e hanno il muso schiacciato, come quello dei bulldog. Su ogni camion, in piedi, sono assiepati più di quaranta militari. Le autorità di Pechino si stanno preparando per la prova di forza. Hanno intimato agli insorti la resa «entro lunedì notte». Poi, come sempre, il buio calerà sulla capitale del Tibet: rastrellamenti casa per casa, arresti di massa, torture nelle carceri, esecuzioni sommarie.

Tutto è iniziato lunedì 10 marzo, l’anniversario dell’insurrezione di Lhasa del 1959. Circa trecento monaci, per lo più giovanissimi, hanno lasciato il monastero di Drepung e si sono diretti verso il Barkor, il cuore della città vecchia. Qui, hanno percorso in senso orario il circuito che gira attorno al Jokhang, il più sacro dei templi tibetani. Hanno gridato slogan contro la Cina e chiesto a gran voce il rilascio dei monaci arrestati a ottobre, a Drepung, in occasione dei festeggiamenti per l’assegnazione al Dalai Lama della medaglia d’oro del Congresso americano. Ai giovani monaci che dimostravano nel Barkor si sono uniti molti tibetani laici. Assieme, hanno iniziato un secondo giro del circuito sacro al grido di «Bod rangzen», Tibet libero. È intervenuta allora la polizia in assetto anti-sommossa. I dimostranti sono stati dispersi. Molti monaci, arrestati.

Nei tre giorni successivi le proteste sono continuate. Questa volta a manifestare sono stati i monaci di Sera e Ganden, gli altri due grandi monasteri della periferia di Lhasa. Il giorno 13 sono scesi invece in strada i religiosi del piccolo monastero di Ramoche, nel centro della città. Questo monastero, dopo quarant’anni, porta ancora i segni delle distruzioni effettuate dalle guardie rosse durante la Rivoluzione culturale maoista. La notizia dell’arresto in massa dei monaci da parte degli uomini della People’s Armed Police ha creato una forte tensione tra la popolazione tibetana di Lhasa. Venerdì 14 marzo è esplosa la rivolta.

La scintilla è scoccata nel mercato del Tromsikhang, a ridosso del circuito del Barkor. Il Tromsikhang era un antico palazzo costruito nel XVII secolo dal sesto Dalai Lama. Era una costruzione grande come un intero isolato: sessanta metri di lato per quaranta. Oggi, di quel grandioso palazzo, resta in piedi solo la facciata. Tutto il resto è stato demolito nel corso dell’opera di “bonifica” della città vecchia fatta dai cinesi. Grazie a questa bonifica sono scomparsi i vicoli e le stradette che impedivano il passaggio alle camionette della polizia cinese durante le manifestazioni di protesta dei tibetani. Di fronte a quel che resta oggi del Tromsikhang c’è un grande shopping mall cinese. Vende scarpe, stereo, tappeti, cappelli, orologi cinesi. Dall’alba al tramonto, gli altoparlanti di questo shopping mall vomitano addosso musica pop cinese a tutto volume ai pellegrini tibetani che percorrono il circuito del Barkor recitando mantra. Venerdì mattina, per i tibetani della zona, la provocazione è stata intollerabile. I negozi cinesi del mercato che prende il nome dal Tromsikhang sono andati a fuoco. La rivolta si è estesa poi ad altre aree della città. È intervenuto l’esercito. Ha sparato sui dimostranti ad altezza d’uomo. Il governo tibetano in esilio parla di 80 morti. Forse cento. Lunedì notte scade l’ultimatum delle autorità cinesi. La tragedia tibetana potrebbe assumere proporzioni spaventose.

Come già il 27 settembre e primo ottobre 1987 e il 5 marzo 1988 – le tre date ricordate con il termine tibetano “Gu-Chu-Sum” – ancora una volta sono stati i monaci buddisti a iniziare la protesta. A questi religiosi stanno particolarmente a cuore le sofferenze del popolo tibetano e, nel segreto dei loro monasteri, è possibile organizzarsi. E mentre il pregare, il prostrarsi, il far ruotare i mulinelli di preghiera, il bruciare incenso sono tutte azioni individuali, il percorrere un circuito sacro – fare il “khorra”, come dicono i tibetani – è un rito collettivo ed è facile aggiungervi una dimensione politica. Tutte le rivolte degli ultimi anni a Lhasa sono iniziate nel circuito del Barkor.

* * *


Lo stesso lunedì 10 marzo, giorno in cui hanno avuto inizio le manifestazioni di protesta dei monaci a Lhasa, è partita da McLeod Ganj (Dharamsala), in India, la “Marcia del ritorno in Tibet”. Il 13 marzo, per i più di cento marciatori, è stata una giornata particolarmente drammatica. Mentre arrivavano le notizie che nella capitale del Tibet i tre grandi monasteri erano stati circondati dalla polizia e alcuni monaci, in segno di protesta, avevano tentato il suicidio dandosi fuoco, la polizia indiana fermava la marcia dei profughi arrestando tutti i suoi partecipanti. Il 14 marzo, il Tibetan Youth Congress, la Tibetan Women’s Association, il Gu-Chu-Sum Movement of Tibet e il National Democratic Party, quattro delle organizzazioni che hanno dato vita alla marcia, hanno emesso un comunicato in cui si ricordava che la loro azione non violenta si ispirava alla “Marcia del sale” del Mahatma Gandhi, il padre della nazione indiana. Chiedevano quindi il rilascio di tutti gli arrestati e di poter continuare la marcia. Il governo indiano ha mostrato clemenza. Ha tenuto i marciatori della prima ora bloccati nello Yatri Niwas, una guest house della cittadina di Jawalaji, nello stato dell’Himachal Pradesh e ha permesso a un secondo gruppo di militanti tibetani di riprendere la marcia. L’immagine del Mahatma Gandhi che, assieme a quella del Dalai Lama, apre il corteo ha impedito al governo indiano di usare le maniere forti. A Lhasa, intanto, tutte le comunicazioni sono state interrotte. E quando la mannaia cinese si abbatterà definitivamente sulla capitale cinese, la marcia dei tibetani in esilio sarà l’unica fiammella a rimanere accesa a illuminare la notte in cui è piombato il popolo tibetano. Con questa marcia si vuole ricordare al mondo quella che, usando le parole di Gandhi, è oggi per i tibetani «the battle of right against might», la battaglia della giustizia contro la forza.

Resta il problema del che fare, per mettere fine all’ipocrisia dell’Occidente di fronte alla tragedia di un intero popolo che sta oggi sotto gli occhi di tutti. Forse bisognerebbe far proprie le tre richieste degli organizzatori della “Marcia del ritorno in Tibet” e condizionare la partecipazione alle Olimpiadi di Pechino a un loro effettivo accoglimento da parte delle autorità cinesi. Le tre richieste sono: che vengano rimossi tutti gli ostacoli che impediscono un ritorno senza condizioni del Dalai Lama in Tibet, che il governo cinese inizi a smantellare quell’occupazione coloniale del Paese delle nevi che dura da quasi sessant’anni, che la Cina liberi tutti i prigionieri politici tibetani. Le richieste non sono pura utopia. Il ritorno del Dalai Lama in Tibet è stato chiesto nell’ottobre scorso dallo stesso presidente americano George W. Bush nel suo discorso di consegna al Dalai Lama della medaglia d’oro del Congresso americano.

L’inizio dello smantellamento dell’occupazione militare del Tibet fu lo stesso Hu Yaobang, già segretario del partito comunista cinese, a chiederlo. Nel giugno 1980, dopo aver visitato la “comune antimperialista” nella Regione autonoma del Tibet, Hu Yaobang disse che «la presenza cinese in Tibet è stata un ostacolo allo sviluppo della regione» e suggerì di «ridurre dell’85 per cento la presenza dei quadri cinesi nella Regione autonoma del Tibet». Infine, la richiesta di scarcerazione di tutti i prigionieri politici tibetani è il minimo che ogni paese democratico possa chiedere alle autorità di Pechino. Ci sarà qualche governo in Occidente – e in particolar modo quello che in Italia uscirà dalle elezioni del 13 e 14 aprile – che saprà far proprie queste richieste?

Ma anche se, ancora una volta, i tibetani verranno lasciati soli, i coloni cinesi non si devono fare soverchie illusioni. C’è un proverbio tibetano che dice: «Le mura esterne di pietra possono crollare, le mura interne del Dharma non possono essere distrutte», dove il Dharma è l’insegnamento del Buddha, la fede dell’intero popolo tibetano. Con la scadenza dell’ultimatum di Pechino la resistenza fisica del popolo tibetano, nei prossimi giorni, verrà soffocata nel sangue. Eppure, fino a quando anche un solo tibetano vivrà in Tibet, la Cina non riuscirà mai a distruggere la fede degli abitanti del Paese delle nevi.
Carlo Buldrini

March 15, 2008

Embryos are human life

At what point does the life of an individual human being begin? This is the central and most significant question raised by the issue of abortion. Robert P. George and Christopher Tollefsen address this and other related ethical questions in their just-published Embryo: A Defense of Human Life [Hat tip: Camillo].

According to the authors the embryonic stage is, like the fetal stage, the infant stage, and the adolescent stage, one stage in the development of a single human being who begins his or her existence from the instant of conception. As George and Tollefsen explain:


Human embryos are not […] some other type of animal organism, like a dog or cat. Neither are they a part of an organism, like a heart, a kidney, or a skin cell. Nor again are they a disorganized aggregate, a mere clump of cells awaiting some magical transformation. Rather, a human embryo is a whole living member of the species Homo sapiens in the earliest stage of his or her natural development. [p. 3]

Based on this, the authors argue that the human embryo is a human person worthy of full moral respect and that it is “morally wrong and unjust to kill that embryo, even if the goal of the embryo killing is the advancement of science or the development of therapeutic products or treatments.” [p. 17]

It is also to be pointed out that while typically, right-to-life arguments have been based explicitly on moral and religious grounds, in this book the authors eschewed religious arguments and used a rigorous scientific and philosophical approach.

Robert George is a member of the President’s Council on Bioethics and is a professor of jurisprudence at Princeton University. He is the author of several books including Making Men Moral and In Defense of Natural Law. Christopher Tollefsen is an associate professor of philosophy at the University of South Carolina. He is the author of the forthcoming book Biomedical Research and Beyond.

See Keith Mathison’s review to learn more about the book.

March 14, 2008

A cry for Tibet (updated)


The march, which was expected to take six months, reaching Tibet during the August 8-24 Beijing Olimpics in a protest against China’s rule over their homeland, began on Monday in Dharamshala, north-India home of the Dalai Lama and the Tibetan government-in-exile. It has to be said that, while the Dalai Lama, speaking at a separate event in India, accused China of “unimaginable and gross violations of human rights” in the Himalayan region, neither he nor Tibet's government-in-exile have issued any official statement on the march.


The choice of the date was not accidental: on March 10, 1959, a failed uprising took place in Tibet (when the Dalai Lama was forced to flee to India). Hundreds of Tibetan exiles—mostly monks, nuns and students—vowed to defy an Indian government order that they stop their march to Tibet's border.

But perhaps the dream is over: on Thursday Indian police arrested around 100 people. In fact, if it was inevitable that Tibetans would use the Beijing Olympics to give a higher profile to their protest, it was also inevitable that India, fearful that the march could embarrass Beijing and jeopardize warming ties between the Asian giants, would be drawn in. Besides, it has to be recalled that on late December 2007 the first Sino-Indian joint military drill (called “Hand-in-Hand 2007”) took place in Southwest China's Yunnan Province. The joint training, according to a brief statement from the foreign office of Chinese Ministry of National Defense, was aimed at “enhancing understanding and mutual trust between Chinese and Indian armies […] and deterring the 'three evil forces' - separatists, extremists and terrorists …” (a second military drill took place on January 2008 in India).

Yet, as Tenzin Tsundue, one of the march leaders, said on Tuesday , the marchers are ready for any kind of obstruction: “We will be very peaceful but when so many people are determined to give their lives up, no police can stop us.” Or, as 32-year-old Tenzin Ladhon said, “If police try and detain us, we will find a way to carry on.” As it was not enough, the exile groups said the march was to be just one of several protests around the world before the Beijing games, beginning from those which took place on Monday in Lhasa, Tibet (where the Chinese auctorities detained up to 60 monks), New Delhi, Kathmandu, San Fransisco and in Olympia, Greece, the birthplace of the Olympics.



Perhaps not all is lost. And this is why I think it’s not useless to quote the following ardent appeal by Tenzin Tsundue:


Here is an opportunity to join a historic non-violent freedom struggle, a people's effort to win freedom for a country that remains subjugated even in 2008. I request you to join us, support us in whatever ways possible. We need people to know about it, so spread the word. You can walk with us, as we walk for six months, maybe you can join us for a day along the path, even one hour, or for a week, months as a supporter. Schools, colleges and even whole town can walk with us. We need volunteers, media people, writers, photographers, bloggers can help us. We need nurses, cooks, technicians and your prayers.


Of course I, as a blogger, have accepted the appeal.




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UPDATE March 14, 2008, 9:30 pm

As it was highly predictable the worst is heppening in Tibet. From Financial Times:

In a potentially dangerous escalation, the US Embassy in Beijing said it has received eye-witness accounts of gunfire in the capital Lhasa, apparently as part of an effort by police to suppress the initially peaceful protests.
Chinese state media acknowledged the protests for the first time on Friday, with Xinhua, the government news agency, reporting that shops had been set on fire in Lhasa and many businesses forced to close.
The demonstrations are the largest in twenty years in the Buddhist region where the indigenous residents have long been resentful about the heavy-handed and often brutal Chinese rule.

From International Herald Tribune:

Violence erupted Friday in a busy market area of the Tibetan capital, Lhasa, as Buddhist monks and other ethnic Tibetans clashed with Chinese security forces. Witnesses say angry Tibetan crowds burned shops, cars, military vehicles and at least one tourist bus.
The chaotic scene was the latest, and most violent, confrontation in a series of protests that began Monday and now represent a major challenge to the ruling Communist Party as it prepares to play host to the Olympics in August.
Beijing is facing the most serious and prolonged demonstrations in the remote Himalayan region since the late 1980s, when it suppressed a rebellion there with lethal force that left scores and possibly hundreds of ethnic Tibetans dead.

March 12, 2008

Ehi, mica si scherza con la Giustizia ...

Che sarebbe stata dura, per lei, lo si sapeva. Ha osato troppo, perché, vabbè, la legge è uguale per tutti (e ci mancgerebbe!), però bisogna anche imparare a stare al mondo e che certe cose non si fanno. Ossia, si possono anche fare, però dipende. Da un sacco di fattori. Per dire: a chi? perché? con quali presupposti e obiettivi? Mica si scherza con la Giustizia!

E così, per decisione della procura generale della Cassazione, il 27 giugno sarà “processata” davanti alla sezione disciplinare del Csm. Naturalmente stiamo parlando del Gip di Milano Clementina Forleo. Oggetto del procedimento, ovviamente, l'ordinanza con la quale l’imprudente Clementina aveva chiesto alle Camere l'autorizzazione all'uso delle intercettazioni di alcuni parlamentari, tra cui Piero Fassino e Massimo D'Alema, per la vicenda Unipol.

Certo che è bello sapere che viviamo in un Paese in cui i diritti del cittadino sono tutelati con tanto scrupolo e dedizione—ehi, d’accordo, non si tratta esattamente di cittadini qualunque, ma che vogliamo fare, li discriminiamo solo perché sono dei politici, e magari proprio perché sono di un certa area politica anziché di un’altra? Già, e poi dicono che uno si butta con l’antipolitica! In-gra-ti, ecco quello che sono. Anzi, diciamola tutta: «Ver-go-gna»!

March 10, 2008

Is Vladimir Putin a despot?

The Russian leader’s career since 1975 is the subject of The Age of Assassins: the Rise and Rise of Vladimir Putin, a new book by Yuri Felshtinsky and Vladimir Pribylovsky. But the book is, of course, also a history of Russia over the past 17 years. Furthermore, Felshtinsky and Pribylovsky try to to draw parallels between the Putin phenomenon and … some other familiar, old phenomena such as Stalin, Hitler, Mussolini, Mao Zedong. We want to know, they say, whether Putin is a despot or not, whether the world will see a new cold—or perhaps even nuclear—war.

From Oleg Gordievsky’s review in The Times of Friday, March 7, 2008:

The authors state that it should have become obvious by now that Russia's Government “would henceforth be run and be controlled by people who hated America and Western Europe, who had no experience in building anything, who acted in secrecy while belonging to an organisation of which - as with the Gestapo in Nazi Germany - not a single good word can be said in its defence”. It is difficult to disagree with this judgment.


Hat tip: David McDuff (A Step At A Time)

March 9, 2008

Dissociarsi è d'obbligo

Il tema del «capro espiatorio» non è nuovo nella storia politica italiana. Anzi, diciamo pure che è una costante. Destra e sinistra, da questo punto di vista, si assomigliano, ma il primato sembra che spetti alla seconda, come Ernesto Galli della Loggia sostiene sul Corriere di oggi, riferendosi all’atteggiamento del Pd—con la lodevole eccezione di Walter Veltroni—nei confronti di Romano Prodi.

Certo che si tratta di un triste primato, se pensiamo che la ricerca del capro espiatorio contraddistingue soprattutto popoli, comunità e gruppi non particolarmente evoluti, per così dire, e in qualche caso dediti a pratiche di «propaganda» non certo commendevoli.

Quella ricerca può essere talvolta ossessiva: vedasi il caso Craxi e, più recentemente, anche se con motivazioni e intensità diverse, la vicenda di Clemente Mastella. Ma più spesso è semplicemente “furbesca,” come appunto nel caso di Romano Prodi, “abbandonato” dal partito che lui ha inventato e contribuito a a far diventare ciò che è oggi.

Dissociarsi da questa abitudine «ignobile» credo sia un dovere civico, oltre che morale. Non perché si vogliano o si debbano minimizzare (eventuali) errori e responsabilità. Al contrario: malcostume, corruzione, malgoverno, ecc., sono fenomeni che vanno combattuti alla radice, non facendo finta che un comportamento scorretto o discutibile siano prerogativa di uno solo anziché di molti (o di tutti). Oltretutto, queste furbizie, che in passato hanno avuto molto successo, funzionano sempre meno al giorno d’oggi.

Dissociarsi, dicevo, è d’obbligo, anche a costo di farsi diventare simpatici Mastella e Prodi (non so se mi spiego ...) e di spezzare pubblicamente una lancia per loro. Tempo fa qualcuno blaterava di “superiorità antropologica” di qualcuno nei confronti di qualcun altro, beh, vediamo di non costringere gente che di siffatti concetti non ha mai saputo che farsene a diventare oggettivamente pionieri di questa nuova frontiera della diversità antropologica.

March 8, 2008

Two Gospel songs

Take two Bluegrass Gospel songs, add two of the greatest Folk & Country music performers ever, than let them be accompanied on the mandolin by one of the most ecleptic Country singers of his generation, and you’ll have the privilege to witness an unforgettable event: Emmylou Harris and Johnny Cash singing “Where the soul of men never dies” and “Shine on Harvest moon,” and Marty Stuart playing on mandolin …



March 7, 2008

Voi vi fidate?

Naa ...

Ode a Clemente

Beppe Grillo ha saccheggiato (e malmenato) un celeberrimo sonetto foscoliano per celebrare l'uscita di scena di Clemente Mastella. Noi gli dedichiamo la foto qui a destra, attingendo ad archivi altrui. Magari qualcuno, costretto dalle circostanze, ruberà un fiore dal giardino di qualcun altro e glielo invierà in segno di affetto e riconoscenza. Si vocifera, infine, che un famoso cantante napoletano abbia plagiato la canzone di un collega un po’ meno celebre e, con qualche ritocco a testo e musica, ne abbia tratto uno struggente omaggio alla persona dell’ex ministro della Giustizia.

Poi non si dica che questo è un Paese ingrato, che non sa riconoscere chi, tra i tanti, lo ha rappresentato degnamente nel corso di questi anni tempestosi …

March 5, 2008

Tibet: in marcia per tornare



Nel dicembre 2007 e gennaio 2008 le forze armate indiane e cinesi “si sono prese per mano” e hanno effettuato un paio di esercitazioni militari congiunte, la prima in territorio cinese, nella provincia dello Yunnan, la seconda a Chusul in Ladakh, in territorio indiano. “Hand-in-Hand,” appunto, è la denominazione piuttosto poetica che è stata data all’iniziativa. E poetico, perfino commovente, è lo scopo della stessa: “combattere il terrorismo e garantire la pace, la stabilità e la creazione di un «mondo armonioso».”

Il guaio è che adesso il confine tra i due Paesi è presidiato militarmente, palmo a palmo, sia a oriente che a occidente, e dunque sarà dura per i militanti tibetani che il prossimo 10 marzo partiranno da McLeod Ganj (Dharamsala), in India, e tenteranno di entrare nel Paese delle nevi con la loro “Marcia del ritorno in Tibet.” I partecipanti sono perfettamente consapevoli dei rischi cui andranno incontro, e giustamente chiedono che il mondo sappia …

“Abbiamo bisogno di volontari, di gente che lavori nei media, di scrittori, fotografi, bloggers. Abbiamo bisogno di infermieri, cuochi, tecnici. E abbiamo bisogno soprattutto delle vostre preghiere.”


Eccoci, siamo qui. Lunedì 2 marzo Carlo Buldrini ha raccontato il tutto sul Secolo XIX di Genova. Un altro articolo imperdibile, che potete leggere per intero qui di seguito.


Una marcia pacifica per la librazione del Tibet

L’hanno chiamata la “Marcia del ritorno in Tibet”. Partirà da McLeod Ganj (Dharamsala), in India, il prossimo 10 marzo. Sarà l’evento più importante del Tibetan People’s Uprising Movement, un movimento lanciato da cinque organizzazioni tibetane in esilio: il Tibetan Youth Congress, la Tibetan Women’s Association, il Gu-Chu-Sum Movement of Tibet e gli Students for a Free Tibet. Tre sono le richieste che queste organizzazioni fanno al governo della Repubblica popolare cinese: 1. Che vengano rimossi tutti gli ostacoli che impediscono un ritorno senza condizioni del Dalai Lama in Tibet. 2. Che il governo cinese inizi a smantellare quell’occupazione coloniale del Paese delle nevi che dura da quasi sessant’anni. 3. Che la Cina liberi tutti i prigionieri politici tibetani, primo fra tutti il giovane Panchen Lama, Gedhun Choeky Nyima.

Nell’annunciare il Tibetan People’s Uprising Movement 2008, gli organizzatori hanno fatto esplicito riferimento all’insurrezione di Lhasa del 10 marzo 1959. Quel giorno, trentamila abitanti della capitale del Tibet circondarono il Norbulingka, il Palazzo d’estate dove si trovava il Dalai Lama. I dimostranti volevano impedire al giovane Tenzin Gyatso di recarsi ad assistere a una rappresentazione teatrale organizzata in suo onore a Silungpo, la sede del comando militare cinese a Lhasa. Tra i tibetani si era infatti sparsa la voce che i cinesi volessero rapire il Dalai Lama e portarlo con la forza a Pechino. La protesta degli abitanti di Lhasa sfociò in un’aperta rivolta. La notte del 17 marzo 1959 il Dalai Lama, con indosso una divisa militare e un fucile a tracolla, uscì dal Norbulingka e iniziò la sua fuga verso l’esilio indiano. La repressione della rivolta da parte degli uomini della People’s Liberation Army fu spietata. Provocò 87.000 morti tra i tibetani che cercarono di resistere. Il dato lo si trova nello stesso “Rapporto politico” dell’Esercito di liberazione popolare cinese del 1960.

Anche la “Marcia del ritorno in Tibet” che inizierà il 10 marzo 2008 ha un preciso riferimento storico. “A ispirarci è stata la ‘Marcia del sale’ di Gandhi e dei suoi satyagrahi del 1930” dice Tenzin Tsundue, una delle figure di riferimento per tutti i giovani tibetani in esilio. Così come il Mahatma, con la sua marcia, sfidò l’impero britannico in India, altrettanto vogliono fare i tibetani nei confronti della Repubblica popolare cinese. Sperano di poter raggiungere il confine del Tibet alla vigilia delle Olimpiadi di Pechino dell’agosto 2008. “Il nostro impegno a portare avanti una protesta non violenta è assoluto” dice Tsewang Rigzin, il presidente del Tibetan Youth Congress. Gli fa eco Tenzin Tsundue: “Dobbiamo capire una volta per tutte che la violenza, l’impugnare le armi, è un modo desueto per cercare di ottenere l’indipendenza. La nostra marcia costituirà una sorta di ‘sadhana’, un tributo spirituale a quella verità e a quella giustizia che ci ispirano nella nostra azione”.

Ma per i tibetani che si metteranno in marcia si prospettano giorni difficili. Nel dicembre 2007 le truppe indiane e quelle cinesi hanno effettuato un’esercitazione militare congiunta presso l’Accademia militare di Kunming, nella provincia cinese dello Yunnan. L’esercitazione è stata chiamata “Hand-in-Hand 2007” e ha avuto per obiettivo “il combattere il terrorismo e il garantire la pace, la stabilità e la creazione di un ‘mondo armonioso’”. Nel gennaio 2008 la stessa esercitazione congiunta è stata ripetuta a Chusul in Ladakh, in territorio indiano. Il confine tra India e Repubblica popolare cinese è dunque presidiato militarmente, palmo a palmo, sia a oriente che a occidente. I militanti tibetani non hanno fatto sapere da quale punto del confine intendono entrare nel Paese delle nevi. Tutti i partecipanti sono comunque coscienti dei rischi e dei pericoli a cui vanno incontro. Molti, alla vigilia della marcia, hanno donato tutti i loro averi, mettendo in conto la possibilità di non fare ritorno. Ed è per questo che chiedono di non essere lasciati soli. Dicono: “La nostra marcia offre a tutti la possibilità di partecipare a uno storico movimento non violento. Con esso vogliamo ottenere la libertà per un paese che, ancora oggi, è tenuto soggiogato. Unitevi a noi. Sosteneteci in qualsiasi modo possiate. Abbiamo bisogno di informare la gente della nostra marcia. Cammineremo per sei mesi. Potete unirvi a noi come sostenitori, per un giorno o anche per una sola ora. Oppure per una settimana o per un mese intero. Abbiamo bisogno di volontari, di gente che lavori nei media, di scrittori, fotografi, bloggers. Abbiamo bisogno di infermieri, cuochi, tecnici. E abbiamo bisogno soprattutto delle vostre preghiere”.

Who was J. S. Bach?

Two interesting links for J.S. Bach’s lovers and worshippers (via Norm):

> More than 250 years after the German composer's death, the face of Johann Sebastian Bach has been recreated by experts at Dundee University (UK).

> J.S. Bach in the Twenty-First Century: The Chapel Becomes a Larder, in “Hudson Review,” Winter 2008, a long article by Harold Fromm. Although Fromm doesn’t want to serve as a reviewer of the recent books by Geck, Wolff, and Williams, he refers to them, and acknowledges his debt to these erudite scholars and musicologists.

[Johann Sebastian Bach: Life and Work, by Martin Geck. Foreword by Kurt Masur. Trans. by John Hargraves. Harcourt. J. S. BACH: A Life in Music, by Peter Williams. Cambridge University Press. Johann Sebastian Bach: The Learned Musician, by Christoph Wolff. New York, London, 2000]

March 3, 2008

The eternal Roman and Mediterranean soul

Ostuni, PugliaIf it is not a mystery that, on the one hand, the Greek-Roman soul was intimately tied to Egypt and North Africa, it is also true that, on the other, the North-African regions are nowadays considered diverse and almost European by Sub-Saharan black people. Add to this that during the whole Middle Ages North Africans were the most powerful, civilised and wealthy among all Mediterranean and European folks, even though in these days the northern and southern shores of the Mediterranean tend to exchange their roles, since wealth has now moved to the north. Then consider that


many villages in southern Italy (or in so many Greek islands, not to mention Spain, who was under Arabic rule for so long) look Arabic or belonging in any case to the deep southern Mediterranean: take Ostuni, in Apulia, or Sperlonga, in the south of Latium; then look at Sidi Bou Said in Tunisia (see picture above). They are almost identical, belonging to a very similar culture, whether we like it or not, because during the Middle Ages the winning model came from the southern Mediterranean coasts, where civilization (and power) lay.


As a result, according to this Man of Roma’s delicious and thoughtful post, the differences between parts of Italy (and Greece, and Spain) and the North African Countries are not as great as someone might think. And all this while there are parts of Italy—most of the northern and central regions—that since centuries are basically “north-oriented,” and had in the post-Second World War decades an economic, industrial, and socio-cultural growth that made them some of the richest and most developed areas of Europe (while about half of the southern regions still lay in a state of disrepair).

By the way, perhaps that is also why to rule this Country has always been such an “impossible” task—being Italy a too long peninsula … as well as the outcome of very different historical courses and destinies.

To conclude, though I’m not sure I fully agree with Man of Roma—I would prefer to stress the differences rather than the similarities between Southern Italy and the North African Countries—, I recommend a careful reading of his post, supposing that you like travelling through time and space as much as I personally do.

February 29, 2008

Somewhere over the rainbow ...

Somewhere over the rainbow
Way up high
There's a land that I heard of
Once in a lullaby

Somewhere over the rainbow
Skies are blue
And the dreams that you dare to dream
Really do come true


So goes the old Judy Garland song, whose lyrics depict a sweet tender girl's desire to escape from harsh reality of the world, to the bright, new world called Oz—well, it isn’t actually my aim to tell a fairy tale …, rather I am to tell a political story. Set in Italy, AD 2008. What has that story got to do with Judy Garland’s song? Er … nothing, nothing but the rainbow, a new bright (possible) world “where the dreams that you dare to dream really do come true,” and things like these, unimportant details. So what? Well, It’s just that I do love fairy tales …

From today’s Il Foglio:


The Rainbow Left is making an united front against all the Italian Military Missions abroad – in Lebanon, Afghanistan and the Balkans. Yet while the Prodi Government and its Union coalition were in charge the included Hard Left had voted for all of them in Parliament. Now their slogan is “Italy out of NATO”. This is a proposal that the old PCI – The Italian Communist Party – abandoned in 1976 when their Leader Enrico Berlinguer declared that he felt safer “under the NATO umbrella”. Moreover Fausto Bertinotti, the now Leader of the Hard Left La Cosa Rossa, who proposed leaving NATO in the 1994 Election, from then until now has been very careful not to repeat it. The front line politicians of the Pd – the centre left Democratic Party – underline all these Cosa Rossa policy position takings as a proof of the good reason – and of the inevitability – of their decision to run for election separately. Yet the argument could be turned upside down. It could be said however that it might be verily their decision to renounce unilaterally the preceding agreed policies of the left wing Prodi coalition government – and with this “the old two party system” – which has subverted that mechanism of “the constitutional inclusion of the extremes” which had been universally considered the Rainbow Hard Left’s most important achievement in government.
[Translation by Richard Newbury]

February 27, 2008

Ma sei tu il capitano di te stesso



Impagabile. L’appello ai suoi lettori di Giuliano Ferrara. Chiedere lumi, in un’epoca superficiale e presuntuosa—come le folle che questo tempo lo abitano e ci si trovano perfettamente a proprio agio—è di pochi, pochissimi. Sarà sicuramente preso di mira anche per questo. Ma giustamente, e fortunatamente, se ne farà un baffo.

Epperò, mica è facile raccogliere l’appello, dire qualcosa nel merito, addirittura dare consigli. A me sembra, comunque, che la pista giusta sia quella che da solo si è tracciato: “Ho già detto che se anche andasse male non importa, perché è già andata bene.” Infatti. E sarebbe già andata bene anche se non ci dovesse più essere alcuna lista di cui discettare. Missione compiuta, capitano, mio capitano. Poi fa' un po’ come ti pare: i gradi serviranno pure a qualcosa.

Chiesa press

An up-to-date directory (latest update, February 27, 2008) of Christian newspapers, radio, and TV from all over the world, included a link to new online Cuban journal ConVivencia. By Sandro Magister.

Don't Forget Burma


I am experiencing firsthand the benefits of being on Facebook. In fact, since I got my Facebook account a few days ago, I have been able to participate in groups such as “Support the Monks' protest in Burma,” and to receive—this very morning—“real-time” information about initiatives such as DON'T FORGET BURMA, that is

a new groundbreaking campaign launched to show the world that normal people have not forgotten Burma and to show the brave pro-democracy protestors who took to the streets a few weeks ago that the world has not forgotten them.


Since the media spotlight above Burma is dimming day after day, I think this is a very interesting way to draw people’s attention to the fact that now more than ever Burma needs their support!

Please go to http://www.dontforgetburma.org/ to see what DON'T FORGET BURMA is all about and do your part, as did the author of the above picture.

February 25, 2008

Bologna's new renaissance


Have you ever been in Bologna, the the capital city of Emilia-Romagna, in northern Italy? Home of the oldest university in the world, “Alma Mater Studiorum” founded back in 1088, the city is living a new renaissance. This could be the best time to pay a visit ...


For centuries, the northwest corner of old Bologna was an industrial zone, home to slaughterhouses, salt works and tobacco factories. But now the once neglected neighborhood, a 15-minute walk from the city center, is churning out a new commodity: art.
With a new museum, film center and concert hall, the wedge-shaped area — bounded roughly by Via Don Minzoni and Via Riva di Reno — has been refashioned into a new arts and cultural district known as Manifattura delle Arti, or Factory of the Arts ...
[The New York Times]

Identità cristiana o demo-cristiana?

Quando qualcuno tira in ballo l’identità cristiana dell’Italia, e lo fa con un certo clamore, nonché, si suppone, con tutte le migliori intenzioni di porre seriamente la questione, non si può far finta di niente. Anche se non sei esattamente entusiasta di affrontare il problema, e questo, diciamo, perché si tratta di un argomento piuttosto esposto a speculazioni, ti devi disporre all’inevitabile confronto di idee. Pierferdinando Casini, da qualche giorno a questa parte, afferma ad ogni piè sospinto di aver rotto con la Casa delle libertà proprio per difendere quell’identità, Ernesto Galli della Loggia ci scrive su un editoriale, e il gioco è fatto.

Ora, punto primo, sono talmente d’accordo con le osservazioni dell’editorialista del Corriere che potrei limitarmi ad un link sbrigativo, se non fosse che non credo assolutamente nella motivazione addotta dal leader dell’Ucd. Penso, infatti, che Casini abbia rotto con Berlusconi per ragioni, diciamo così, di “appartenenza partitica”—che poi, come ho già scritto in qualche occasione, considero assolutamente legittime, perché salvaguardare l’identità della propria formazione politica è il compito di qualsiasi leader che si rispetti. Casini ha difeso un’identità, ma non, appunto, quella cristiana dell’Italia, bensì quella del suo partito. Legittimo e doveroso, a patto, naturalmente, che si ritenga prioritaria questa esigenza rispetto ad altre, quali, ad esempio, l’opportunità di unire le forze in vista di una maggiore efficacia, poniamo, nella lotta contro chi è in grado di minacciare l’identità cristiana della nazione.

Sul perché Casini abbia scelto in un modo anziché in un altro si può tirare a indovinare. Personalmente penso che il fattore personale—l’aspirazione a non farsi fagocitare all’interno del Popolo della libertà, un partito dominato da Berlusconi e Fini, con quest’ultimo in pole position (chiedo scusa per l’espressione un po’ banale) per la futura ed eventuale successione al capo—abbia giocato un ruolo determinante. Ben inteso, anche questo è legittimo, visto che l’ambizione, in politica, non è una colpa.

Che poi, dall’interno della Chiesa, si sia levata qualche voce a corroborare la lettura casiniana della rottura è una cosa spiegabile con un’altrettanto legittima preoccupazione: quella appunto della Chiesa di avere un partito che risponda innanzittutto ad essa, in forza del nome che porta e del simbolo che campeggia sui manifesti elettorali. Ma anche questo non c’entra nulla con l’identità cristiana del Paese. E a questo punto il rinvio a Galli della Loggia è automatico: si veda come il professore ha demolito la pretesa indispensabilità di un partito esplicitamente cristiano in ordine al conseguimento degli obiettivi identitari di cui sopra.

Di mio sottolineerei che quasi mezzo secolo di Democrazia cristiana ha prodotto una tale noncuranza per l’istituto della famiglia da far arrossire chiunque metta a confronto le concrete politiche per la famiglia che vigono in paesi come la Francia e la Germania con quelle (non) in vigore da noi. Per non parlare di moralità pubblica e privata, come giustamente ricorda Galli della Loggia.

Infine, a voler essere davvero pignoli, non trascurerei neanche la dubbia (quanto meno) coerenza personale con i valori e i canoni di comportamento del cristianesimo. Insomma, la solita storiella di quello che ama talmente la famiglia da ritenere opportuno avercene due … Insomma, perfino il laicissimo Veltroni ha saputo fare di meglio. Un minimo di pudore non guasterebbe. E con questo ho esaurito la scorta di moralismo (per fortuna).

February 23, 2008

La verità (secondo Sartori)

Certo, alle elezioni i partiti un qualche programma lo devono presentare. Ma oramai è chiaro che non si possono permettere di presentare tutto il programma. Perché oramai è chiaro che chi lo fa onestamente, perde le elezioni.


Lo scrive Giovanni Sartori sul Corriere di oggi. Ogni tanto, anche durante una campagna elettorale, capita che qualcuno—che però non c’entra direttamente (con la campagna)—scriva la verità.

February 20, 2008

'Let no one touch the unborn child'

He is the man who first proposed, after a resolution calling for “a moratorium on the death penalty” was adopted by the General Assembly of the United Nations on December 18, 2007, another moratorium, that on abortion (see my previous post for details). Here is an interview with editor of Il Foglio Giuliano Ferrara by Inside The Vatican - Monthly Roman Catholic News Magazine.