October 3, 2007

Birmania: sanzioni, ma non solo

Ma le sanzioni servono a qualcosa? E’ un interrogativo ricorrente. Se ne discute ogni qualvolta nel mondo accade quello che non dovrebbe mai accadere e in tutti quei casi in cui il dialogo, anche ai massimi livelli internazionali, si è rivelato sterile, quando il lavorio diplomatico, le proteste ufficiali o addirittura le minacce hanno fallito miseramente. Ovvio che il tema sia di strettissima attualità nel caso Birmania. Ma di sanzioni da parte dell’Onu, nella fattispecie, non se ne parla nemmeno, visto il veto di Pechino, l’altolà di Mosca nei confronti di chi pretenderebbe “interferire negli affari interni” di quel Paese, e le orecchie da mercante di New Delhi, che per il gas birmano, neanche in questo momento, rinuncia a fare affari con i massacratori di monaci. Una pagina vergognosa, se posso dirlo, pur con tutto l’affetto per un Paese e un popolo fantastici, o quanto meno assai poco gandhiana, come si legge su DNA - Daily News & Analysis, un quotidiano che si stampa da quelle parti:

On a day when the United Nations along with India is celebrating Mahatma’s Gandhi’s life and his ideologies of truth and non-violence, the government’s refusal to condemn the use of force against demonstrations by peaceful Buddhist monks in neighbouring Burma is ironic.
If Gandhi were alive would he not have spoken out? But the Congress-led coalition in New Delhi, has so far continued to walk a tight rope on the suppression of democracy in its neighbourhood. New Delhi is fighting shy of using its clout with the generals to broker a deal between the generals and the national league for democracy led by Aung San Suu Kyi.
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Restano, è vero, gli Stati Uniti e l’Unione europea, che del resto qualche misura l’hanno già presa in passato: da dieci anni—come ricorda Andrea Lavazza nell’editoriale che si legge su Avvenire di oggi—la Ue ha vietato il commercio di ar­mi, sospesi gli aiuti e revocato lo status di partner com­merciale privilegiato (Lavazza dice anche che sono stati congelati i beni di quei galantuomini dei generali, ma su questo ho qualche dubbio), mentre Washington, dal canto suo, ha bloccato nuovi investimenti e, in parte, le im­portazioni dalla Birmania. A cosa è servito? Evidentemente a nulla.

E allora? Beh, innanzitutto, come sostiene Bernard Henry-Lévy sul Corriere di oggi, sullo strumento “sanzioni” bisogna fare qualche doverosa distinzione e magari smetterla con il ritornello delle «sanzioni-che-non-servono- a-niente-e-che-in-realtà-danneggiano-soltanto- coloro-che-vogliamo-aiutare». Diciamolo: ha qualche ragione Henry-Lévy quando fa notare che è troppo facile, e pure un po’ da “paraculi,” cavarsela in questo modo (“si intuisce troppo bene la scaltrezza di chi, comunque, non vuole fare niente, soprattutto non vuole tentare niente e ancor meno vuole complicarsi la vita”). Ma, a parte questo, l’argomento che a rimetterci, dalle sanzioni, non sono i capi, bensì il popolo, almeno nel caso birmano, è “particolarmente fuori luogo,” e questo per alcuni dati di fatto difficilmente contestabili:

il 75 per cento della popolazione birmana vive di sola agricoltura in un regime quasi autarchico; buona parte di questo 75 per cento vive nascosta nelle foreste per sfuggire a una repressione di cui abbiamo appena intravisto la costante e assoluta brutalità; i monaci stessi, letteralmente bhikku, mendicanti, vivono in una condizione di frugalità che è l'essenza del loro essere; il resto dell'economia, quella di un certo peso, è stata accaparrata da una cricca di ufficiali assassini che la controllano direttamente; insomma, siamo di fronte a un caso esemplare in cui, al contrario, se le sanzioni fossero applicate, andrebbero dritte al bersaglio, senza rischio di sbagliarlo, e indebolirebbero immancabilmente la gang del generale Than Shwe.

A me sembra che il ragionamento non faccia una grinza. Anche perché è bilanciato da considerazioni altrettanto realistiche e persuasive, ma di segno opposto: non ci si può nascondere un’altra elementare verità, e cioè che le sanzioni sono inefficaci quando una parte del mondo le applica e l'altra ne approfitta sfacciatamente, e questo è precisamente ciò che sta succedendo in Birmania, mentre il successo è assicurato quando, come nel caso del Sud Africa, si crea un fronte unito contro l’infamia. E dunque? Condannati nonostante tutto al pessimismo? No, dall’impasse si può uscire, ma a patto di assumersi, contestualmente alle sanzioni, qualche rischio supplementare, tipo intraprendere “un braccio di ferro diplomatico con gli amici indiani,” o fare inequivocabilmente capire ai cinesi

quanto sia difficile concepire che le Olimpiadi abbiano luogo nella capitale di un Paese che incoraggia un regime il cui sport nazionale sembra sia diventato quello di prendere al lazo, picchiare, deportare, torturare e, alla fine, assassinare uomini che hanno, come unica arma, una ciotola di lacca nera rovesciata.

Fin qui si spinge Henry-Lévy, che non arriva, tuttavia, a teorizzare l’opportunità di un boicottaggio delle Olimpiadi del 2008. Probabilmente, al pari dell’editorialista di Avvenire, pensa a qualcosa di “intermedio,” come

minacciare un black out informativo totale sull’evento da parte dei mass media occidentali, un oscu­ramento (finanziato dai governi, visti i diritti già pagati) che vanifichi il ritorno di imma­gine sperato da Pechino e funga anche da contrappasso alle censure cui è oggi sotto­posta la crisi birmana.

Ma non poniamo limiti alla fantasia di antiche e consolidate diplomazie. L’importante è crederci, fermamente, il resto verrà da sé (e comunque non mi sembra niente male l’ideuzza del quotidiano della Cei …).

October 1, 2007

Sarko affonda la politica estera italiana

Il Panebianco che graffia e fa male è tornato. Se non sbaglio era un po’ di tempo che non lo si vedeva in azione. Stavolta il bersaglio è la politica estera del governo italiano, e l’obiettivo mi pare sia stato centrato e affondato con un colpo solo. Con la vittoria di Sarkozy è venuta meno la sponda francese, essenziale per D’Alema e Prodi, che vi puntavano le loro carte per non incorrere nei veti delle componenti massimalistiche del loro governo, ed ora l’Italia rischia l’isolamento internazionale. L’era delle ambiguità, comunque, è finita. Il caso Iran sarà la cartina di tornasole di questa nuova realtà, con un Bernard Kouchner che ha preso definitivamente atto che il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, bloccato dai veti russi e cinesi, non serve più a niente, e dunque propone che sia l'Europa a imporre proprie sanzioni agli iraniani. Insomma,

che farà l'Italia se sulle sanzioni la Francia otterrà l'assenso della Germania e di altri Paesi europei? Sceglierà di dissociarsi? Difficile crederlo. Anche dal punto di vista simbolico, continuare a nascondersi dietro l'ombra dell'Onu (impotente a causa delle posizioni russe e cinesi) rifiutando di partecipare a una azione concertata europea sarebbe assai difficile. Il dilemma può essere così riassunto: aderire a una iniziativa tutta «occidentale » (americana e europea) contro l'Iran al di fuori dell'Onu sarebbe impossibile per il governo Prodi a causa dei suoi equilibri interni di coalizione. Ma non aderire sarebbe altrettanto impossibile a causa dell'insostenibile isolamento italiano che ciò provocherebbe. Comunque vada, il tempo degli equilibrismi e delle ambiguità della politica estera italiana sembra ormai scaduto.

September 30, 2007

Orinoco Flow: a comparison

Irish singer and songwriter Enya (born Eithne Ní Bhraonáin), whose soothing, angelic voice is one of the most celebrated in the world, achieved a breakthrough in her career in 1988 with the album Watermark, which featured Enya's first hit, “Orinoco Flow.” The song, sometimes known as “Sail Away” (it is actually just about the dream of travelling the world freely), was first released as a single after getting airplay on The Steve Wright Show on BBC Radio One, and topped the charts in the United Kingdom. The album, in turn, sold eight million copies. The song also received increased popularity … after featuring in a US commercial for car maker Volkswagen.

The title of the song refers to the London studio in which it was recorded, rather than the Venezuelan river Orinoco (one of the longest rivers in South America), although it is likely a deliberate dual reference. As reported in the little book included with the box set of Only Time: The Collection, there was a sense of discovery in the creating of Watermark, “a sense of beginning, a sense of something new and exciting. "Orinoco Flow" reflects the feeling of that time for us - adventure!”

Recently the group Celtic Woman has resurrected this song with their own arrangement. Here in the You Tube video—a very recent and unique one!—is a comparison of the original “Orinoco Flow” (music video) by Enya and the version sung by Celtic Woman. Who sung it better? You decide!



September 28, 2007

Monaci guerrieri per la libertà

Perbacco, uno non fa in tempo a compiacersi perché a Otto e mezzo ha ascoltato una persona giovane, intelligente e preparata, nonché dall’eloquio brillante e al contempo pacato, ed ecco che sul Foglio il tizio in questione viene interpellato sulla rivoluzione dei monaci in Birmania e ti butta giù un articoletto che, se non lo avesse scritto, oggi saremmo un po’ più ignoranti e molto più confusi di fronte alla singolarità—con tutti i suoi risvolti drammatici—dell’evento di cui il mondo, o meglio ancora l’Occidente, è l’interdetto testimone.

Ci domandiamo, dall’alto della nostra gloriosa secolarizzazione,
come sia possibile che i seguaci del Pacifico Buddha scommettano sulla liberazione di un popolo anziché perdersi nella rarefazione del Nirvana, nella ricchezza di un vuoto assoluto così distante dall’umano.

E per lo più non ci aspettiamo che la vecchia storia del «male minore» valga anche per i monaci buddisti, o che “la morale primaria del «non uccidere una vita»” possa autorizzare, anzi, possa consigliare di battersi contro gli assassini “con tenacia guerriera” e, nel contempo, “impersonalità sacerdotale.” Ed ecco che Alessandro Giuli ci ricorda che il Buddha stesso discendeva da una casta guerriera, quella dei kshatrya. E che “fu proprio lui, in un’incarnazione precedente, a uccidere un uomo per impedirgli di massacrarne cinquecento.”

E poi ci sono storie antiche e bellissime, come quella dell’ aspirante discepolo che una notte
andò a bussare con gentilezza alla casa di un altro maestro e per una due tre volte venne respinto con la porta schiacciata sul viso; finché alla quarta, senza dire una parola, decise di centrare con un pugno il muso del maestro e fu così ricevuto. L’ardore marziale nell’agire senza agire.

Storie di un altro mondo, senza dubbio, ma un mondo che un tempo fu anche il nostro, perché—come avrebbe potuto ricordarci il nostro opinionista nonché lettore di Evola (e Guénon, suppongo), se solo avesse avuto più spazio—la Tradizione è una, sia pure con le sue molteplici incarnazioni e le sue infinite sfaccettature. Storie di un Oriente che ha prodotto, sul côté induistico, la Bhagavad-gita (Canto del Beato), il capitolo più famoso e amato del Mahābhārata e l'essenza stessa della conoscenza vedica. Dove ad Arjuna, l’eroe, è Krishna a rammentare i suoi doveri di kshatrya—e la sua via verso l’immortalità—nel momento che precede l'inizio di una guerra orribile. L’eroe si è lasciato prendere dallo sconforto, non se la sente di combattere. E Krishna gli spiega come superare la terribile impasse, cioè come liberarsi, pur agendo, “dai legami dell’azione,” vale a dire il “metodo dell'azione compiuta senza attaccamento al risultato” …

Combatti per dovere, senza considerare gioia o dolore, perdita o guadagno, vittoria o sconfitta — così facendo non incorrerai mai nel peccato. [2, 38]


Ecco, forse anche di questo ci avrebbe fatto omaggio Alessandro Giuli se il Direttore gli avesse concesso un’intera pagina. Sarà per un’altra volta? Per il momento accontentiamoci di questa conclusione, che svela definitivamente l’arcano e impartisce una lezione memorabile a tutti i Christopher Hitchens di questo mondo:
Il perfetto buddista è il risultato di un ardore marziale nella propria misura e attivo nella propria immobilità. Perciò può scegliere di marciare incolonnato ai fratelli in abito purpureo, sotto la pioggia calda di Rangoon e sotto i manganelli dei salariati in divisa militare. Il suo semplice esserci è un atto rivoluzionario, il suo resistere (anche proteggendo con il corpo gli altri manifestanti) è un agire-senza-agire che diserta il moto accessorio per concentrarsi sull’essenziale. La libertà è l’essenziale. Anche in Birmania.

September 25, 2007

Un mantra per la Birmania (updated)

UPDATE - Sep 26, 2007 - 10:30 am

1. YANGON (Reuters) - Circa 5.000 monaci e civili stanno marciando verso il centro della capitale dell'ex Birmania, Yangon, sfidando i soldati e la polizia dispiegati nella città in assetto anti-sommossa.
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2. YANGON (Corriere della Sera) Scatta la repressione della giunta - Continua a crescere la tensione in Birmania e secondo le ultime notizie l'attesa repressione di soldati e polizia ha fatto la prima vittima: un monaco è stato ucciso dagli spari dei militari dell'esercito birmano, che ha tentato di disperdere la protesta pacifica nelle strade birmane. Lo hanno riferito la stampa e testimoni locali.
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Pregate per la Birmania, sintetizza oggi Enzo Reale sul suo blog “generalista,” mentre su quello specialistico, di quel lontano e sfortunato Paese si è occupato nei giorni scorsi con una serie formidabile di post che tutti coloro i quali vogliono capire qualcosa di quello che sta succedendo e del come e perché si sia arrivati a questo punto dovrebbero leggere. Non ci sarebbe altro da aggiungere (all’appello di Enzo e ai suoi post), sennonché, per dare ai giornali quel che è dei giornali, suggerisco di leggere un ricchissimo e toccante articolo di Bernardo Valli su la Repubblica e l’intervista di Giordano Stabile, su La Stampa, al primo mini­stro del governo democratico in esi­lio della Birmania, Sein Win.

Quest’ultimo, nominato dopo la straripante vittoria della lista gui­data dal premio Nobel per la pace (1991) Aung San Suu Kyi (nella foto sopra) nelle elezioni tenutesi nel lontano 1990—le uniche concesse dalla giunta militare che aveva preso il po­tere ventotto anni prima—sfuggì per miracolo alle epurazioni messe in atto dai generali, e riparò negli Stati Uniti, da dove oggi guida l'opposizione in esilio. E’ ottimista, Sein Win: «E’ la volta buona», dice, «ma la comunità internazio­nale deve portare al massimo livello le pressioni sulla giunta». Alla domanda sul perché la leadership del movimento sia stata assunta dai reli­giosi, risponde così:
«In Birmania il ruo­lo della religione buddhista è molto importante. I mo­naci vengono dal popolo e ascoltano il popolo, quotidia­namente. Hanno capito che il popolo chiedeva loro di fa­re qualcosa e l'han­no fatto. Questo di­mostra anche che i tentativi della giun­ta di manipolare la religione buddhi­sta per i suoi scopi non hanno avuto molta presa».

Su questo blog, da sempre sensibile alla causa del Tibet, le parole di Sein Win non suonano nuove. Sì, pregare per la Birmania assieme ai suoi monaci e a tutto il suo popolo è cosa buona e giusta. Ma pretendere che l’Occidente faccia la sua parte anche per altre vie non lo è meno. George W. Bush e Gordon Brown—ancora e sempre Stati Uniti e Gran Bretagna!—sembra che ne siano perfettamente consapevoli. Enzo, però, che qualche momento fa ha aggiornato il post già linkato sopra, alla luce delle ultimissime notizie, è molto, molto preoccupato (e ne ha ben donde). Speriamo bene.

September 24, 2007

Fini e la destra tradita

Non per dare un colpo alla botte e uno al cerchio, ma stasera Giuliano Ferrara l’ho veramente apprezzato. O meglio, mi è piaciuto molto il suo Otto e mezzo. Beh, veramente, ad essere proprio sinceri, il merito è essenzialmente di Alessandro Giuli, che è stato ospite della trasmissione per parlare del suo libro, Il passo delle oche (Einaudi, pagg. 176, € 14.50), un pamphlet piuttosto severo, o meglio impietoso, su Gianfranco Fini e su tutto il gruppo dirigente di An.

Non sto a riassumere perché non sono un esperto delle cose di quel partito, dal quale, oltretutto, mi sento effettivamente un po’ troppo lontano. Tra qualche ora, comunque, chi l’avesse persa potrà trovare qui il video della trasmissione, che il lunedì è pure abbastanza breve. In due parole, comunque, la tesi di Giuli è che a destra non è difficile rintracciare l’ubi consistam di Bossi, di Casini e di Berlusconi, mentre quello di Fini è un po’ più problematico, anzi, stando all’Autore, non c’è proprio. Il che, si parva licet, collima perfettamente con l’impressione che ne ho io, e questo ovviamente non mi dispiace.

Giuli, comunque, ha un'altra cosetta cosa in comune con me: ha letto Evola. Sicuramente meglio e più approfonditamente di me, è chiaro, anche perché, in materia di studi sulla cosiddetta “Tradizione,” al pensatore italiano ho sempre preferito il francese René Guénon, malgrado la difficoltà e, per certi aspetti, la dispersività—a mio modesto giudizio—del pensiero di quest’ultimo. Ebbene, dicevo, l’aver letto Julius Evola (solo due o tre delle sue opere maggiori) fa sì che, quando si parla di uno stile, di un «carattere» dell’uomo di destra, so a cosa ci si riferisce, ed anche se non condivido capisco che il ragionamento, al di là delle divergenze, ha una sua dignità culturale e, direi, anche una sua nobiltà, ammesso, beninteso, che sia possibile mettere tra parentesi, per seguire l’ipotesi di lavoro, le aberrazioni razzistiche ed antisemitiche di cui Evola si è macchiato. Per questo credo che Alessandro Giuli abbia ragioni da vendere, e che il suo disgusto (filosofico) per una destra che è mancata, innanzitutto, sul piano «spirituale» sia giustificato.

Dopodiché mi viene da pensare che, se Fini ha “tradito” la destra, o almeno la sua manifestazione italica, si può solo esserne felici. Da liberali, intendo. Insomma, meno male che l’ha capito, si potrebbe dire. Epperò, se le cose hanno preso questa direzione, non è che l’approdo sia quello che, appunto, sarebbe stato auspicabile da un punto di vista liberale (di destra). Vale a dire che c’è qualcosa di incompiuto, di non risolto, e questo più per calcolo opportunistico e debolezza culturale—le due cose si tengono, secondo Giuli—che per altro. L’esito, quindi, è di una mediocrità sconcertante. Paradigmatica, in definitiva, della crisi complessiva del sistema politico italiano.

Ferrara, credo, con questo Otto e mezzo si è quasi fatto perdonare. Ho detto quasi, attenzione …

September 20, 2007

Non sparate sul Vate, please

Vabbè, Grillo sarà pure matto, sboccato e quant’altro, ma pure pericoloso no, non direi proprio. Banalità per banalità, si può rispondere che perniciosa, semmai, è la situazione che ha generato il grillismo, ovvero una classe politica men che mediocre, un’informazione attentissima alle beghe e alle congiure di palazzo ma distratta—o asservita, tremebonda, inadeguata, ecc., ecc.—sulle questioni serie. Il direttore del Tg2, insomma, che tuttavia ha il diritto di dire anche lui quello che pensa, o che gli piace pensare, sul Vate della Blogosfera ha esagerato, e Fini, per dire, ha fatto bene a ridimensionare, anche se alla mano tesa Grillo—l'ingrato, il malefico—ha purtroppo risposto in malo modo.

Mi spiace che anche Giuliano Ferrara si sia arruolato nell’esercito di liberazione nazionale dalla volgarità politica. Non lo capisco, o forse sì, ma non è da escludere che la sua sia una difesa d’ufficio, o che si sia sentito toccato per qualche viziaccio dal quale, facendo parte—malgré soi?—della categoria giornalistica, non potrebbe essere immune neppure se lo volesse: tutte le “caste” hanno le proprie regole, più o meno ferree, e i propri tabù.

In ogni caso, quello che il Vate ha dichiarato a Euronews (disponibili anche quattro video dell’intervista) sul «Tronchetto dell'infelicità», nonché su «destra e sinistra», informazione, Valium ecc., tutto è meno che volgarità gratuita, roba campata in aria o discorsi deliranti.

Non sarà, magari, che, a questo punto, è alle "caste" che conviene buttarla sull’offesa, in mancanza di argomenti più seri?

September 18, 2007

Scherzi da prete

Ieri ne hanno scritto in maniera persuasiva—chi più chi meno—alcune delle penne più brillanti della carta stampata (ad esempio l’ottimo Riccardo Barenghi, Paolo Franchi e Renzo Foa), ed oggi lo hanno fatto egregiamente Vittorio Feltri e Antonio Socci su Libero e Luca Ricolfi su La Stampa. Magari con un certo imbarazzo, dato che si tratta di qualcosa di effettivamente nuovo e, sotto vari aspetti, spiazzante. Penso che valga la pena di leggere attentamente e di meditare, ma qui, contrariamente al mio costume, non ne terrò conto, perché quel che mi intriga di più nella storia del Grande Annuncio di Beppe Grillo è un risvolto che non mi sembra sia stato colto (a parte, in qualche modo, quel bastian contrario del Barenghi).


Andiamo con ordine. Dunque, Grillo ha sorpreso tutti, in particolare il “suo” popolo, che in gran parte tutto si aspettava, almeno così credo, meno che il proclama di cui sopra. Perché lui, fino a poche ore fa, era soltanto un capo virtuale, in maniera consona al suo personaggio di sempre, mentre adesso si propone ufficialmente per un ruolo di protagonista della vita politica nazionale, e questo sia che faccia la sua “discesa in campo” direttamente, come in passato Berlusconi e Di Pietro, sia che voglia limitarsi a fare il coordinatore dall’esterno di un movimento con proprie liste alle prossime amministrative.

La svolta, voglio dire, ha messo nei guai non tanto e non solo la classe politica, ma in primo luogo la gente che lo ha seguito finora: adesso, se si tirano indietro, sono—detto senza offesa—un tantino poco seri. Ora, o ci si candida o si fa una magra, perché sottrarsi al dovere civico di battersi concretamente, in prima persona e dunque con sacrificio personale, per ciò in cui si crede, quando ne viene offerta la possibilità, toglie semplicemente il diritto di lamentarsi. Bella fregatura per chi del piagnisteo ha fatto un costume di vita e dell’indignazione una professione (anche soltanto part-time, perché quando uno tiene famiglia, si sa, qualche compromesso bisogna mandarlo giù). Il fatto è che, solitamente, alla gente non è che avanzi tanto tempo e voglia di sbattersi con la politica attiva, che come è noto a chi l’ha bazzicata un po’ ti succhia il sangue e quel che concede a pochissimi che arrivano ai vertici, sia pure a livello locale, lo toglie ai numerosissimi che si sbattono e basta. Perché va bene prendersela con “la casta,” ma, appunto, c’è anche gente, e non è poca, che fa politica senza altra soddisfazione che quella di aver servito una causa che ne valesse la pena.

Anche soltanto per questo, cioè per aver messo con le spalle al muro qualche centinaio di migliaia di delusi e amareggiati virtuali, Grillo meriterebbe un premio, e a darglielo dovrebbero essere proprio i tanto vituperati partiti: dopo averli delegittimati moralmente ricoprendoli di insulti, li ha riscattati facendosi egli stesso partito e costringendo i suoi fans ad assumersi delle responsabilità, pena la perdita di dignità e credibilità personale. Bello scherzetto da prete, e del resto l’insigne blogger che altro è se non il Savonarola della blogosfera?

Certo, a questo punto un rischio lo corre anche lui, ed è il peggiore per un uomo di spettacolo. La politica logora (sempre) chi la fa e disgusta (novantanove volte su cento) chi la subisce. I fischi del pubblico pagante sono praticamente quasi una certezza.

September 13, 2007

11 settembre, a mente fredda

Sei anni (e due giorni) dall’11 settembre. Un riepiologo davvero utile, a mente fredda, un servizio agli smemorati (ce n'è tanti) e un buon vademecum per chi aveva già afferrato il nocciolo della questione.

September 12, 2007

Antipolitica? Ma va

Eh già, uno non si può distrarre più di tanto, sprofondando in dottissime letture o semplicemente passando il tempo a fare ciò che non ci si concede durante i mesi in cui la Summer Edition è ormai solo un ricordo: guardare la tv, i film e i telefilm per intenderci, ché i talk shows, quelli li si guarda tutto l’anno, incluso in pole l'Otto e mezzo ferraresco, che è il vero rimpianto dei mesi caldi. Sì, mettersi tranquilli per un po’ va bene, ma non prendiamocela troppo comoda. La giudice Forleo prima (e tuttora), Beppe Grillo poi (e chissà per quanto!), ed ecco che siamo in trappola: al lavoro, e senza perdere un secondo, la patria è in pericolo, i barbari alle porte. Siamo un Paese vivace, è proprio il caso di dirlo, persino un po’ prevedibile nella sua imprevedibilità, quindi, cari compagni d’arme, sempre in stato d’allerta e naso al vento.

Il fatto è, però, che una cosa è parlare della Forleo, che è una signora talmente ligia al dovere da ritrovarsi scarsamente dotata di sense of humour, e un’altra occuparsi del signor Grillo, che fa sbellicare dalle risate i nevrotici compulsivi di mezza Italia (confluiti nelle piazze cittadine a ciò allestite) ma lascia un po’ perplessa l’altra metà dell’uditorio (quella che in piazza ci va solo a passeggiare). Va bene, ma l’antipolitica, signori perplessi? Il rischio di una deriva qualunquistico-anarcoide con ricadute populistiche e potenzialmente autoritarie? Già, questo potrebbe essere il punto.

Ma più ci penso, più mi convinco che, se Grillo non mi piace, nel suo popolo convivono non solo spiriti sarcastici e istinti primordiali, non soltanto anime belle, ma anche potenziali spiriti schietti e leali servitori della res publica, risorse positive—e un qualche merito, bisogna riconoscerlo, deve avercelo anche l’insigne blogger che si è preso cura di loro, che se li è tirati su giorno dopo giorno, con pazienza e premura materna.

Parlando la lingua di chi si esprime per slogan, direi che una parte non indifferente del popolo grillesco si rende interprete di energie che finora sono rimaste fuori dai riflettori: un esercito di disincantati ex-di sinistra, ancora a metà del guado quanto a ricollocazione e dunque disponibili a qualunque avventura, purché solo virtuale, beninteso. Odiano i partiti, vogliono distruggerli, ma attenzione, questa è “pura rappresentazione,” e colla rappresentanza, ovviamente, non c’entra nulla. Chissenefrega di cosa mettere al posto, tanto mica si fa sul serio, that’s entertainment, old sport.

Ma, un attimo, tutto questo non significa che non ci sia costrutto. Il bandolo c’è, eccome. E’ che quelle richieste tanto campate in aria non sono, A gente che è già stata disincantata dalla militanza politica, e soprattutto che non ha l’età sessantottarda dei girotondisti (diciamo “oltre” vent’anni di meno) le favolette ideologiche non le racconti più: richiedono precisamente ed esclusivamente di non essere presi in giro e vogliono vedere che carte ha in mano il Potere, il tutto a suon di Vaffa … e per il tramite di infiniti sberleffi, capriole e mangiatori di fuoco. Ma, appunto, per delle buone cause (a volte mischiate con altre cattive, ma questa è un’altra storia), nell’interesse degli oppressi che poi saremmo tutti noi, esclusi Berlusconi, D’Alema, Fassino e tutto il resto della “casta.”

Ok, questo sul popolo di Grillo. E il condottiero?—Capisco che non posso sottrarmi all’incombenza … Beh, Grillo potrebbe pure essere un agente della Cia infiltrato in una cellula di Al Qaeda e per copertura comico e blogger, ma questo cambierebbe qualcosa? Aggiungerebbe o toglierebbe qualcosa alla sostanziale giustezza, sotto il profilo empirico, della protesta pubblica?

September 7, 2007

Qualcosa 'di destra'

Ed ecco di nuovo un monsignor Ravasi controcorrente. Stavolta è un inno al coraggio, perfino con punte di aristocratico disprezzo per «i deboli». Quasi a dire (se non tradisco l'intenzione dell'Autore): c’è un Vangelo di misericordia e uno per gente “più tosta,” che non si ferma, per dire, davanti ai fuochi e fiamme dei mainstream media, come in maniera un po’ petulante usano dire quelli di destra, ma non senza talune validissime ragioni.

Quelli che preferiscono restare all’antica piuttosto che uniformarsi e sparire nel buco nero della balla sistematica e planetaria, un po’ scientifica e un po’ totalitaria, del politically correct. Un redattore di Repubblica o del Corriere, ad esempio, dovendo trattare la suddetta materia, non metterebbe tanto in risalto “il vero carattere di una persona, la sua fibra genuina, la sua capacità di lottare e sperare,” quanto l’obbligatoria (e meritoria) solidarietà e comprensione per «i deboli», e finirebbe per gettare, anche involontariamente l’ombra del sospetto su chi dimostra di saper osare. Altro che Calvinismo! Cattolicesimo di parrocchia doc, cioè un po’ una libera interpretazione pauperistica e quartomondistica di interi passi evangelici che pure contengono e/o sono preceduti oppure seguiti da espressioni forti e non di rado aspre, e a volte persino da accenni d’ira proprio nei confronti—mi si perdoni la semplificazione—della gente senza carattere, e si badi che son cattolico anch’io e che non sto meditando alcuna secessione personale, ché altrimenti cascherebbe il palco.

Insomma, al cuore della questione, c’è questo e anche quello. Ma stavolta monsignor Ravasi ha incrociato lo sguardo con quest’altra faccia della divinità bifronte. A me, comunque, il Ravasi “calvinista” è ancora più simpatico.

Prima di buttarsi in un pericolo, bisogna saperlo prevedere e temere. Ma una volta che ci si è dentro, non rimane altro che disprezzarlo.

Mi hanno regalato un'antica e splendida edizione delle Avventure di Telemaco del vescovo e scrittore francese François Fénelon. Si tratta di un vasto romanzo pedagogico sull'arte di governare se stessi e gli altri, prendendo come spunto un immaginario viaggio di Telemaco alla ricerca di suo padre Ulisse, avendo per guida Mentore, un saggio maestro di vita.

Gli spunti che il libro offre, anche a livello di rispetto delle idee altrui e di tolleranza, sono molteplici e significativi. Sfogliando quelle pagine, m'imbatto nell'ammonimento che oggi ho citato per i nostri lettori. Due sono i suggerimenti che il vescovo francese ci propone. Innanzitutto è necessario superare l'incoscienza. C'è, infatti, chi procede per le strade dell'esistenza senza precauzioni, senza attenzione, senza riflessione.

Il principio formulato da Gesù sull'equilibrio tra le qualità di semplicità e spontaneità della colomba e quelle di astuzia e di abilità del serpente rimane sempre valido per tutti. Troppo spesso ai nostri giorni ci si butta a capofitto in situazioni pericolose, con una superficialità sconcertante, scambiata per coraggio e indipendenza.

Ma c'è un'altra nota da aggiungere: una volta che si è incappati in una situazione complessa e difficile, non ci si deve avvilire, deprimere o demoralizzare. È allora che si vede il vero carattere di una persona, la sua fibra genuina, la sua capacità di lottare e sperare. Diceva un altro scrittore più vicino a noi, Hermann Hesse: «Per vie senza pericoli si mandano soltanto i deboli».
["Il Mattutino" di Gianfranco Ravasi, su Avvenire di oggi]

September 6, 2007

A ringing, pristine sound

Luciano Pavarotti dead at 71. Read today's The New York Times article to learn more about

the Italian singer whose ringing, pristine sound set a standard for operatic tenors of the postwar era [...].

Like Enrico Caruso and Jenny Lind before him, Mr. Pavarotti extended his presence far beyond the limits of Italian opera. He became a titan of pop culture. Millions saw him on television and found in his expansive personality, childlike charm and generous figure a link to an art form with which many had only a glancing familiarity.

About spiritual gifts

Now about spiritual gifts, brothers, I do not want you to be ignorant. You know that when you were pagans, somehow or other you were influenced and led astray to mute idols. Therefore I tell you that no one who is speaking by the Spirit of God says, "Jesus be cursed," and no one can say, "Jesus is Lord," except by the Holy Spirit.
1 Corinthians 12, 1-3


It is a consolation to think that for us Christians there is an intrinsic impossibility of becoming what we don’t want to become. Because “no one can say ‘Jesus is Lord,’ except by the Holy Spirit.” And that is just what we, as Christians, are committed to proclaiming wherever we go and whatever we do. Better still, because “no one who is speaking by the Spirit of God …" can say and even think anything less than a Psalm (and no prayer is sweeter, wiser, and more glorifying to God than a Psalm).

September 5, 2007

Blogosfera in evoluzione

"Non bisogna vivere nei ricordi ma fare in modo che i ricordi vivano in te."

A proposito di buone letture nella blogosfera, questa bella citazione (ex auditu) l’ho trovata nel più impensabile del blogs—o almeno così credevo: potenza dell’amore e trionfo dei sani principi
(io l’ho sempre detto che non bisogna mai disperare!)

Qui Base 1

Rieccomi, tornato alla base. Già da qualche giorno, ma sono state giornate piene. Arretrati, cose da fare, informazioni frammentarie e insufficienti (soprattutto tv). Persino scoperta di blogs interessanti e, sulla carta stampata, alcune letture piacevoli. Un atterraggio morbido dopo la trasvolata sulla Francia, che non sarà più la Douce France—come annotano, delusi e allarmati dai dati e dalle proiezioni, gli Osservatori del turismo d’oltralpe—ma è pur sempre qualche spanna più avanti a noi quanto a organizzazione dell’intero comparto turistico e cura del patrimonio culturale e ambientale. Col che si vuol dire che, forse, c’è ancora speranza per tutti noi. Parola di scout.

August 8, 2007

In buona compagnia

Ci risentiamo verso la fine del mese, ma vi lascio, spero, in buona compagnia con i due post precedenti. Del resto, ci sono tanti modi di esprimersi, e la musica a volte può essere più efficace dei discorsi …

Ma per gli irriducibili amanti del logos ho un’altra proposta: i diari di Ronald Reagan, pubblicati da poco negli States. Qualche tempo fa ho letto la recensione del Washington Post, ma quello che mi ha convinto a procurarmi al più presto il libro è questo post di un amico blogger canadese. Cari saluti a tutti.

Seven Spanish Angels


Willie Nelson reached his greatest fame when the so-called ''Outlaw country'' movement—a reaction to the Nashville sound, which was supposed to be softening the raw honky tonk sound—were whooping it up all over the U.S. during the late 1960s and the 1970s. Among the ''outlaws,'' apart from Willie himself, were musicians such as Waylon Jennings, David Allan Coe, Billy Joe Shaver, and—the most influential of them all—Johnny Cash, with his stripped-down music and straightforward lyrics.

In the video Willie and The Genius are singing together an awesome song: ''Seven Spanish Angels'' … an inspiring experience.

August 1, 2007

Hello Darlin'

Frank Sinatra once called him “the second best white male singer.” Of course, there is no doubt about the fact that he meant second best to Frank Sinatra, himself ... In turn, Johnny Cash, once was asked who his favorite singer was—his answer was, “You mean besides George Jones?” As a matter of fact George Jones is often cited as the finest vocalist in the history of country music.

In his Country Music, USA, Bill C. Malone wrote: “For the two or three minutes consumed by a song, Jones immerses himself so completely in its lyrics, and in the mood it conveys, that the listener can scarcely avoid becoming similarly involved.”

In January this year the Grammy Hall of Fame honored George Jones by inducting his 1980 hit, "He Stopped Loving Her Today" into the Grammy Hall of Fame.

In the video, George is performing a moving rendition of Conway Twitty’s hit song “Hello Darlin’,” shortly after his death. Conway was one of the United States' most successful country music artists of ever. Dolly Parton, Johnny Cash & June Carter-Cash are among the audience.

Lasciatela stare

Una decina di giorni off-line per me, e di cose, sotto il cielo, ne sono successe. Si fa per dire, ben inteso, perché di fatto non è che sia accaduto chissà cosa: solo le solite, arcinote, beghe politichesi e giudiziarie. Ma, insomma, di questo viviamo e di questo dobbiamo accontentarci, e per giunta senza fare troppo gli snob, perché le parole, anche se abusate, gonfiate e rigirate, quando sono prese sul serio da chi detiene anche un briciolo di potere, possono diventare una prigione dalla quale gli stessi potenti, e purtroppo anche i senza-potere, non riescono più ad evadere.

Così è successo che una celebre gip, Clementina Forleo, si è presa—a giudizio di qualcuno—qualche libertà lessicale di troppo e che di conseguenza mezzo Parlamento e—udite udite—parecchi magistrati (nel silenzio dell'Anm), gliene hanno dette di tutti i colori. Ma questo è il meno (nel senso che, date le circostanze e le parti in causa, era praticamente scontato), dal momento che lo stesso Capo dello Stato, nella sua qualità di presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, ha bacchettato la meschina e il ministro della Giustizia ha incaricato i suoi uffici di acquisire l’ordinanza, a causa di una sua presunta «singolarità». Al che il presidente emerito Francesco Cossiga ha bacchettato a sua volta il Guardasigilli, ravvisando una «pesante interferenza».

Infine, colpo di scena: Silvio Berlusconi ha deciso di andare a soccorrere le presunte vittime della perfida Clementina. La quale, giova ricordarlo, finora non si è distinta soltanto per la controversa distinzione tra terrorismo e guerriglia, dal momento che una volta ha fatto spellare le mani a qualche centinaio di avvocati riuniti a convegno, ai quali, a sorpresa, dichiarò di essere favorevole alla separazione delle carriere nella magistratura. Il che, come minimo, non contraddice affatto le definizioni di se stessa che la succitata propone in privato agli amici: «Non sono al servizio di nessuno» e «Sono soggetta solo alla legge». E non contraddice per niente la sua definizione del magistrato in quanto tale:
«Un magistrato, a differenza di un politico, non deve conoscere la mediazione e il compromesso. A meno che non voglia fare altro, a meno che non voglia venire meno ai suoi doveri costituzionali».

Tornando al punto, diciamo che, se tutto l’affaire è alquanto complicato, un paio di concetti dovrebbero risultare chiari a chiunque si sforzi di guardare a queste vicende con un minimo di obiettività:

a) in primo luogo, Clementina Forleo non c’entra nulla né con l’ideologia, né con i complotti e le manovre (politiche, mediatiche, ecc.) che pure, volendo, si possono intravedere qua e là, nella tempistica degli eventi, nelle dichiarazioni e nei proclami pubblici di questo o quel capo e capetto, e nella gestione delle notizie;

b) in secondo luogo la gip di Milano non ha fatto o scritto nulla che fosse men che ineccepibile dal punto di vista delle prerogative e dei limiti che la legge—pur con tutte le sue imperfezioni e i suoi pasticci—prevede per chi esercita la funzione di giudice per le indagini preliminari. In particolare non possono esserci dubbi che al gip sia comunque prescritto l’obbligo di segnalare possibili indagati non ancora iscritti come tali e possibili reati Ma questa non è solo l’opinione di Clementina Forleo: la pensa esattamente allo stesso modo il principe dei “proceduralisti” italiani, Franco Cordero (la Repubblica del 25 luglio scorso).

Dopodiché può benissimo aver ragione (di nuovo) Francesco Cossiga, sia quando rinfaccia a Mastella di essere in «netta contraddizione» con le linee guida seguite dalla «controriforma giudiziaria» appena approvata dalle Camere, sintetizzabili nel concetto che «i magistrati hanno sempre ragione», sia quando sostiene che l’ascesa di Walter Veltroni «è il frutto della pubblicazione di quelle telefonate» di D’Alema e Fassino.

E può aver ragione anche Lino Iannuzzi, che in una lettera pubblicata ieri sul Foglio sottolinea che «il paradosso della situazione» è che l’unica possibilità che il partito di Fassino non si dissolva e sparisca con esso la seconda Repubblica è affidata a Silvio Berlusconi,


che è rimasto l’unico a dire no. Berlusconi, il trionfatore dell’antipolitica, è rimasto l’unico a difendere la politica. La difende contro l’urto della magistratura anche contro i suoi alleati, e persino contro le sue televisioni e i suoi giornali e una buona parte dei suoi parlamentari e dei suoi stessi elettori. Perché questo ha di singolare, e l’ha avuto dal primo momento, l’antipolitica di Berlusconi, questo nocciolo duro del garantismo che la contrappone inesorabilmente al giustizialismo, che è la vera madre di tutte le antipolitiche, ma non della sua.

Quel che non mi è chiaro, semmai, è cosa diavolo c’entri—ammesso che qualcuno pensi davvero che un link ci sia—Clementina Forleo con tutto questo.